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      Dietro lo spettacolo nientedi Filippo Ceccarelli
 da Ideazione, settembre-ottobre 2003
 
 Se ne leggono così tante, se ne sentono così tante e se ne vedono, 
      soprattutto, così tante che alla fine, abbagliato e preso per saturazione, 
      il giornalismo ansima, vacilla, si ferma, si accartoccia. E alla fine 
      addirittura si accontenta. Diventa ogni giorno più difficile attraversare 
      il mare magnum di gravose futilità per cogliere l’essenziale, se non il 
      vero, di quel che accade. I colpi di teatro vanno tranquillamente in 
      replica; la conquista della scena si compra e si vende a maggior gloria 
      del nuovo ceto politico-televisivo; le virtù tecnologiche del “far 
      credere” fanno premio sulla realtà; e la politica sempre più assomiglia a 
      una specie di tifoseria da seconda serata.
 Sembrerebbe l’apocalisse, e forse lo è pure, nel senso biblico di 
      rivelazione. Ma il giornalismo resta comunque indietro. Talmente indietro 
      - e al di sotto - che a volte ci si sorprende a pensare che il vero 
      potere, oggi, è proprio quello che non si vede, né si capisce. Che gli 
      evidenti processi di carnevalizzazione della vita pubblica italiana - 
      corna, sosia, cuochi, canzonette, biciclette, lacrime, girotondi, miss, 
      ampolle, giuramenti, pupazzi, mucche Ercoline e altre rappresentazioni, 
      non di rado tra l’indecente e il pagliaccesco - ecco, ci si sorprende a 
      ipotizzare, con il dovuto sgomento, che tutto questo baraccone venga 
      allestito in realtà per nascondere, preservandola dagli sguardi profani, 
      la più strenua invisibilità del potere. Ma poi, a freddo, si capisce che 
      non è così. Anzi. E non solo perché il potere, pure inteso sotto la specie 
      dell’arcana imperii, non esaurisce la politica, né le passioni o gli 
      interessi che le danno sostanza.
 
 L’eventualità che sulla base di un’esperienza quotidiana nelle redazioni 
      si vorrebbe qui prospettare è che l’essenziale della cronaca politica si 
      colga oggi meglio sulla scena, che nel suo frequentatissimo retro. Che il 
      ragionevolmente vero, in questo tempo di luccicanti eccessi seriali, possa 
      essere intravisto proprio sulla ribalta, là dove s’infrange la luce 
      mutevole dei riflettori, piuttosto che nella penombra o tra i bisbiglii 
      delle quinte. A condizione che il giornalismo politico, liberatosi dei 
      suoi automatismi, si sforzi appunto di smontare il baraccone mostruoso (da 
      monstrum, fenomeno) delle finte meraviglie. Operazione tutt’altro che 
      onerosa, dato che non bisogna pagare il biglietto per entrarvi, è il 
      carrozzone semmai che attira la gente - e già questo dovrebbe destare 
      qualche legittimo sospetto.
 Questa impostazione comporta la messa in causa di tutta una serie di 
      moduli di copertura giornalistica. Pastoni, note, interviste (spesso di 
      comodo o di bilanciamento). Attrezzi anche gloriosi che però hanno fatto 
      il loro tempo. Il tempo in cui si parlava correntemente di “quadro 
      politico”, e non di “scena pubblica”. Vorrà dire qualcosa che il 
      presidente Berlusconi, in una di quelle sue inconfondibili uscite, volendo 
      certamente indicare il “popolo italiano”, l’abbia poi definito “pubblico 
      italiano”. C’erano vent’anni orsono i lettori, i cittadini, gli elettori. 
      Bene, ci sono oggi spettatori e consumatori di spettacoli politici. Ma 
      proprio per questo è necessario che si sappiano riconoscere gli 
      scostamenti con la realtà.
 
 Viene così specialmente a cadere, su questa base, il genere scritto del 
      cosiddetto “retroscena”. La pretesa di raccontare agli appassionati quel 
      che avveniva lontano dai loro occhi, nelle segrete stanze, coincideva in 
      origine con la rottura di un’informazione paludata e ufficiale. Si ricordi 
      un’antica pubblicità di Panorama: “In questo preciso momento, Fanfani...”. 
      Nato nei settimanali negli anni Settanta, nei decenni seguenti il 
      retroscena si è imposto ai quotidiani, ma poi è andato via via 
      consumandosi, fino a farsi ectoplasma di se stesso, prodotto addomesticato 
      nel suo abuso, naturale ricettacolo di fin troppo comode manipolazioni da 
      parte delle “fonti” politiche, simbolo insomma di un giornalismo che ha 
      smarrito il senso della propria identità, quindi anche della propria 
      autonomia, al servizio privilegiato di lettori che non accettano di essere 
      ridotti al rango esclusivo di telespettatori.
 
