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      La politica è comunicazionedi Giovanni Bechelloni
 da Ideazione, settembre-ottobre 2003
 
 Ho passato la prima settimana di luglio dedicando molte ore al giorno alla 
      lettura sia dei quotidiani italiani sia del bel libro di Todorov, uscito 
      più di vent’anni fa e dedicato ad analizzare i drammatici problemi di 
      comunicazione che insorsero dal 1492 fino alla fine del Cinquecento tra 
      gli spagnoli e gli “indiani” d’America. Tali letture mi hanno confermato 
      un’ipotesi, che vado sviluppando da qualche tempo, sulla genesi e 
      sull’eziologia dei pericoli di fronte ai quali si trova oggi la comunità 
      umana se non si affrontano e si risolvono i problemi di comunicazione che 
      la stanno travolgendo. Lungi, infatti, dal trovarci, come molti 
      scioccamente blaterano, in una società dominata dalla comunicazione, ci 
      troviamo nel bel mezzo di una gravissima crisi della comunicazione, 
      caratterizzata dalla mala comunicazione e dalla non comunicazione. Una 
      crisi che rischia di travolgerci. Il giornalismo, e massimamente il 
      giornalismo politico, ne è ad un tempo vittima e concausa. In questo 
      articolo mi limiterò ad accennare ai problemi di fronte ai quali si trova 
      oggi la comunicazione giornalistica e in particolare il giornalismo 
      politico italiano. In entrambi i casi si tratta di problemi che sono sia 
      specificazioni di più generali problemi di comunicazione che ho trattato 
      altrove sia declinazioni italiane di problemi che assumono configurazioni 
      assai simili anche in tutti gli altri paesi a regime liberal-democratico 
      dell’Europa e di altri continenti.
 
 Comunicazione, giornalismo e politica
 
 La comunicazione giornalistica è la matrice prima di quel complesso lavoro 
      che nelle società secolarizzate e modernizzate gli esseri umani compiono 
      per costruire i significati condivisi, o condivisibili, che contribuiscono 
      a dare senso alla loro vita. Per quanto triviale e povera tale 
      comunicazione giornalistica possa apparire essa sta al centro del sistema 
      dei media e si intreccia alla vita quotidiana della maggior parte degli 
      esseri umani della nostra contemporaneità.
 Il giornalismo politico, quale che sia la definizione più o meno ampia che 
      ne vogliamo dare, sta, a sua volta, al centro della comunicazione 
      giornalistica. E non si può capire il giornalismo se non si capisce la 
      politica. E non si può capire la politica se non si capisce la lezione dei 
      due grandi fiorentini che hanno fondato la politica dei moderni: Dante 
      Alighieri e Niccolò Machiavelli.
 La comunicazione, il giornalismo e la politica hanno a che fare con 
      “l’altro”. Un altro da conoscere e convocare per costruire conversazione e 
      dialogo, significati e partecipazione. Se non c’è conoscenza non ci può 
      essere convocazione, se non c’è convocazione non ci può essere dialogo e 
      mediazione. La politica è mediazione; ma è anche decisione: capacità di 
      indicare una meta e uno scopo e di “trascinare” verso una missione comune 
      e partecipata i membri di una comunità, gli esseri umani che abitano il 
      mondo.
 
 Il giornalismo nasce e si sviluppa con la modernità, è parte essenziale 
      del percorso che la politica compie per realizzare la libertà dei moderni 
      (Benjamin Constant), per far nascere, sviluppare e mantenere vitali le 
      istituzioni liberal-democratiche. Non si può parlare, in senso proprio, di 
      giornalismo se mancano le istituzioni liberal-democratiche (James Carey). 
      Quando comunicazione, giornalismo e politica non riescono a sintonizzarsi 
      le società umane sono attraversate da conflitti distruttivi e laceranti. 
      La violenza distruttiva e le guerre sono indicatori dell’incapacità umana 
      di conoscere e comunicare. Riconoscere l’altro per come è, diverso da noi 
      e da come ci piacerebbe che fosse, è la premessa indispensabile di ogni 
      comunicazione umana, del giornalismo e della stessa politica.
 
