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      L’epoca del talk-showdi Enrico Menduni
 da Ideazione, settembre-ottobre 2003
 
 In tutta Europa la televisione è stata a lungo amministrata con le stesse 
      forme giuridiche e istituzionali della radio che l’aveva preceduta, e 
      quindi sulla base dell’ideologia del servizio pubblico: l’esiguità delle 
      frequenze necessarie a trasmettere avrebbe affidato necessariamente allo 
      Stato il compito di gestire la radio e la televisione nell’interesse di 
      tutti, perché altrimenti si sarebbero formati degli oligopoli nocivi alla 
      democrazia. Educare, informare, intrattenere (in rigoroso ordine di 
      apparizione) erano gli obiettivi pedagogici dell’intervento statale nella 
      radiotelevisione, secondo la triade coniata da sir John Reith (primo 
      direttore della Bbc inglese) e diventata paneuropea dopo la sconfitta 
      nella seconda guerra mondiale dell’uso autoritario e plebiscitario della 
      radio tentato dal fascismo. Sostanzialmente, esisteva una divisione del 
      lavoro per cui i giornali quotidiani erano di proprietà di potenti gruppi 
      privati, mentre l’agenzia di stampa “di bandiera” nazionale e la 
      radiotelevisione erano sotto il controllo dello Stato.
 
 L’Italia non faceva eccezione, con qualche variante: l’esistenza di forti 
      quotidiani di partito e il fatto che le proprietà dei quotidiani, visto il 
      loro scarso mercato, non dessero utili economici ma solo forma di 
      influenza e di pressione sul sistema politico. In ogni paese 
      l’informazione della radiotelevisione pubblica aveva un carattere 
      ufficioso e sostanzialmente rispettoso del governo, seguendo però le 
      tradizioni e la deontologia del giornalismo di quel paese: relativamente 
      obiettivo e attento alle opinioni dell’opposizione nel Regno Unito, molto 
      meno in altri paesi fra cui il nostro.
 Un “manuale” del ’48 per i giornalisti del Gr, redatto dal direttore 
      Antonio Piccone Stella, raccomanda un atteggiamento equilibrato, ai limiti 
      dell’opportunismo, con parole ancora attuali: “In linea di massima si può 
      stabilire che, quando non intervengano altri fattori, il giornale radio 
      applichi la sua imparzialità, verso i partiti e gli altri movimenti 
      politici, tenendo in giusta considerazione i rapporti di forze espressi 
      dalle rispettive rappresentanze parlamentari. Sono trasmesse notizie sia 
      sull’attività della maggioranza che della minoranza, sia di fonte 
      governativa che di opposizione. Ma ovviamente il loro sviluppo e risalto 
      non contrasteranno con la volontà popolare come si è manifestata 
      attraverso libere elezioni”. Dal punto di vista deontologico il tempo 
      dedicato ai partiti e il risalto dato alle varie opinioni dovevano essere 
      proporzionali alla loro consistenza parlamentare. Nella pratica era facile 
      passare ad un predominio delle opinioni governative. La legge 103 del ’75 
      sancì il passaggio del controllo sulla Rai dall’esecutivo verso una 
      coabitazione tra esecutivo (a cui rimanevano alcune leve di potere) e 
      Parlamento, a cui ne andavano altre. Dal ’75 l’informazione politica 
      radiotelevisiva tenne conto di una situazione in cui la Rai era 
      amministrata dall’“arco costituzionale” (maggioranza + Pci) e in cui, dal 
      1986, aveva fatto il suo ingresso anche il Msi.
 