 Il retroscena come simulacro
 
 Guarda caso, gli unici retroscena cui si vorrebbe assistere sono quelli 
      che mancano, e che riguardano appunto le modalità con cui la classe 
      politica - con l’assistenza di esperti provenienti dai mondi del consumo, 
      della pubblicità, della sociologia, della psicologia e dello spettacolo - 
      discute i contenuti, confeziona il messaggio e prepara appunto 
      l’allestimento della scena. Di queste discussioni - che pure s’immaginano 
      complesse e appassionanti - nessuno dà ancora conto. Anche se 
      l’impressione, per non dire il fondato sospetto, è che sia questo il nodo 
      della contesa: quale immagine far emergere, quale titolo imporre, dove 
      focalizzare l’attenzione. Rispetto alla gestione della scena, le voci “di 
      dentro” suonano terribilmente flebili. Eppure non c’è battuta, oggi, non 
      c’è manifesto, non c’è campagna, non c’è telefonata (con il presidente 
      degli Stati Uniti o con il direttore del tg), non c’è impiccio 
      giudiziario, non c’è provvedimento legislativo, ecco, in una parola non 
      c’è atto politico che non vada calibrato e non venga sagomato a partire 
      dagli effetti che è destinato a creare in un mondo e lungo un orizzonte in 
      cui tutti stanno sostanzialmente a guardare. E giudicano, giorno per 
      giorno (mica solo la mattina delle elezioni), su quello e per quello che 
      hanno visto. In questo senso si può ipotizzare che le tecnologie hanno 
      preso il sopravvento, ai limiti e talvolta al di là di ogni originaria 
      intenzione e differenza di contenuti. Per questo, anche se magari può far 
      sorridere, la vita dei politici è andata affollandosi di truccatori, 
      elettricisti, sarti, massaggiatori, specialisti di grafica computerizzata, 
      esperti di riprese e applausi sonori. Per le stesse ragioni, tra le nuove 
      professionalità richieste per ottimizzare i risultati in termini audience 
      nei tg e nei salotti televisivi, servono psichiatri, comici, “cattivi” 
      riconoscibili, come pure “buoni” di sicuro e provvido effetto, 
      presentatori simpatici, atleti famosi, attrici belle, teneri bambini, 
      fotografi personali e registi.
 
 Fa riflettere come una delle novità incarnatesi nel presente - Nanni 
      Moretti - sia appunto un affermato regista. Ma è la regia, più in 
      generale, intesa come attività e anche come risonanza simbolica, a 
      caricarsi di nuovi significati civili. Si ricorderà come il vecchio Nenni, 
      entrando a Palazzo Chigi da vicepresidente del primo governo di 
      centro-sinistra, ricercasse (invano) “la stanza dei bottoni”, metafora del 
      comando in epoca industriale. Bene, per uno di quegli spostamenti 
      linguistici che non richiedono troppe spiegazioni, nell’era presente “la 
      stanza dei bottoni” è divenuta, sintomaticamente, “la cabina di regia”. 
      Non c’è chi non la invochi come sinonimo di una nuova potenza, all’altezza 
      dei tempi, che si sostanzia nel mostrare, trasmettere, choccare e dunque 
      persuadere. Tanto più in presenza di un giornalismo che, voltate le spalle 
      alle nobili risorse della parola scritta e dell’intelligenza critica, 
      abbocca e facilissimamente si fa gabbare.
 
 Il mezzo che si è mangiato il messaggio
 
 In tale contesto, quella disciplina che va sotto il nome - invero asettico 
      e perfino rassicurante - di comunicazione politica è divenuta essa stessa 
      l’essenziale. Detta altrimenti: il mezzo si è mangiato il messaggio. Non 
      solo, è anche accaduto che per rendersi ancora più efficace e strategica, 
      per calamitare sempre meglio gli sguardi e catturare l’attenzione, questa 
      stessa comunicazione politica abbia avuto la necessità di ricorrere agli 
      originari dispositivi dello spettacolo, del teatro in particolare.
 Non è questo un passaggio che non abbia avuto un prezzo; e tanto più 
      salato e difficile da accettare da parte di chi apprezza il presente e ne 
      trae legittimi vantaggi in termini economici o di prestigio. Perché il 
      risultato di questa osmosi è che non è più la politica, come accadeva fino 
      a qualche tempo fa, a usare lo spettacolo, ma è esattamente quest’ultimo 
      che, chiamato a sostituire gli antichi legami e preso a misura di ogni 
      convenienza e legittimità, ha finito per assimilare la politica. Senza che 
      la classe dirigente, ormai assuefattasi ai suoi stessi esibizionismi, se 
      ne rendesse nemmeno conto.
 
