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      Giustizia, l’etica della responsabilitàdi Emilio Nicola Buccico
 da Ideazione, 
      marzo-aprile 2004
 
 Siamo veramente in un vicolo cieco? Si può sperare in una via di uscita, 
      con la corretta ricollocazione dei poteri istituzionali senza che la ormai 
      estenuante contrapposizione tra politica e magistratura si trasformi in 
      una irreversibile condizione patologica? Le grida di guerra rendono, 
      peraltro, ancora più flebile la percezione delle voci di quanti ancora 
      tentano di coltivare la civiltà del lessico e la ragionevolezza delle 
      proposte. Cerchiamo di capire dove ci sta portando questa conflittualità 
      schiumosa e rancorosa. L’agenda governativa, dopo ristrette escursioni 
      legislative parcellizzate e in parte abortite, ha concentrato, con la 
      istituzione di una cabina di regia (i quattro saggi), ogni sforzo su un 
      disegno complessivo – ancorché non organico (basti pensare che il tema 
      fondamentale della riforma della geografia giudiziaria, la macchina 
      dispensatrice di sprechi e sulla quale cammina quotidianamente 
      l’amministrazione della giustizia, è stato elegantemente abbandonato nel 
      generale tacito consenso di tutte le forze politiche, restie a fare i 
      conti con i piccoli e grandi egoismi territoriali ed elettorali) – 
      dell’ordinamento giudiziario, anno 1942, sopravvissuto alla Costituzione e 
      al nuovo codice di procedura penale, tra rattoppi e cuci e scuci. La legge 
      delega, oramai alla Camera, contiene anche ispirazioni positive e 
      condivisibili: si può, e si deve, intervenire sugli itinerari normativi. 
      Certamente costituiscono utile e possibile terreno di incontro la 
      istituzione della Scuola superiore della magistratura e la rivisitazione 
      del settore disciplinare con la tipizzazione degli illeciti disciplinari.
 
 Di indiscutibile interesse sono, naturalmente, i temi relativi 
      all’accesso, alla valutazione di professionalità dei magistrati, alla 
      composizione dei consigli giudiziari, all’ufficio del pubblico ministero: 
      con il favore generale è stata salutata la istituzione dell’ufficio del 
      giudice, ancorché in via sperimentale. Praticamente disertato il 
      confronto, è stato ed è scontro: i magistrati – sventolando la bandiera 
      dell’autonomia e della indipendenza più come distintivi di casta invece 
      che come valori della società – contestano quasi come liberticida 
      l’impianto riformatore e, partendo da antiche recriminazioni sulle 
      “pulsioni bicameralistiche”, focalizzano attenzione (e spesso anatemi) 
      sulla carriera ad ostacoli con la introduzione dei concorsi, sulle 
      prerogative di una scuola volontaristicamente gestita dal Csm, sulla 
      burocratizzazione dell’ufficio del pubblico ministero e sulla mostruosità 
      della interpretazione creativa come fonte di illecito disciplinare. Venuta 
      meno questa sciocca provocazione interpretativa, le distanze, tuttavia, 
      hanno continuato ad accrescersi sino alla proclamazione di due giorni di 
      sciopero, indetti – per semplici ragioni estetiche – solo dopo la partenza 
      del capo dello Stato dall’annuale congresso dell’Anm.
 
 Ma i problemi veri, gravi e reali resistono tranquillamente alla 
      estremizzazione e fanno emergere, al di là dei rumori popolari, per dirla 
      con Voltaire, gli antichi mali. Problema centrale e indefettibile, 
      richiamato alla coscienza dei magistrati dal presidente Ciampi e in una 
      unitaria delibera del febbraio 2003 dal Csm, rimane quello delle 
      responsabilità dei magistrati. La consapevolezza dei doveri, e cioè 
      l’etica della responsabilità, è presupposto della imparzialità la cui 
      costante visibilità non può essere appannata dall’intrecciarsi di cause di 
      incompatibilità e dalla tendenza alla esternazione, senza i limiti della 
      continenza: tale fenomeno si ricollega, in momenti storici di transizione, 
      alla individuazione dell’identità, ora smarrita, ora ambigua, già invasiva 
      e supplente, della magistratura. Del resto, le esternazioni non sono che 
      la spia di un costume mediatico che ricerca, per sorreggersi e 
      alimentarsi, il consenso. E’ terreno infido, che determina strabismi e 
      protagonismi pericolosi.
 
 E sul tema della responsabilità è facile constatare come, al pari 
      dell’avvocatura tumoralmente cresciuta nella indifferenza generale, la 
      magistratura sia priva di seri itinerari formativi: alla mancanza di 
      formazione si accompagna il sistema breganziano di promozione senza 
      meriti, avallato – nella valutazione professionale – dai consigli 
      giudiziari, circuiti chiusi nei quali si scrivono, con noiosa letteratura, 
      agiografie sulle quali gli avvocati, che pure respirano la stessa aria, 
      non riescono ad interloquire.
 
 Questi sono temi e appunti sui quali lavorare e costruire, con la laicità 
      e con la gradualità proprie della giustizia, vissuta come quotidiana 
      necessità dei cittadini. Bisogna saper uscire dal guscio e sottrarsi alle 
      fidelizzazioni delle correnti i cui spifferi governano la quotidianità 
      anche al Csm; sono questi i primi passi per i magistrati, insieme alla 
      necessità di riprendere il dialogo con gli avvocati e, insieme, con le 
      forze politiche. Senza pregiudizi e senza collateralismi in sintonia, come 
      ha auspicato Ciampi, con la coscienza civile del paese. Coscienza nella 
      quale, in un paese liberale, debbono potersi riconoscere – dialoganti – le 
      forze che animano i poteri della democrazia e in cui, nelle rispettive 
      sfere di autonomia, il rispetto tra poteri indipendenti non può, ancora e 
      più, essere messo in discussione. Né dalle sentenze che sfrattano “il 
      simbolo confessionale” né dalle ordalie dei girotondi.
 
 25 maggio 2004
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