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Bce, una visione troppo monetarista dell'economia
di EMANUELA MELCHIORRE

[12 giu 08] In un sistema di banche centrali come quello europeo, in cui prevale la visione monetarista dell’economia, il metro di giudizio per le previsioni per il futuro dell’eurozona è esclusivamente quello monetario e trascura tutte le implicazioni di carattere economico della congiuntura sfavorevole di questi ultimi anni, tra cui la crescita del Pil dei Paesi dell’area dell’euro e dei livelli occupazionali, nonché l’andamento degli investimenti e della produttività del lavoro. Ciò è evidente qualora si legga lo statuto della Banca centrale europea, che ha come unico obiettivo quello di mantenere il livello di inflazione al di sotto del 2 per cento. Esso si differenzia sostanzialmente dallo statuto della Federal Reserve, che al contrario pone sullo stesso piano la tutela del potere d’acquisto del biglietto verde, del livello occupazionale e della crescita economica della Federazione americana. Ciò posto, è evidente che le decisioni di tenere alti i tassi di interesse per contrastare l’insorgere dell’inflazione sia l’unica politica posta in essere dalla Bce, che agisce in perfetta autonomia. Quella monetaria è, infatti, l’unica politica accentrata e comune per tutti i Paesi dell’Unione europea. In quanto tale, pertanto, è uniforme in tutta l’area e non considera la situazione economica di ogni Paese membro.

Le previsioni al rialzo della Bce riguardo il tasso di inflazione dell’eurozona, pertanto, anche se non hanno sortito l’effetto immediato di un incremento del tasso di interesse di riferimento, che rimane al 4 per cento, comporteranno con buona probabilità, secondo quanto sostiene il banchiere centrale Jean-Claude Trichet, l’aumento di un quarto di punto percentuale entro luglio. Egli sostiene che un incremento dei tassi e la conseguente rivalutazione del cambio euro/dollaro possano giovare a contrastare l’inflazione nell’eurozona. Il banchiere centrale però trascura le cause dell’incremento dei prezzi che possono essere contrastate solo mediante politiche economiche oculate. Egli non si cura, inoltre, degli effetti che gli alti tassi comportano all’interno dell’area dell’euro. L’alto costo del capitale, infatti, è un disincentivo all’investimento per le imprese, che trovano oneroso aumentare la quota di capitale tecnico, ovvero tecnologico, che permetterebbe l’aumento della produttività del lavoro e con esso l’aumento della produzione e dell’occupazione. L’origine dell’inflazione internazionale e di quella importata nell’Unione europea risiede in gran parte nell’andamento dei prezzi delle materie prime (energetiche in primo luogo e di conseguenza alimentari) che risentono dell’andamento del cambio del dollaro. I Paesi produttori di petrolio, infatti, per contrastare la perdita del potere d’acquisto del dollaro, e quindi dei loro profitti, lasciano sostanzialmente stabile la produzione a fronte di una domanda crescente, che comporta in ultima analisi un incremento del prezzo di listino del greggio. L’andamento dell’inflazione sarebbe in parte già stato contrastato, quindi, se i Paesi dell’Unione europea avessero da tempo posto in essere una politica energetica comune, che incentivasse la creazione di centrali nucleari e che permettesse di liberarsi dal giogo della dipendenza dall’estero per l’importazione di gas e petrolio. 

Da qui la considerazione che le politiche monetarie della Bce non sono sufficienti per contrastare l’andamento dell’inflazione e che hanno effetti depressivi sull’economia dell’area dell’euro. Occorrono invece politiche economiche di sviluppo che siano lungimiranti e coraggiose. La critica deve però spingersi oltre, fino ad affermare che l’attuale separazione delle politiche economiche e monetarie, con la titolarità della politica monetaria riconosciuta alla banca centrale indipendente, ha prodotto effetti perversi. I tempi sono infatti ormai maturi per considerare la politica di bilancio, o meglio il deficit spending, come uno strumento utile per innescare una spirale virtuosa di sviluppo economico, specie se destinata alla creazione di infrastrutture in ambito energetico e per ammodernare le vie di comunicazione. I parametri di Maastricht impediscono all'economia dell'eurozona di crescere in funzione delle sue molte potenzialità. Da quando è stato firmato il patto di stabilità tra i Paesi aderenti, la crescita del Pil, dei consumi e, soprattutto, degli investimenti è stata modesta, rimanendo inferiore a oltre la metà della crescita degli Stati Uniti. Ora siamo in recessione, con la produzione industriale italiana che registra valori di crescita negativi, le esportazioni verso i Paesi terzi sono ostacolate dall’euro forte e in tutta l’Ue l'inflazione è, secondo la Bce, al 3,4 per cento. È quindi più che auspicabile, anzi si impone, un cambiamento della politica economica dell'eurozona e, prima di tutto, una modificazione dello statuto della Bce, in modo che i governi e i parlamenti dei Paesi membri riacquisiscano almeno in parte i poteri monetari, cui hanno abdicato a favore della Bce indipendente.


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