 Il libro di Todorov sulla conquista dell’America ci mostra, con grande 
      efficacia argomentativa e narrativa, l’enorme forza distruttiva che può 
      derivare dall’incapacità umana di riconoscere e conoscere “l’altro”, di 
      attivare una comunicazione costruttiva di relazioni sociali reciprocamente 
      cooperative. Gli orrori di cui si resero protagonisti gli spagnoli di 
      allora nello sterminio di decine di milioni di indiani, se, da un lato, 
      resteranno insuperati, dall’altro preannunciano comportamenti tipicamente 
      moderni; che si ripeteranno nel corso del Novecento e hanno in comune la 
      medesima matrice: l’incapacità di riconoscere e conoscere “l’altro”, 
      l’incapacità di comunicare. Le trasformazioni del campo giornalistico che 
      si sono realizzate negli ultimi dieci-quindici anni, in Italia e negli 
      altri paesi liberal-democratici, rischiano di separare il giornalismo 
      politico dai suoi protagonisti e interlocutori principali, che sono i 
      politici e le istituzioni liberal-democratiche. Il tipo di giornalismo 
      politico che si è venuto sviluppando - un giornalismo critico contro al 
      posto di un giornalismo critico per - rischia di allontanare i cittadini 
      dalla politica consegnandoli inermi, sprovveduti e ignoranti, alla deriva 
      nihilistica che dopo l’11 settembre galleggia intorno a noi favorendo la 
      presa del nuovo totalitarismo che prepotentemente si è affacciato al 
      nostro orizzonte.
 
 L’ostacolo principale al riconoscimento “dell’altro” che impedì agli 
      spagnoli del Cinquecento di comunicare con gli indiani d’America derivò 
      dall’arroganza di chi riconosce una sola verità, ostacolo che si è 
      perpetuato nei totalitarismi del Ventesimo secolo (quello nazi-fascista e 
      quello comunistico-sovietico) e nel nuovo totalitarismo contemporaneo di 
      matrice islamico-fondamentalista che ad essi è succeduto (Paul Berman).
 A quel tipo di ostacolo - l’arroganza della verità - se ne è aggiunto oggi 
      un altro che solo alla lontana assomiglia al sentimento negativo che si 
      impossessò degli indiani d’America consegnandoli inermi e sprovveduti alle 
      brame distruttive degli spagnoli e degli altri europei armati da 
      un’avidità sconfinata che essi credevano benedetta da Dio. Alludo, 
      appunto, alla deriva nihilistica che ha cominciato a diffondersi con la 
      morte di Dio proclamata da Nietzsche e il parallelo trionfo di quel 
      positivismo scientista che celebra oggi i suoi successi con le tecnologie 
      informatiche deputate a rispondere ai bisogni di conoscenza e di 
      trascendenza degli esseri umani.
 
 Oggi “l’altro” non è più, come nel Cinquecento, lontano da noi. E' tra noi 
      e dentro di noi, come conseguenza di quei processi di trasformazione e di 
      apprendimento continuo che oggi chiamiamo modernizzazione. Siamo 
      diventati, come la psicoanalisi e la fenomenologia ci hanno insegnato, 
      altri a noi stessi. Se non riusciamo a riconoscerci, per poterci conoscere 
      e per poter comunicare, spogliandoci della doppia arroganza che sta 
      inquinando il nostro mondo umano - quella di chi, seguace del 
      totalitarismo, presume di possedere l’unica verità e quella di chi si 
      abbandona senza nessuna verità e senza nessuna trascendenza a un flusso 
      degli eventi privo di senso - saremo inevitabilmente condannati a 
      concludere la nostra “esistenza storica”, come Eric Nolte sta tentando di 
      dirci.
 E' per questi motivi che è necessario tornare a pensare il giornalismo e 
      la politica. Per non rassegnarci a vivere una vita svuotata dei 
      significati che solo ciascuno di noi può contribuire a costruire. 
      Servendoci anche di un giornalismo che vorremmo meno ingenuo e 
      sprovveduto, meno prigioniero del suo inconsapevole nihilismo 
      positivistico e informatico.
 
