"Cambiare il sistema elettorale per arrivare al
bipartitismo"
intervista a Giuseppe Calderisi di Stefano
Caliciuri
[29 apr 05]
«Il partito unico è la sola strada percorribile per completare la
trasformazione istituzionale del paese». Non ha dubbi Giuseppe
Calderisi, ex parlamentare, esperto costituzionalista e membro della
fondazione Magna Charta: più ci si fraziona, maggiore è l’instabilità di
governo. Ne è un esempio la crisi che ha colpito il Berlusconi bis e che
ha, di fatto, costretto il premier a ridisegnare un nuovo esecutivo.
Volgendo lo sguardo a nord delle Alpi si può avere un chiaro esempio di
come le grandi democrazie abbiano già scelto da decenni il bipartitismo.
In Italia, purtroppo, ciò ancora è ben lontano dal divenire
consuetudine. Se nella Casa delle Libertà le linee guida sono dettate da
due partiti di medio consenso (Forza Italia ed Alleanza nazionale), a
cui di volta in volta si affiancano tre piccole formazioni (Cdu, Lega,
Socialisti) determinanti per formare la maggioranza relativa,
all’interno dell’Unione lo scacchiere è assai più intricato: Democratici
di Sinistra e Margherita raccolgono un terzo delle preferenze dello
schieramento, ma la vera maggioranza relativa è costituita dalle rimenti
sette entità (Udeur, Rifondazione, Verdi, Repubblicani, Sdi, Pdci,
Italia dei Valori). Allo stato dei fatti attuali, è facile quindi
intuire a quante pressioni un governo, di qualunque colore esso sia, è
sottoposto ad ogni azione propositiva.
«Purtroppo in Italia gli interessi di partito hanno sempre prevalso su
quelli della coalizione – commenta Giuseppe Calderisi – e questo succede
perché anche il più piccolo degli interlocutori con l’attuale sistema
elettorale può fare la voce grossa, riuscendo a mettere addirittura in
crisi la vita di un governo. Il motivo di tutto questo è da ricercarsi
essensialmente nel nostro sistema elettorale, un’anomala mescolanza tra
maggioritario e proporzionale, dove bisogna concorrere in maniera
simultanea sia contro l’avversario politico che contro gli stessi
alleati. E’ un difetto clamoroso del sistema: soltanto una mirata
riforma istituzionale che preveda due grandi blocchi contrapposti, potrà
ridare slancio all’azione di governo italiano. Fortunatamente Berlusconi
è tornato indietro dalle posizioni che lo avevano contraddistinto
durante il referendum sull’abolizione della quota proporzionale, quando
invitò con profitto gli elettori all’astenzione, e riavvicinandosi così
a quanto allora chiedevano Fini e Follini».
Probabilmente in Italia il bipartitismo non riesce a prendere piede per
una questione culturale: ognuno è più interessato a raccogliere i frutti
del proprio orto piuttosto che seminare ed attendere. «Non so per quale
motivo in Italia sembra quasi vietato identificare il leader di una
coalizione con il premier di Stato: l’affermazione del principo di
responsabilità politica da noi è considata un’aberrazione, quando invece
in tutta Europa il capo della coalizione trionfante alle elezioni
impugna le redini della politica del paese». Il solo esempio che torna
alla mente è legato alla figura di Alcide De Gasperi che, nel secondo
Dopoguerra, seppe mantenere saldi i rapporti sia all’interno della
Democrazia Cristiana che di Palazzo Chigi. Il sentore comune è che i
tempi di una riforma in ottica bipolare e bipartitica potrebbero essere
lunghissimi. «A volte bisogna fare in pochi mesi ciò che non si fa in
molti anni. Ovvero: se esiste la volontà di intraprendere questa strada
innovatrice e riformatrice bisogna anche avere il coraggio di usare il
pugno di ferro. Certo, ci sarà bisogno di un periodo di transizione,
pensare ad una nuova forma di partito politico, magari in un primo tempo
potrebbe essere visto come una federazione tra più realtà, ma poi
bisogna che tutti riescano a sedersi torno allo stesso tavolo e sotto la
stessa bandiera. E’ ovvio che il sistema politico deve essere in grado
di assecondare questo percorso, non forzarlo: la volontà comune per la
stabilità del paese deve prevalere sulle singole motivazioni
elettoralistiche».
Un partito unico, però, presuppone un unico leader. E tutte le
componenti che rimangono escluse? «Questo sta all’intelligenza delle
singole coailizioni saper scegliere la persona giusta del momento. Nel
caso questo non fosse possibile bisognerebbe formalizzare la pratica
delle elezioni primarie, in cui ognuno può concorrere ad assumere la
leadership interna ma in caso di sconfitta rientra nei ranghi e continua
a remare a favore. Questo metodo di scelta potrebbe essere esteso anche
a tutti i singoli collegi parlamentari, non soltanto esser limitato alla
scelta del candidato premier. In questo modo - conclude Calderisi -
nessuno potrà più lamentare una mancanza di interesse nei propri
confronti, nessuno probabilmente potrà più ricattare gli alleati e,
soprattutto, i candidati saranno la reale espressione della volontà di
rappresentanza locale».
29 aprile 2005
stecaliciuri@hotmail.com
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