 Ma il processo comporta anche altri effetti, a catena. L’antica riserva 
      del teatro ha infatti così profondamente condizionato e trasformato la 
      vita pubblica da farla rassomigliare a quella non di ieri, bene o male 
      segnata dalle logiche della democrazia, ma a quella dell’altroieri. Sono 
      perciò riemersi i re assoluti, alcuni (come Bossi) con specifiche capacità 
      meteorologiche, e con essi i troni (a TeleCamere), le incoronazioni 
      (Rutelli al PalaVobis), i palazzi (Grazioli) e le ville reali (Arcore, 
      Paraggi, La Certosa), l’apologetica (l’opuscolo Una storia italiana), le 
      donazioni di massa (dagli orologi ai calcolatori passando per le 
      dentiere), i miracoli (da parte del sovrano in vena taumaturgica). Quindi 
      ha ribussato alle porte della Storia anche la corte, e con la corte i 
      cortigiani, i servi, i buffoni, i preti scalmanati, gli oracoli o la voce 
      del popolo (comunque in forma di sondaggi), ma anche i salvacondotti (vedi 
      le leggi per rendere intoccabili i governanti).
 
 Tutto questo convive più o meno allegramente, sui giornali e in Tv, con 
      quanto c’era prima, a cominciare dal Parlamento. Che lo abbia arricchito 
      è, a essere sinceri, piuttosto difficile da sostenere. Lo ha, semmai, reso 
      più straniante, come dimostra la personale metamorfosi di una giovane 
      presidente di Montecitorio che, pur figlia di attori, nel giro di un paio 
      d’anni è passata dalla guida austera e severa dell’Assemblea alla 
      conduzione inguainata e leopardata di un talk-show.
 Niente di male. E tuttavia la deriva luccicante e macroscopica 
      dell’odierna politica dovrebbe spingere a guardare ai protagonisti con un 
      occhio più disincantato. I politici di oggi, per lo più, fanno ridere 
      senza divertire. Ma con lo stesso spirito, d’altra parte, sarebbe 
      dissennato gridare al lupo. In ogni caso va da sé che non si torna 
      indietro. Le avversioni, le liturgie, le sfumature, le compostezze, le 
      combinazioni e anche le noie desolanti della Prima Repubblica 
      corrispondevano a una società che non c’è più. Il rischio vero, semmai, 
      sta nella pigrizia di negare il cambiamento, nella fatica di coltivare il 
      tarlo del dubbio e della curiosità. Certo è difficile, di colpo, 
      rinunciare alle proprie griglie interpretative. Ma discutere sul presente 
      è pur sempre la via, specie quando vantaggi e svantaggi sono limitati, 
      trovandoci tutti dentro un processo che prescinde - ed è quasi una fortuna 
      - dalle volontà individuali.
 
 Come sia accaduta la grande trasformazione sfociata in quello che avrei 
      definito Il teatrone della politica. Come lo spettacolo ha preso il potere 
      è forse troppo presto per dire compiutamente. Ma ci si può provare.
 Come spesso accade, all’origine dei cambiamenti è da ricercare un trauma. 
      In Italia non sembra difficile rinvenirlo in quanto è accaduto nel recente 
      passato. Tutto è sembrato venir meno nel giro di qualche anno: ideologie, 
      appartenenze, partiti di massa, moneta, grande industria, sovranità 
      nazionale, legge proporzionale, legittimità di una classe politica che, 
      seppure in via di abdicazione (si pensi alla tribolatissima elezione di 
      Scalfaro), è stata scoperta (o non più tollerata, in quel momento) con le 
      mani nel sacco. Questo venir meno di certezze ha in qualche modo spezzato 
      le ginocchia alla rappresentanza, mettendo in crisi quel vincolo sacro che 
      per decenni aveva orientato dal basso le parole e i gesti di tutta una 
      classe politica.
 