 Il comportamento del giornalismo politico italiano non è molto diverso da 
      quello di altri paesi. Dobbiamo imparare a riconoscere i suoi limiti e le 
      sue spesso inconsapevoli derive e trovare le vie per costruire 
      professionalità giornalistiche meno tecniche e più adeguate a raccontare 
      le complesse e opache vicende che caratterizzano la nostra difficile 
      contemporaneità.
 Ciò che qui scrivo vuole essere un modo per avviare l’analisi e la 
      discussione. Innanzitutto partendo dalla forte sottolineatura 
      dell’importanza del tema. Senza percepire le capacità distruttive e 
      costruttive del giornalismo politico non è possibile pensare la politica 
      che ci è oggi necessaria per salvarci. Se, alla luce di quanto ho qui 
      sinteticamente scritto, rileggiamo ciò che si è scritto, riascoltiamo ciò 
      che si è detto e rivediamo ciò che è stato mostrato nella prima settimana 
      del luglio 2003 possiamo capire, io penso, i limiti e i rischi connessi a 
      un modo di fare giornalismo politico che in quella settimana si è 
      dispiegato alla grande. La carica di negatività, delegittimazione e 
      distruttività che è emersa è stata davvero imponente, trasformando quella 
      che doveva essere una cerimonia politica carica di significati simbolici 
      (che hanno a che vedere con la sacralità e la trascendenza che tipicamente 
      tali cerimonie hanno o dovrebbero avere in una società secolarizzata) in 
      una “piazzata”.
 
 Lo scontro politico, la contrapposizione tra due diversi modi di concepire 
      il futuro dell’Europa e le relazioni euro-atlantiche, è stato messo in 
      scena sia dai suoi più diretti protagonisti nell’aula del Parlamento 
      europeo sia, e soprattutto, dalle enfatizzazioni giornalistiche che lo 
      hanno comunicato alle audience generalistiche, al mondo sociale dei 
      cittadini e degli elettori, in forma ultraspettacolarizzata. Secondo 
      modalità discorsive e cornici interpretative che non solo distruggevano in 
      un colpo i significati simbolici della cerimonia, delegittimando 
      pesantemente la politica, le istituzioni e i suoi principali protagonisti, 
      ma impoverendo pesantemente i contenuti cognitivi di un evento che avrebbe 
      dovuto conseguire lo scopo di informare i cittadini europei (e il più 
      vasto mondo sociale) sulle opzioni politiche e sulle strategie d’azione 
      che si sarebbero attivate nel semestre europeo più importante degli ultimi 
      anni. Invece di informare, invece di contribuire ad accrescere le 
      conoscenze, il giornalismo politico messo in scena per il pubblico 
      generale, con il pretesto di accendere i riflettori su un particolare, 
      ritenuto, a torto, illuminante e significativo, ha finito per dar retta, 
      per usare le parole di Todorov trascritte in apertura, a “coloro che non 
      si curano di sapere” e a “coloro che si astengono dall’informare”.
 
 Al posto dell’informazione il giornalismo politico si è rivolto al 
      pubblico generale costruendo una gogna. E' stato messo alla gogna il 
      gaffeur presidente del Consiglio italiano nel momento stesso in cui 
      assumeva la carica di presidente del Consiglio europeo, è stato messo alla 
      gogna l’intemperante capogruppo dei socialdemocratici tedeschi, sono stati 
      messi alla gogna gli italiani, i tedeschi e gli europei. Una gogna che ha 
      avuto il risultato di accendere i riflettori su “cose” già note 
      (prevedibili e previste) e di rafforzare stereotipi che sono di ostacolo a 
      una concertazione europea che tutti ritengono auspicabile e necessaria.
 Cui prodest, a chi o a cosa giova un giornalismo politico giocato su tali 
      corde comunicative? Qualcuno risponde: è un modo per rendere popolare il 
      giornalismo, per alzare l’audience e per vendere più copie. Può darsi. Ma, 
      così facendo il giornalismo si comporta in modo “responsabile”? Si 
      dimostra assertore di quella responsabilità che è figlia della libertà dei 
      moderni? A me non pare. A me pare che così facendo il giornalismo politico 
      rinuncia alla sua missione di informare il pubblico generale e 
      contribuisce a costruire quelle opinioni pubbliche disinformate e metà 
      isteriche che alimentano populismi e demagogie e che rischiano di 
      affossare per sempre le istituzioni liberal-democratiche che alcuni paesi 
      dell’Occidente hanno faticosamente costruito, among trials and errors, 
      negli ultimi due secoli e poco più.
 
