Iran, gli stretti spiragli di Khatami
di Giuseppe Mancini 


Nella costruzione della coalizione contro Osama bin Laden e i talebani che lo ospitano, condotta faticosamente ma con impareggiabile sapienza politica dal presidente Bush e dal suo team, l'Iran avrebbe potuto giocare un ruolo determinante: una posizione geostrategica invidiabile, dei rapporti difficili con i talebani, una fattiva collaborazione con l'Alleanza del Nord dello scomparso comandante Massud (fatto fuori, a quanto pare, da un commando talebano due giorni prima degli attentati dell'11 settembre), la necessità di fronteggiare una massiccia ondata di profughi in caso di aperto conflitto in Afghanistan. Purtroppo, il dossier Iran ereditato dall'amministrazione Clinton è fallimentare: la politica del Dual Containment, del doppio e simultaneo contenimento di Irak ed Iran, ha creato nell'area del Golfo persico instabilità generalizzata e turbolenze, di cui i talebani, col sostegno del Pakistan, hanno approfittato con maestria. Nonostante gli sforzi della diplomazia europea, con quella italiana particolarmente attiva e per giunta coadiuvata dalla penetrazione economica dell'Eni, l'Iran rimane uno stato politicamente isolato ed economicamente fragile. Le riforme del presidente Khatami, senza aiuti decisivi da parte dell'Occidente e anzi assediate da un regime sanzionatorio non impermeabile ma comunque fastidioso, sono rimaste lettera morta. Katami che pure aveva acceso le speranze per un definitivo accantonamento delle velleità rivoluzionarie di Teheran e per l'indispensabile modernizzazione del paese.

Certo, è pur vero che l'Iran ha in passato sostenuto e probabilmente ancora oggi sostiene (i servizi di sicurezza vicini all'ala oltranzista del regime, legata tuttora agli ideali puristi della rivoluzione del 1979) il terrorismo anti-israeliano; ma qualsiasi legame con Osama bin Laden, qualsiasi coinvolgimento negli attentati dell'11 settembre è categoricamente da escludere. Soprattutto in virtù dei cattivi rapporti col regime dei talebani: una gravissima crisi ha portato sull'orlo della guerra, nell'autunno del 1998, quando alcuni diplomatici e giornalisti iraniani residenti in Afghanistan vennero trucidati da milizie talebane. L'Iran, da sempre opposto al pericoloso fanatismo degli studenti-guerriglieri che travisano gli insegnamenti coranici, venne dissuaso da Washington all'intervento militare, fondato sull'orgoglio nazionale, ma non solo. Evitando di addentrarci nel fitto intreccio delle vie di comunicazione petrolifere, basterà ricordare la presenza sul territorio iraniano di 2 milioni di profughi afgani, d'ogni sorta d'etnia, fuggiti a partire dall'invasione sovietica del 1979, in numero ancora consistente dopo la presa del potere dei talebani nel 1996. Con tutta probabilità di concerto con l'Alleanza del Nord del comandante Massud, tale intervento avrebbe procurato nel medio termine una rinnovata - seppur imperfetta - stabilità, e presumibilmente avrebbe contribuito a stanare Osama bin Laden.

Oggi, tuttavia, non serve rammaricarsi per le occasioni perdute, per le occasioni perdute da altri. L'amministrazione Bush dovrebbe avere il coraggio di cogliere gli spiragli aperti dal presidente iraniano Khatami, che pur non potendo appoggiare l'intervento americano per ragioni di politica interna - ma anche i conservatori hanno condannato con convinto sdegno gli attacchi terroristici agli Usa - dalla crisi s'aspetta di guadagnarci. Segnatamente, confida in quegli appoggi esterni di cui il suo progetto riformista ha disperato bisogno. Senza riforme, economiche ed in parte politiche, l'Iran potrebbe esplodere una seconda volta, in uno scontro senza quartiere tra religiosi e laici: inutile dire che il terrorismo internazionale ne trarrebbe giovamento. Un primo passo, semplice ed indolore, potrebbe essere l'abolizione delle sanzioni economiche contro l'Iran, inutili e controproducenti, se la lotta al terrorismo vuole essere impegno concreto e non intervento di facciata, come i missili clintoniani del 1998 contro Afghanistan e Sudan. Forse, è venuto il momento che gli americani, uscendo finalmente dagli schemi mentali della Guerra fredda, capiscano che il mondo non è fatto solo di nemici e di alleati, perché tra i due estremi c'è un buon numero pacifico di stati coi quali semplicemente convivere, quando serve anche collaborare, nel rispetto delle differenze.

21 settembre 2001

giuse.mancini@libero.it