Qui Seattle. Scatta l'orgoglio americano
di Salvatore Vescina
Transito da New York 9 ore prima degli attentati. Mi stupisce che i velivoli, per accedere all'aeroporto, facciano un percorso abbastanza contorto sulla città. Una volta atterrati siamo al controllo bagagli e passaporti, severo e attentissimo. Divieto di fotografare l'aeroporto, anche nei più banali corridoi. Nel cuore della notte arrivo a Seattle. L'indomani mattina, l'apocalisse.
I tempi di reazione sono sorprendenti. A tre ore dalla prima esplosione Seattle è stordita - come tutta l'America - ma vi sono comportamenti razionali e improntati alla necessaria prudenza. A cinque ore dal primo attacco mancano all'appello quattro velivoli, saranno rintracciati solo più tardi. Tutti i grattacieli vengono fatti evaquare, e così la fiera dell'aeronautica e tutti i luoghi simbolo e potenziali bersagli dove possono esservi molte persone. Le bandiere sono già tutte a mezza asta.
Copertura mediatica immediata. Reazione corale, altro che il bipartisan all'italiana. Il presidente Bush, il sindaco Giuliani, il senatore Hillary Clinton, repubblicani e democratici, tutti in coro: chiunque - individui, organizzazioni, governi - abbia partecipato in qualsiasi modo agli attentati è in guerra aperta con gli Usa. Nessuna polemica, nessun dubbio, nessuna strumentalizzazione. Appare incredibile che nessun giornalista, nessun politico, nessun commentatore, ponga le domande che ci potremmo aspettare: come mai aerei completamente fuori rotta non hanno allarmato nessuno? Come mai il Pentagono era privo di protezione antiaerea, eppure era un obiettivo sensibile? Financo l'aviazione italiana aveva apprestato un ombrello di copertura antiaerea per il G-8!
Negli Usa non è il momento delle polemiche, non è neppure il momento dei dubbi. E' il momento della solidarietà nazionale, della dimostazione di orgoglio e di capacità di reazione. E allora sono in centinaia, pazienti in fila, per donare il sangue. Gesto necessario e al contempo simbolico.
A 15 ore dal primo attacco manifestazione di piazza a Seattle, la città simbolo, il luogo che ha dato i natali al movimento antiglobal, pacifista, ambientalista, olista. Sul palco si alternano un po' di giovanotti, per lo più con un look hippy anni '70. Penso ai morti della mattina e questi giovani trendy mi sembrano dei "fichetti" fuori luogo. Talvolta salutano con il pugno sinistro. Un solo slogan: P-E-A-C-E. Una sola canzone: give peace a chance. Critiche al governo Usa reo di condurre politiche imperialiste e militariste che attraggono sull'America l'odio di tutto il mondo. Timori per eventuali rappresaglie Usa e appelli per una pace disarmata.
Sembrerebbe tutto da copione, eccetto un particolare. In piazza - ripeto, a 15 ore dagli attentati - ci sono al massimo 250 persone e almeno la metà sono i curiosi di passaggio. E allora dove è il leggendario "popolo"? Ho il sospetto che per avere non dico una moltitudine, ma almeno una piccola folla, ci vogliono settimane di organizzazione, occorre mettere in moto una burocrazia che è stata capace di fingere l'esistenza di un grande movimento spontaneo.
14
settembre 2001
salvatore.vescina@libero.it
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