 Ecco quali sono gli “equivoci giochi” ai quali alludo nel titolo di questo 
      articolo. Si tratta di cornici e di stilemi interpretativi che giocano 
      sugli equivoci, sui doppi sensi, sulle ambiguità. Non per cercare di 
      capire meglio una realtà sociale e politica terribilmente complessa ma per 
      semplificare la comunicazione, con l’illusione di renderla più chiara e 
      percepibile dai pubblici popolari. Ai quali ci si rivolge pensando che non 
      siano in grado di capire, di imparare a capire. Con parole e in termini 
      diversi tale cieca e distorta strategia comunicativa perseguita dal 
      giornalismo politico popolare dei nostri giorni non mi sembra troppo 
      diversa da quella messa in atto dagli spagnoli del Cinquecento verso gli 
      “indiani” d’America.
 Ma cerchiamo di capire adesso, nelle pagine che seguono, come si è 
      arrivati, attraverso quali tappe, a tali formati giornalistici nell’Italia 
      degli ultimi anni.
 
 La tradizione italiana
 
 Il giornalismo politico italiano nella sua ormai lunga storia ha sempre 
      mirato in alto. E' stato sì fazioso e diviso, è stato sì prevalentemente 
      governativo e allineato con quello che sembrava essere, nelle differenti 
      epoche storiche, il sentimento dominante delle classi dirigenti e, in 
      certi momenti, anche del popolo (o di loro importanti frazioni) ma lo è 
      stato riuscendo a credere e a far credere che mirava in alto, che guardava 
      lontano. In altre parole il giornalismo politico italiano, nella sua 
      configurazione prevalente, si è comportato come se fosse consapevole di 
      avere una missione da svolgere nell’interesse dei suoi lettori; visti sia 
      come membri di una classe dirigente sia come cittadini di uno Stato e di 
      una nazione che aveva una parte da giocare nel concerto degli altri Stati 
      e delle altre nazioni.
 Se i giornali quotidiani in Italia erano meno letti che altrove ciò non 
      accadeva, come è stato detto e scritto, perché erano mal fatti o perché 
      erano troppo faziosi, bensì perché i livelli di alfabetizzazione della 
      popolazione erano drammaticamente inferiori a quelli di tutti gli altri 
      paesi con i quali ci si confrontava, e le lotte politiche erano fortemente 
      condizionate dalle onde lunghe della storia degli italiani.
 
 E oggi possiamo ritenere come minimo ingeneroso il fulminante ritratto, 
      letterariamente e sociologicamente pregevole, che Enzo Forcella tracciò 
      verso la fine degli anni Cinquanta del giornalismo politico italiano (nel 
      suo celebre saggio sui millecinquecento lettori pubblicato su Tempo 
      presente e recentemente ristampato da Problemi dell’informazione). Perché 
      cominciare con una specie di elogio del giornalismo politico di antan? 
      Quello sanguigno e caustico, esangue o criptico, che ci ha accompagnato 
      dall’Unità d’Italia fin dentro gli anni Ottanta. Perché quello che è 
      successo dopo, nell’ultimo decennio o poco più, ha rappresentato una 
      svolta. Una svolta del tutto simile, omologa, a quella che ha 
      caratterizzato il giornalismo politico di tutti i paesi a regime 
      liberal-democratico. E non solo o non tanto per le analogie con i problemi 
      tecnici, manageriali ed economici, che i giornali quotidiani hanno dovuto 
      affrontare negli ultimi dieci-quindici anni. Bensì a causa della 
      somiglianza sia della struttura sociale di tali paesi sia dei problemi 
      politici e culturali che il collasso del comunismo sovietico e la nuova 
      globalizzazione hanno posto e stanno ponendo a tutti gli Stati 
      liberal-democratici.
 
