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		Grand Young Partydi Andrea Mancia
 [29 apr 05]
 
 Si fa in fretta a dire “partito unico del centrodestra”. 
		Ma sono almeno due i modelli di riferimento 
		che in Italia possono essere presi ad esempio per tentare, seppur 
		tardivamente, di gettare il cuore oltre l’ostacolo degli interessi di 
		bottega. E arrivare alle elezioni del 2006 con una qualche possibilità 
		di vittoria (o di sconfitta non catastrofica).
 
      Il modello del Partito 
		popolare europeo, naturalmente, sarebbe quello meglio accolto dai 
		centristi dell’Udc e da una larga parte dei moderati di Forza Italia. 
		Con un po’ di sforzo, forse, potrebbe anche essere accettato dalla 
		maggioranza di Alleanza Nazionale e da qualcuno degli esponenti azzurri 
		che si richiamano all’esperienza dei partiti laici della Prima 
		Repubblica. Ma si tratta davvero di un modello vincente? A Bruxelles e 
		Strasburgo il 
		Ppe è poco più di una federazione di partiti (neppure troppo omogenei, a 
		guardare bene) che non va oltre una blanda attività di coordinamento tra 
		i suoi membri. E che, se proprio vogliamo entrare in dettaglio, non ha 
		neppure capitalizzato in modo convincente la vittoria alle ultime 
		consultazioni europee, che pure hanno visto i partiti di centrodestra 
		conquistare quasi cento seggi in più del raggruppamento 
		socialdemocratico. Infine, siamo certi che le resistenze dei centristi, 
		soprattutto quelli che ancora vedono all’orizzonte la possibilità di 
		ricreare la Balena Bianca democristiana, verrebbero sedate così, 
		semplicemente, indicando nel popolarismo europeo la ricetta per riempire 
		di contenuti la scatola vuota del partito unico? E’ difficile azzardare 
		una risposta netta, a pochi giorni dall’accelerazione berlusconiana che 
		ha rimescolato le carte all’interno della coalizione. Ma la sensazione è 
		che non basti indicare la luna (un partito cristiano-democratico di 
		ispirazione europea) per convincere chi si ostina a guardare il dito 
		(una Dc all'italiana). 
		C’è un altro modello a disposizione, però, che sembra molto 
		più esportabile nel nostro paese: il partito repubblicano statunitense. 
		In particolar modo, il partito repubblicano così come si è modellato 
		dagli anni Sessanta in poi, dopo la sonora sconfitta di Barry Goldwater 
		alle elezioni presidenziali del 1964. Lo abbiamo ripetuto fino alla 
		nausea, in tempi non sospetti, ma è probabilmente il caso di farlo 
		ancora una volta. In quegli anni il Gop, malgrado le due vittorie 
		consecutive del moderato Dwight Eisenhower, si trovava in condizioni 
		disastrose. “Negli anni Sessanta – scrivono i due inviati 
		dell’Economist, John Micklethwait e Adrian Woolridge, in The Right 
		Nation: Conservative Power in America – i liberal americani 
		sostennero la creazione di un welfare state in stile europeo [...] 
		imposero restrizioni sulle armi da fuoco e cominciarono campagne per 
		abolire le esecuzioni capitali, legalizzare l’aborto e introdurre, non 
		solo l’eguaglianza razziale, ma una discriminazione positiva in favore 
		delle minoranze (affirmative action); campagne che portarono i 
		loro frutti nel corso degli anni Settanta. Le élite liberal di Boston e 
		New York credevano di avere una buona chance per civilizzare quelli che 
		qualcuno di loro chiamava yahoos”. Ma gli yahoos (bruti, 
		ignoranti), ci avvertono Micklethwait e Woolridge, non si fecero domare.
		 
