Un conflitto di tipo nuovo
di Vittorio Mathieu


Se non sbaglio, l'ultima dichiarazione formale di guerra fu quella dell'Italia a Francia e Gran Bretagna nel giugno del 1940. Oggi nessun governo compirebbe un passo del genere, che lo metterebbe in cattiva luce, anche se è del tutto dalla parte della ragione. Quando le Falkland, sotto sovranità inglese, furono invase da forze argentine, ci fu una guerra, ma non dichiarata. Ultimatum, intimazioni, ammonimenti, messaggi, al limite manifestazioni di piazza han preso il posto delle dichiarazioni formali. Il risultato è che chiunque può iniziare una guerra, anche un privato, e non solo quegli enti di diritto internazionale che dal Cinquecento in poi sono chiamati "stati". Una questione elegante sarebbe se l'Ordine di Malta - che, oltre ad essere sovrano, è "militare" - sarebbe tuttora titolare di uno ius belli, benché gli manchi il requisito della effettività. Ma il problema veramente grave è l'inverso. E' il problema di organizzazioni che hanno effettivamente la capacità di condurre una guerra, benché non abbiano alcun titolo per farlo. Se l'aggressore è uno stato, come l'India di Pandit Nehru quando invase Goa, la cui popolazione si sentiva portoghese, la risposta può essere quella di Salazar: "Poiché non han concesso alle nostre forze aerotrasportate uno scalo intermedio, non posso reagire. Però, se a iniziare una guerra basta uno, per concludere la pace occorre essere in due". 

Al contrario, quando non si tratta di uno stato, bensì di un privato o anche di una Ong (Organizzazione non governativa), rispondere con la forza è molto più difficile perché occorrerebbe esercitare controazioni belliche sul territorio di altri stati o perfino al limite del proprio, violando il diritto internazionale o la propria costituzione. La filosofia del diritto dovrebbe occuparsi del problema: il tradizionale ius belli ac pacis va rivisto o, forse, va reintegrato nel suo spirito originario che permetteva, ad esempio, di attaccare i pirati nei loro covi, ovunque si trovassero. Il caso degli scafisti albanesi, che sono in grado di far dissequestrare i loro gommoni minacciando di morte il capo della polizia è caratteristico. Così pure la protezione che offre loro un carico di ostaggi, non solo volontari, ma che han pagato per il passaggio molto più di quanto avrebbero speso su una nave di linea. Nelle guerre private e non dichiarate la funzione degli ostaggi è fondamentale e la maggior parte delle vittime è costituita da civili.

Quanto è avvenuto a New York e a Washington ha messo in luce una capacità inaspettata dell'aggressore; ma l'impossibilità di difendersi coi mezzi tradizionali era evidente da tempo. Pochi giorni prima, commentando i fatti di Genova, osservavo che quel tipo di manifestazioni "pacifiche" del dissenso era la continuazione della guerra con altri mezzi. Ma già molti anni prima, a proposito del modo di far fronte al terrorismo, avevo pubblicato un articolo intitolato: "Siamo in guerra". Un altro giornalista mi mosse la solita obiezione: "Non siamo nel Far West". Io la accettai in pieno controcommentando: "Purtroppo siamo nel Middle Est".

L'attacco alle torri gemelle e al Pentagono, condotto con normali aerei di linea, carichi di civili, battenti bandiera del paese attaccato e partiti da basi interne, porta alla perfezione questo tipo di guerra. Ne rappresenta, per dire così, l'archetipo. Impedisce di reagire contro l'esterno perché tutto è fatto in casa. Pare che gli stessi pirati che, a un certo punto, si sono sostituiti ai piloti fossero stati addestrati in casa. Pare che lo stesso organizzatore sia un miliardario privato, istruito a suo tempo, per altri scopi, dalla Cia. Quando Robespierre proclamava che il nemico esterno e l'interno sono tutt'uno, non pensava che la storia gli avrebbe dato ragione al punto di rendere il nemico esterno inafferrabile, come se non esistesse.

La lezione per gli americani, è tremenda, non tanto per il numero dei morti - che farebbe notizia perfino in India o in Cina - quanto perché dimostra che devono cambiare il loro modo di concepire la guerra. Del modo di combattere tipico degli stati maggiori si suol dire che è sempre in ritardo di una guerra. Di molti politici e analisti eccellenti si dovrebbe dire che sono in ritardo di due. Il modello preferito fin qui dagli Usa era quello di scaricare valanghe di bombe su obiettivi presunti. Esso risale effettivamente alla tattica inglese della battaglia della Somme (1916), per la quale l'industria bellica lavorò un anno. Quando i fanti si mossero, credendo che le trincee tedesche fossero state spianate, riemersero le mitragliatrici e fu una strage. L'artiglieria non sapeva neppure di quanto allungare il tiro di controinterdizione senza colpire le proprie truppe scattate in avanti. Oggi, i mezzi tecnici sono infinitamente più perfetti, ma nulla possono quando il nemico si mescola a noi. La speranza di vincere con pochissime perdite grazie alla supremazia tecnologica si dimostra vana. Ha portato alla sconfitta anche là dove sul territorio si trovavano molti più amici che nemici, come in Vietnam. Individuare in tempo quelli e questi diviene un compito primario.

La sacrosanta esigenza di distinguere tra militari e civili purtroppo oggi non regge più. Neppure al borghese più pacifico, al bambino, all'anziano si può garantire la sicurezza. Già nel secondo conflitto mondiale, a differenza che nel primo, il vestire un'uniforme dava più speranza di non finire ammazzati che il non vestirla. Ora abbiamo letto che sul quarto aereo, che non è giunto a bersaglio, la reazione sarebbe venuta dai passeggeri, che avrebbero deciso addirittura con una votazione di sacrificarsi anziché tentare una trattativa. Può darsi che sia una leggenda, ma, se anche lo fosse, rassegnamoci ad ammettere che è atta ad insegnare qualcosa di molto triste, ma di necessario, a tutti noi.

14 settembre 2001

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