 La svolta: nasce un giornalismo politico critico e 
      contro
 
 Si tratta di problemi di grande magnitudo difficili da percepire per la 
      maggior parte degli abitatori dei paesi ricchi e affluenti che hanno 
      vissuto, all’ombra dell’equilibrio bi-polare della Guerra Fredda, la più 
      lunga fase di espansione economica della loro storia e la contemporanea 
      quasi immersione nei flussi mediatici televisivi. Nello stesso tempo in 
      tutti i paesi industriali avanzati avvenivano cambiamenti radicali 
      nell’organizzazione del lavoro e negli stili di vita che favorivano la 
      nascita e la diffusione di un nuovo tipo di cultura popolare fortemente 
      segnata, soprattutto nei segmenti giovanili, dalle attività del cosiddetto 
      tempo libero, dalla diffusione generalizzata di un’etica dei diritti umani 
      e dalla tutela di ogni tipo di minoranza.
 Tutte queste trasformazioni, unitamente allo sviluppo accelerato delle 
      nuove tecnologie informatiche, di Internet e dei cellulari, hanno 
      contribuito a creare e a diffondere la falsa illusione che il mondo stesse 
      diventando più piccolo, più trasparente, più facile da capire e da 
      governare. Si è così, a poco a poco, costruita l’idea che l’ostacolo 
      principale al “governo delle cose del mondo” non consistesse nella 
      maggiore complessità che la crescente interdipendenza tra culture, 
      processi ed eventi, tendeva a creare, bensì risiedesse nell’incompetenza e 
      nella corruzione del ceto politico, nella farraginosità e 
      nell’arretratezza delle istituzioni politico-burocratiche.
 
 All’insieme di tali trasformazioni corrispondono in tutti i paesi 
      liberal-democratici importanti cambiamenti nel modo d’essere del 
      giornalismo politico, cambiamenti del tutto simili a quelli che si sono 
      realizzati in Italia e che nel corso della prima settimana di luglio del 
      2003 si sono potuti osservare in forma quasi paradigmatica. Lungi dal 
      riuscire a raccontare e a cercare di spiegare gli straordinari cambiamenti 
      che interessavano il mondo, e in particolare il mondo sociale nelle sue 
      relazioni con la politica, il giornalismo politico si è quasi ovunque, con 
      l’eccezione dei pochi quality papers sopravvissuti, da un lato appiattito 
      sull’effimero, sulle cosiddette softnews, e dall’altro arroccato su uno 
      stile critico declinato al negativo, declinato contro.
 Si è trattato di un processo graduale al quale hanno concorso varie cause: 
      la necessità degli editori di contenere i costi e di aumentare gli 
      introiti pubblicitari, l’introduzione di sistemi editoriali 
      ultratecnologizzati, la formazione di giornalisti addestrati tecnicamente 
      ma privi delle risorse cognitive necessarie per leggere e interpretare le 
      notizie, una fiducia positivistica sulle capacità dei fatti di parlare da 
      soli, una strategia discorsiva alimentata da una cultura del sospetto…
 
 Specificità italiane
 
 In ogni paese tali trasformazioni, pur avendo larghi tratti comuni o 
      simili, si declinano secondo le specificità storico-culturali di ciascuno. 
      In Italia, più che altrove, per esempio, c’è la tendenza a ricondurre i 
      cambiamenti osservabili a motivazioni ideologiche o politiche. Come 
      ingenuamente (o furbescamente!) fa Berlusconi quando attribuisce a 
      “congiura” il trattamento negativo che gli riserva la quasi totalità della 
      stampa italiana e gran parte della stampa europea. Del resto caddero, a 
      suo tempo, nello stesso errore sia Craxi sia D’Alema, leader politici ben 
      diversi da Berlusconi. Una declinazione specificamente italiana è, per 
      esempio, il modo in cui la maggior parte dei quotidiani italiani (con le 
      dovute eccezioni) racconta e presenta le softnews. Con un taglio di 
      sufficienza, di ascendenza elitaria, come è tipico di chi si vede 
      costretto a scrivere e a parlare per un popolo che non conosce e che 
      disprezza. Un taglio analogo a quello utilizzato dai giornali regionali e 
      locali francesi.
 