 Le modifiche nel rapporto tra televisione e politica furono però assai più 
      consistenti. Il combinato disposto della riforma della Rai e dell’avvento 
      delle emittenti private (che avvenne in Italia negli stessi anni, e in 
      Europa un po’ più tardi) portò a grandi innovazioni nei formati delle 
      trasmissioni, anche per l’esigenza di tenere avvinto a sé un pubblico che 
      per la prima volta aveva la possibilità di scegliere largamente. Nei 
      talk-show che Maurizio Costanzo cominciava a tenere sulle reti Rai 
      venivano invitati per la prima volta i politici a parlare non di politica 
      soltanto, ma anche della loro vita privata, dei loro hobby, dei loro 
      pareri su cose profane, rispetto agli arcana imperii del potere. I 
      politici diventavano volti, che avevano sempre più la capacità di 
      dialogare non soltanto con il proprio elettorato fidelizzato, ma con la 
      generalità della popolazione. Cominciava così quella personalizzazione 
      della politica che sarebbe stata una delle leve motori della Seconda 
      Repubblica. Ciò avveniva a livello locale anche con le piccole televisioni 
      private, mentre in occasione delle elezioni facevano la loro comparsa, dal 
      1979, gli spot elettorali. Naturalmente la presenza dei politici nelle 
      trasmissioni diventò assai più influente rispetto all’informazione 
      politica propriamente detta, assicurata da telegiornali e trasmissioni di 
      approfondimento politico molto paludate (Oggi al Parlamento e simili).
 
 Negli anni Ottanta, in una televisione italiana sempre più condizionata 
      dall’esigenza di fare spettacolo, l’informazione spettacolarizzata 
      (info-tainment) diventa uno dei generi di punta della “neo-televisione” e 
      contribuisce prepotentemente a trasformare la politica e le organizzazioni 
      partitiche: sempre meno sostenute dallo sforzo anonimo di uno strato 
      intermedio di propagandisti, funzionari, notabili, attivisti, e da 
      consolidati collateralismi, ma da un rapporto diretto che pochi leader ad 
      alta visibilità intrattengono con il loro elettorato ed anche con coloro 
      che, pur non votandoli e non occupandosi nemmeno di politica, tuttavia 
      sono sensibili a qualche aspetto del loro fascino. La televisione offre al 
      leader politico la possibilità di fare conoscere direttamente e in tempo 
      reale alla generalità del pubblico le proprie posizioni, riducendo al 
      minimo la mediazione professionale del giornalista - come avviene sulla 
      carta stampata - e le contrattazioni con gli apparati e le correnti di 
      partito, sempre spiazzate dalle sue esternazioni. Quando la Seconda 
      Repubblica era ancora impensabile, a metà degli anni Ottanta e in un 
      contesto politico ancora sostanzialmente consociativo, già le derive 
      plebiscitarie erano fortemente presenti nel rapporto tra leader visibili e 
      gente comune.
 
 Un ulteriore elemento è stato costituito dalla Terza rete Rai diretta da 
      Angelo Guglielmi e dal suo vero e proprio manifesto estetico della “Tv 
      realtà” o “Tv verità” che adattava un’estetica e una prassi del cinema 
      neorealista alla televisione, portandola a rappresentare la vita vissuta 
      anche nei suoi aspetti più oscuri o scabrosi, e dunque realizzando una 
      sutura intellettualmente brillante fra neorealismo e postmodernità 
      hollywoodiana. La trasmissione Un giorno in pretura mostrava piccoli e 
      medi processi a personaggi di terz’ordine e ladri di polli, che avrebbero 
      costituito la prova generale del court show di Tangentopoli. Samarcanda di 
      Michele Santoro sfondava la parete dello studio televisivo facendo 
      apparire, nell’educato talk-show e nello spettacolo televisivo fra leader, 
      masse di portatori di problemi, piazze protestatarie, folle contestatrici 
      che cambiavano definitivamente i ritmi misurati del dialogo sotto le 
      telecamere. Il politico poteva essere contestato, processato, fischiato.
 