		Il Gop, da Goldwater in poi, riuscì nell’impresa (titanica) 
		di far accomodare sotto la sua big tent almeno due razze, 
		apparentemente diversissime, di elettori: quelli individualisti (e 
		liberisti) dell’Ovest e quelli religiosi e (socialmente conservatori) 
		del Sud. Con un processo lungo, difficile e per niente lineare, la 
		“grande tenda” repubblicana trovò più tardi in Ronald Reagan e nella sua 
		battaglia anticomunista un legame abbastanza solido per non crollare 
		sotto il peso delle sue stesse contraddizioni. Ma ci vollero decenni, 
		una produzione di cultura politica impareggiabile e tanti, tantissimi 
		dollari per dare sostanza al progetto. Oggi, malgrado le temporanee 
		incertezze, gli inaspettati tradimenti e il crollo del collante 
		comunista (soltanto parzialmente rimpiazzato dalla guerra al 
		terrorismo), questa aggregazione di forze sociali, politiche ed 
		economiche continua a rappresentare la maggioranza strutturale della 
		nazione americana. Il caso-italiano, fatte le debite proporzioni, non è 
		poi così diverso. Provate a sostituire i libertarian statunitensi con i 
		laici del centrodestra o i radicali, e i conservatori del Sud con la 
		destra italiana post-missina o cattolico-tradizionalista. Provate a 
		vedere come discutono – e qualche volta litigano – i blogger che hanno 
		aderito a TocqueVille (l’aggregazione lanciata nelle scorse settimane da 
		Ideazione) sui temi della bioetica o sull’interpretazione delle omelie 
		di Ratzinger. Provate ad ascoltare un leghista e un liberale parlare dei 
		dazi alla Cina o un federalista e un nazionalista accapigliarsi sul 
		ruolo dello Stato nel Mezzogiorno. Chiunque abbia studiato la storia 
		politica recente degli Stati Uniti proverà una sensazione, non 
		necessariamente inquietante, di déjà vu. E improvvisamente le 
		infuocate riunioni con cui lo stratega repubblicano Grover Norquist 
		tenta (spesso con successo) di mettere insieme posizioni apparentemente 
		inconciliabili ci sembrano più vicine di quanto possa sembrare a prima 
		vista. 
		Lo spettro ideologico che attraversa in lungo e in largo il 
		centrodestra italiano (e zone limitrofe) non contiene posizioni più 
		distanti di quelle che separano il governatore repubblicano della 
		California, Arnold Schwarzenegger, dal senatore repubblicano della 
		Pennsylvania, Rick Santorum. E non sono certo le diverse sensibilità 
		sugli embrioni o il sesso pre-matrimoniale ad impedire agli attivisti 
		anti-tasse del Nevada e ai metodisti della Louisiana di votare per lo 
		stesso partito da quarant’anni. Aspettarsi un coro uniforme di opinioni 
		all’interno di un partito che aspira a rappresentare la metà (più uno) 
		della popolazione è una pia illusione. Quello che si può fare, invece, è 
		trovare una serie di valori condivisi, di priorità comuni e – magari – 
		un “nemico” abbastanza disgustoso da rappresentare un fattore di coesione. Al 
		caso-Italia non manca nessuna di queste caratteristiche. Per funzionare, 
		però, un partito unico costruito sul modello repubblicano deve, prima di 
		tutto, evitare di illudere sé stesso. Non bisogna pensare, per esempio, 
		che un’operazione del genere possa essere tentata senza mettere in 
		preventivo un massiccio investimento culturale. E senza avere la 
		pazienza di aspettare. Le necessità elettorali di breve periodo (le 
		politiche del 2006) non possono mettere in ombra il respiro di lungo 
		periodo che un disegno del genere deve necessariamente prevedere. Fretta ed approssimazione 
		non sono mai state alleate fedeli di una battaglia culturale. 
		
		29 aprile 2005 
        * 
		Andrea Mancia, caporedattore di Ideazione,è il titolare del blog 
		
		The Right Nation
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