 Altra declinazione specificamente italiana è costituita dal modo in cui 
      viene confezionata, scritta e presentata, l’informazione politica locale. 
      In genere quasi del tutto tributaria delle fonti che si servono sempre più 
      di personale e di stilemi paragiornalistici.
 Secondo indizi e limitate perlustrazioni empiriche tali specifiche 
      declinazioni italiane del giornalismo politico sarebbero attribuibili alle 
      modalità attraverso le quali avviene il reclutamento e la formazione alla 
      professione. Un reclutamento relativamente elitario e una formazione 
      esclusivamente tecnica. Come in parte tende ad accadere anche in altri 
      paesi. In Italia, come altrove, sopravvivono beninteso, altre forme più 
      meditate e riflessive di giornalismo politico. Non tanto o non solo quelle 
      dei commentatori che, purtroppo, stanno dilagando sub specie di meri 
      opinionisti, portatori, cioè, di opinioni del tutto assimilabili a quelle 
      del più perfetto incompetente. Bensì quelle degli analisti delle notizie, 
      dei corrispondenti o degli inviati, che sanno affrontare un evento, una 
      situazione o un fatto con le necessarie competenze storico-politiche o 
      sociologico-culturali, che non cadono nel tranello positivistico del 
      descrittivismo fine a se stesso.
 
 I due formati della svolta
 
 In Italia, come altrove, due sono i principali formati con i quali si 
      esercita il giornalismo politico. Quello, beninteso, che si presume 
      raggiunga il grande pubblico, il pubblico generale. Entrambi trovano la 
      loro causa scatenante in fatti veri, in eventi che accadono.
 Uno è il formato della breaking news, della grande notizia. Quella 
      negativa, di Sangue, di terrorismo o di guerra, è la più ghiotta e affonda 
      le radici nella tradizione giornalistica. La novità è costituita dal fatto 
      che viene raccontata come se fosse eccezionale e inaudita, anche quando si 
      può sapere che fa parte di una strategia politica o rientra in un insieme 
      di processi sociali e culturali.
 L’altro è il formato che riguarda la vita privata delle persone pubbliche, 
      quale che sia la causa della loro notorietà. La vita privata delle persone 
      pubbliche che interessa il giornalismo politico ha a che vedere o con il 
      sesso o con i soldi. In Italia più i soldi che il sesso. I soldi sembrano 
      la vera oscenità italiana. Nessuno dice mai quanto guadagna; tutti si 
      devono lamentare. Chi non lo fa passa per ricco. Chi, come Berlusconi, 
      celebra la propria ricchezza, come farebbe un “americano”, non può che 
      essere un “cafone” e, forse, un mafioso.
 
 Attraverso questi due formati il giornalismo politico, italiano e non, 
      degli ultimi dieci-quindici anni tende a raccontare la via politica. 
      Presumendo che ciò interessi i lettori e il pubblico e che così facendo si 
      eserciti una forma di controllo democratico sulla vita politica e che si 
      possa educare il lettore al senso critico.
 Sangue, Sesso, Soldi sono le “esse” del giornalismo popolare classico. 
      Apparentemente è così. In realtà, quando le tre esse vennero inventate e 
      teorizzate il contesto comunicativo nel quale entravano a far parte, sub 
      specie di cronaca nera, era ben diverso. Il senso che la cronaca nera 
      acquisiva nel giornalismo d’antan era quello di una tipica storia morale. 
      Il negativo e la devianza avevano lo scopo di confermare il positivo e il 
      normale. Nel giornalismo d’antan, infatti, vi era una quarta tacita “esse” 
      che chi faceva i giornali cercava di non dimenticare quando si rivolgeva 
      ai suoi lettori: speranza. Tener viva la speranza aveva lo scopo di tener 
      viva, di far percepire, quella che è sempre stata la caratteristica 
      fondativa della politica (e del sistema politico-istituzionale 
      liberal-democratico nel suo insieme) di saper disegnare e pensare il 
      futuro, una meta, una missione e uno scopo capaci di trascendere le 
      contingenze della cronaca.
 
 Come cambia il giornalismo politico italiano?
 