 La politica tra rappresentanza e nuova 
      rappresentazione
 
 Ma ecco che al vuoto di rappresentanza, comincia rapidamente a 
      corrispondere un pieno di rappresentazioni. Ossia, la classe politica 
      ritiene di far fronte al trauma e al suo relativo indebolimento mettendosi 
      o rimettendosi in gioco secondo i canoni vigenti nel mondo - molto più 
      complesso di quanto possa apparire - di uno spettacolo che si adatta, 
      tecnologicamente, al mezzo di comunicazione più diffuso ed efficace. Nasce 
      così il culto di quella terribile dea del Ventunesimo secolo, la 
      Visibilità, che impone i suoi codici e pretende i suoi sacrifici 
      sull’altare catodico. Ecco dunque il flusso costante di rappresentazioni, 
      anche fra loro contraddittorie se non conflittuali, che comunque danno il 
      segno (e il senso) di qualcosa che è vivo, ma più ancora ha la necessità 
      di mostrarsi vivo. Per cui è naturale oggi che i politici facciano gli 
      attori e accettino qualsiasi invito in qualsiasi trasmissione: “E sa 
      perché? - ha spiegato una volta l’onorevole Mastella - Per non far dire in 
      giro: ma quello è morto, non si vede più, politicamente”. E infatti sempre 
      più spesso si alzano dalle poltroncine bianche di Vespa e ballano, 
      cantano, cucinano, giocano a tennis, recitano poesie in dialetto, si fanno 
      togliere la cravatta dalle ballerine mezze nude. Ma a questo punto è anche 
      normale che gli attori facciano politica. Così Dario Fo vuole presentarsi 
      candidato sindaco di Milano, Beppe Grillo diffonde tematiche no-global, 
      Luca Barbareschi s’impanca a fustigatore del trasformismo, Fiorello 
      distribuisce patenti di simpatia e popolarità, Benigni diventa una 
      bandiera. Non solo, ma nella corrente inversione di ruoli si dilata e 
      diviene cruciale lo spazio intermedio della satira, con le sue 
      deformazioni, i suoi cloni, gli imitatori, i sosia, le iene, i tapiri e i 
      Gabibbi che suppliscono con i loro strumenti, con le loro scene a quanto 
      la vecchia politica faceva e la nuova non riesce più a fare tanto bene: 
      segnalazione degli avversari, agguati, colluttazioni, provocazioni, 
      domande, proposte.
 
 E' questa l’evoluzione eminentemente televisiva della vita pubblica 
      italiana, di cui ha dato conto per primo un giovane studioso, Gianmarco 
      Navarini, che l’ha ricostruita a partire da Le forme rituali della 
      politica. Rispetto a questa trasformazione il giornalismo appare in 
      ritardo, e - quel che è più grave - anche poco interessato. Trascura la 
      circostanza che l’arte politica, da astratta che era, è diventata, anzi è 
      ritornata ad essere eminentemente figurativa. Sottovaluta la crescente 
      messe di trucchi - anch’essi mutuati dal teatro - che i nuovi apparati di 
      persuasione mettono in scena giorno dopo giorno. Non si sofferma quanto 
      dovrebbe sull’importanza che nella nuova cornice visiva - e a volte 
      visionaria - hanno finito per assumere la faccia, la bellezza, il corpo, i 
      gesti (il mimo), la nudità, la presenza femminile mirata (madrine, 
      stelline, miss), gli schermi giganteschi, i giochi degli specchi, le 
      musiche, le ambientazioni fantasmagoriche e posticce, gli oggetti (la 
      scrivania del Contratto) e gli ingegni di scena (le nuvolette dei 
      fondali), i travestimenti, i mezzi spettacolari di locomozione (pullman, 
      treno, nave elettorale), i simboli. Quanto serve, in fondo, per 
      conquistare, orientare o distogliere lo sguardo, spesso ai limiti 
      dell’esperienza ipnotica. Quando si dice che le rappresentazioni 
      esercitano il loro dominio, si dice anche, implicitamente, che i leader 
      sono costretti a recitare in forma di serial copioni antichi riadattandoli 
      al presente. Così, i personaggi che essi interpretano tornano a essere 
      quelli che, in un tempo lontano, giravano per le piazze con i loro carri e 
      i loro palcoscenici smontabili: protettori, seduttori, imbonitori, 
      illusionisti.
 
 Anche il loro repertorio trae ispirazione da quei teatri. Solo che oggi si 
      chiama format. Per cui giurano, solennemente, i capi di oggi; si bagnano 
      nella folla all’ora dei tg; si emozionano e piangono spesso; hanno un 
      cuore d’oro; incontrano e salvano bimbi; raccontano tutto di loro stessi, 
      quando l’hanno fatto la prima volta, e con chi, secondo l’aurea legge del 
      salotto televisivo che impone la privatizzazione del pubblico e la 
      pubblicizzazione del privato. E infine duellano in quelle moderne arene 
      che sono, anche dal punto di vista scenografico, i talk-show. Come 
      gladiatori un po’ tronfi e un altro po’ immalinconiti. E quando c’è lo 
      stacco pubblicitario respirano profondo e recuperano le forze, e passa 
      l’inserviente con un tampone a detergergli il sudore. Nulla di male, però 
      basta saperlo. Il giornalismo sembra invece seguire il tutto con i criteri 
      e gli strumenti del passato. Eppure nessuno meglio della parola scritta 
      potrebbe aiutare il pubblico a capire meglio la differenza che passa tra 
      il reale e la sua messa in scena. A prevenire i rischi di manipolazione e 
      mistificazione che diventano seri proprio quando non si paga il biglietto. 
      A far valere pian piano, con umana comprensione e senza prendersi troppo 
      sul serio, i diritti degli spettatori. Che in fondo veri diritti sono. 
      Nuovi diritti per una politica che nel futuro ritorna antica.
 
 29 gennaio 2004
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