 L’arrivo di Tangentopoli ha quindi trovato la televisione già pronta 
      culturalmente a trasmetterne e amplificarne i processi e gli eventi, e 
      (come talvolta accade in delicati trapassi istituzionali) a scrollarsi di 
      dosso l’etichetta di collaborazionismo al sistema dei partiti - che non 
      sarebbe stato difficile affibbiarle - per unirsi spiritualmente ai fautori 
      del nuovo e quindi a collocare la Tv tra gli elementi benemeriti che 
      avevano facilitato e propiziato il passaggio tra la Prima e la Seconda 
      Repubblica. Nel 1994 avviene la nota “discesa in campo” di Berlusconi e la 
      fondazione in videocassetta del partito che, cinquantanove giorni più 
      tardi, vincerà le elezioni. Un imprenditore che aveva rastrellato la parte 
      più significativa della televisione privata commerciale diventandone il 
      monopolista, con trasparenti protezioni politiche (in specie di parte 
      socialista) e avvalendosi creativamente delle contraddizioni di una 
      democrazia bloccata, diventava così alfiere del nuovo e occupava lo spazio 
      lasciato libero da quegli stessi partiti che ne avevano propiziato 
      l’ascesa. Le tre televisioni nazionali di sua proprietà vengono sottoposte 
      da una forte torsione in favore del partito del proprietario, di cui sono 
      espressione le numerose dichiarazioni di voto, dal video, di conduttori 
      televisivi delle sue reti. Finirà così, senza ritorno, l’asserita 
      apoliticità della Tv commerciale.
 
 Né il diretto interessato né la coalizione avversaria, vincitrice delle 
      elezioni del 1996, hanno mai provveduto ad una sistemazione legislativa 
      del conflitto di interessi che si poneva tra la proprietà di tre reti 
      televisive e il governo del paese. Tentativi più volte ripetuti di 
      arginare il debordare della politica nell’arena televisiva, come con i 
      “decreti Gambino” del 1995 o la “par Condicio” di Massimo D’Alema del 
      2000, non hanno mai sortito effetti duraturi perché il sistema politico 
      anche in versione Seconda Repubblica ha replicato le preferenze del primo 
      a favore di una totale mediatizzazione televisiva della lotta politica, 
      con un sostanziale consenso trasversale. La sfera pubblica è quindi 
      tranquillamente diventata “arena pubblica”, sotto la totale visibilità di 
      riflettori e telecamere. Ciò consente di non mantenere costosi e 
      probabilmente anacronistici apparati di partito, di ridurre al minimo 
      l’influenza dei partiti-apparato massimizzando quella dei partiti-leader, 
      di intervenire in tempo reale semplificando al massimo la dialettica 
      interna, limitata a pochi rituali momenti. Tali tendenze percorrono 
      l’intero schieramento politico, e ad esse sono sensibili anche movimenti 
      antagonisti che per questa via ritengono di avere una visibilità 
      altrimenti ad essi preclusa.
 Nel panorama europeo l’Italia non è certo il solo paese interessato da 
      questi fenomeni, ma sicuramente quello in cui si sono spinti più avanti, 
      per il modo con cui si era sviluppata la televisione privata e, più 
      ancora, per il precedente infeudamento governativo della televisione 
      pubblica. E' possibile quindi che esso sia studiato cercando contromisure 
      che tutelino la democrazia formale e il predominio delle istituzioni 
      rappresentative, che i media audiovisivi hanno messo in scacco. Un 
      dibattito è in corso su questo in entrambi gli schieramenti del Parlamento 
      europeo. Al momento è arduo dire se tali contromisure saranno applicate e 
      saranno efficaci; inoltre è difficile calcolare quale potrà essere il loro 
      impatto sull’Italia, anche se è impossibile negare che un impatto lo 
      avranno. Certo il rapporto fra la “rappresentazione televisiva” della 
      politica e la politica stessa sembra in Italia ormai assolutamente 
      squilibrato a favore della prima. Ed è questa, forse, la vera anomalia, 
      che è difficile regga a lungo per effetto della stessa dialettica fra le 
      parti.
 
 29 gennaio 2004
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