 Oggi, in Italia come altrove, non è più così. Il contesto comunicativo nel 
      quale opera il giornalismo politico contemporaneo è un contesto privo di 
      speranza, un contesto nihilistico.
 Non solo la politica e il sistema politico non vengono più rappresentati 
      come portatori di futuro ma, al contrario, il giornalismo si sente tanto 
      più professionale e responsabile quanto più riesce ad essere critico. Ad 
      essere un “cane da guardia” che, più che fare la guardia al sistema 
      socio-istituzionale del quale è parte costitutiva, nella sua natura di 
      “quarto potere” si preoccupa di fare la guardia a chi quello stesso 
      sistema socio-istituzionale lo vorrebbe cambiare o financo distruggere. In 
      Italia il giornalismo politico ha cominciato a cambiare verso l’odierna 
      configurazione nihilistica durante i cosiddetti “anni di piombo”. 
      Apparentemente senza rendersene conto; perché, in parte almeno, sulla scia 
      di suggestioni ideologiche partigiane. E' in quegli anni, infatti, che di 
      fronte alle gesta del terrorismo politico si dispiega un racconto 
      giornalistico che è ad un tempo reticente e urlato, raccontando gli 
      attentati terroristici come se fossero fatti di cronaca nera. Un 
      trattamento che raggiunse l’apice nei cinquantacinque giorni in cui si 
      consumò la tragedia di Aldo Moro: tra il giorno del suo rapimento (16 
      marzo 1978) e il giorno del suo assassinio e del ritrovamento del suo 
      cadavere crivellato di colpi (9 maggio).
 
 La tragedia di Aldo Moro è stata, per il giornalismo politico italiano, 
      l’equivalente di quella che è stata, per gli Stati Uniti, la guerra in 
      Vietnam. Aldo Moro non era un gaffeur, non era un outsider 
      dell’establishment italiano, non era un parvenu della politica. Era un 
      “uomo buono”, come ebbe a definirlo un grande Papa che poco dopo sarebbe 
      morto di crepacuore; era il simbolo vivente di un sistema politico che 
      stava cercando di traghettare l’Italia verso la sua sofferta e difficile 
      modernizzazione. Eppure, il giornalismo politico italiano, monopolizzato 
      da quello che allora venne chiamato “il partito della fermezza”, non 
      riuscì a credergli e prese per buone le cattiverie che in quei terribili 
      giorni furono sparse a piene mani contro di lui.
 E dopo Moro vennero Bettino Craxi e Ciriaco De Mita; e nemmeno con loro il 
      giornalismo politico si dimostrò tenero; contribuendo a farli cadere 
      entrambi, più o meno rovinosamente, e con loro quella Repubblica e quel 
      sistema politico che tante energie avevano consumato e qualche risultato 
      l’avevano pure prodotto, compatibilmente con lo stato delle cose del 
      mondo.
 Bettino Craxi non piaceva, era troppo alto e troppo arrogante, era troppo 
      esplicito e chiaro in ciò che diceva e in ciò che cercava di fare. Si 
      comportava da parvenu. Ciriaco De Mita, invece, era troppo nebuloso, un 
      “intellettuale della Magna Grecia” come lo aveva definito l’Avvocato, non 
      si faceva capire, considerava la politica come un’attività complessa che 
      richiedeva ragionamenti complessi. E' con Craxi e De Mita che il 
      giornalismo politico italiano si esercita, a lungo e con successo, a 
      delegittimare la politica; a partire dalla messa in evidenza di 
      particolari che, pur essendo veri, non servivano per illuminare né la loro 
      politica né ciò che entrambi, ciascuno a suo modo, cercava di fare.
 
 La svolta cominciò ad essere percepita da chi aveva la sensibilità per 
      capire, con la prima guerra del Golfo. Quando la sete di notizie “in 
      diretta” affascinò il giornalismo politico italiano. Con l’idea che le 
      notizie dal fronte di guerra dovessero essere, come erano state per anni 
      quelle del Vietnam: tante belle cattive notizie con le quali si poteva 
      mettere di nuovo nell’angolo l’imperialismo americano. Con l’apparente 
      benedizione del Papa polacco; che pure tanto aveva fatto soffrire quelli 
      che lo avevano ritenuto, almeno in parte, responsabile dello 
      scombussolamento che si era verificato nell’Est europeo. Ma, nonostante 
      tutto, quasi nessuno si stava accorgendo di come stava cambiando il 
      giornalismo politico. Soprattutto si continuava a osservare l’Italia come 
      un paese tutto speciale, diverso da tutti gli altri. Si cominciava a 
      predicare, per assenza di concreti riferimenti comparativi, alla necessità 
      di diventare “un paese normale”. Come se da qualche parte fosse possibile 
      trovarne qualche esempio. Si cominciava a predicare, e tale predica 
      assumerà toni sempre più perentori man mano che ci si avvicina ai giorni 
      nostri, sulla necessità di “entrare” in Europa. Come se l’Europa potesse 
      esistere indipendentemente dalle tradizioni etrusco-greco-romane o da 
      quelle cristiane e rinascimentali alla costruzione delle quali tanto 
      avevano pure contribuito le popolazioni che avevano abitato la Penisola 
      nei secoli.
 
 Con il biennio di Mani Pulite e di Tangentopoli sembrò che il tono 
      predicatorio e moraleggiante avesse raggiunto il suo culmine. Un tono al 
      quale aveva dato il via Enrico Berlinguer quando aveva lanciato, in 
      occasione di un memorabile convegno all’Eliseo, alla stupita folla di 
      militanti, intellettuali e artisti dello spettacolo, la crociata della 
      questione morale. In pochi mesi l’apparente “flebile” forza del 
      giornalismo politico, alleato con un manipolo di magistrati, riesce a fare 
      quello che pochi anni prima sarebbe parso impensabile. E che pure, a ben 
      vedere, era già successo altrove. In uno di quei paesi - come gli Stati 
      Uniti - che alcuni si ostinavano a considerare normali. Tutti e cinque i 
      partiti che dal secondo dopoguerra in poi avevano rappresentato la 
      maggioranza degli italiani e avevano retto il destino politico di tutti i 
      governi vengono costretti a sciogliersi come neve al sole.
 Ma non è finita. Perché il successo dà alla testa. Con la discesa in campo 
      di Silvio Berlusconi si realizza, finalmente, il sogno. Le anomalie si 
      moltiplicano. L’Italia diventa quello che molti intellettuali e molti 
      giornalisti - dall’Unità in poi - avevano sempre pensato che fosse: un 
      paese sui generis, del tutto diverso dagli altri, immaturo per la 
      democrazia e per la stessa civiltà delle buone maniere.
 
 Dalla fine del 1993 Silvio Berlusconi - che già era stato a lungo 
      bersagliato in Italia e in Europa per aver introdotto la televisione 
      commerciale, addirittura ribattezzata da esperti semiotici 
      “neo-televisione” - diverrà fino ai giorni nostri il Deus ex machina della 
      politica italiana. Perfetto campione di tutto ciò che non deve essere e 
      non deve fare un politico: self-made-man, gaffeur, outsider, parvenu, 
      straricco, permaloso, nano in doppiopetto, fortunato, corrotto e 
      corruttore, mafioso, barzellettiere, logorroico, vanitoso, fedifrago. E 
      chi più ne ha più ne metta. Il fatto che un uomo così, con tutti i suoi 
      difetti, riesca a farsi eleggere per due volte (nel 1994 e nel 2001) 
      presidente del Consiglio diventa la prova provata dell’anormalità 
      dell’Italia e degli italiani. Certo non tutti i giornali né tutti i 
      giornalisti si allineano su tale cliché. Ma ciò che si può vedere e 
      leggere nella prima settimana del mese di luglio del 2003 è una messa in 
      scena quasi perfetta di tutto l’armamentario di stereotipi che da più di 
      vent’anni (e soprattutto negli ultimi dieci anni) è stato messo in campo 
      per descrivere Silvio Berlusconi e la sua politica e metterlo alla 
      berlina.
 Così facendo, il giornalismo politico italiano (ma anche, parzialmente, 
      quello europeo e internazionale) ha dimostrato di fare esattamente il 
      contrario di ciò che ci ha insegnato a fare il nostro grande Fiorentino. E 
      cioè di comprendere gli uomini così come sono e non come ci piacerebbe che 
      fossero.
 
 29 gennaio 2004
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