Dalle nebbie della crisi all'intuizione del partito unico
di Pierluigi Mennitti
[29 apr 05]
Non ci pare che vi sia molto da salvare nella travagliata vicenda
post-elettorale della Casa delle Libertà. Il nuovo governo che ha appena
ottenuto la fiducia di Camera e Senato si ripresenta agli elettori
sostanzialmente identico al precedente. Poche novità negli uomini al
livello ministeriale, con alcuni cambi tra gli esponenti tecnici che,
secondo la maggioranza ne aumentano lo spessore politico, secondo
l’opposizione accontentano puri appetiti di partito. Maggiori sono le
novità al livello dei sottosegretariati: ma qui il Berlusconi-tre ci
offre il poco invidiabile record dei “partecipanti”, una carica di
sottogovernatori che appaga la visibilità di uomini e simboli e
appesantisce la macchina amministrativa.
Il presidente del Consiglio ha rimodulato l’agenda governativa,
evidenziando la priorità dell’anno pre-elettorale in maggiori sostegni
al Mezzogiorno, alle famiglie e alle imprese. Un programma minimo mirato
a restituire fiducia e rassicurazioni ad un paese, e soprattutto a un
ceto medio, spaventato dalla lunga crisi economica. Le grandi riforme,
che toccano privilegi consolidati e che andavano realizzate nei primi
anni della legislatura, sono accantonate, a parte quelle in dirittura
d’arrivo. Tra queste la devolution, che però è prevedibile sarà ancora
un terreno di scontro tra i diversi partiti. Insomma, nessuno è uscito
bene dal logorio della crisi, sviluppatasi secondo i binari e i riti
della prima Repubblica. In tre settimane, Berlusconi ha consumato lo
smalto della sua leadership, Fini s’è ritrovato un partito lacerato
dalle scelte ministeriali e Follini, che pure ha ottenuto la fine del
governo, si confronta con un nuovo esecutivo che ha Giulio Tremonti
(cioè l’uomo che aveva silurato appena un anno fa) alla vice-presidenza.
In più, il battagliero leader centrista dovrà scrollarsi di dosso
quell’immagine da “signor no” che, alla lunga, può nuocergli in vista di
successivi sviluppi, anche interni all’Udc stessa.
Tutto male, dunque? Non resta che attendere la consunzione del
Berlusconi-tre e consegnare, attraverso il passaggio elettorale, il
paese ad una nuova stagione prodiana? Non è detto. Nelle nebbie della
crisi, il premier Berlusconi ha lanciato una parola d’ordine che da
qualche tempo circola con insistenza negli ambienti culturali di
centro-destra: partito unico. E’ qui la svolta che può riaccendere gli
entusiasmi nell’ambiente moderato, rimettere in moto l’elaborazione
culturale e politica, ravvivare la passione dell’elettorato. Uscire
dalla crisi con uno scatto d’orgoglio e un progetto sul quale
indirizzare la strategia politica dei prossimi anni. Con Berlusconi,
oltre Berlusconi e anche senza Berlusconi, se le vicende politiche
condurranno a questo esito. Il partito unico delle libertà come sbocco
politico dei moderati dopo il lungo decennio della leadership del
Cavaliere. Apriamo dunque il dibattito, fornendo tre spunti di
riflessione.
Primo spunto: la struttura del partito. Guardiamo la scena da
Washington. Che cosa hanno in comune il moderato John McCain o il falco
Donald Rumsfeld, il tecno-conservatore Newt Gingrich o il libertarian
John Reed, il paleo-conservatore Patrick Buchanan e il neocon Paul
Wolfowitz, il texano George W. Bush o l’austro-californiano Arnold
Schwarznegger? E cosa Condoleeza Rice e Jeb Bush, Rudolph Juliani e Dick
Cheney? Un partito politico, il Grand Old Party, capace di accogliere
nella grande mole dell’elefante – simbolo del partito – le cento anime
che da sempre compongono l’universo dei conservatori americani.
Guardiamo ora una scena simile da Roma. Cosa unisce il democristiano
Marco Follini al nazionalista Gianfranco Fini, il federalista Umberto
Bossi al liberista Antonio Martino, il socialista Gianni De Michelis al
comunitarista Gianni Alemanno? E cosa Francesco Storace a Roberto
Formigoni, Sandro Bondi a Roberto Maroni, Pierferdinando Casini a Giulio
Tremonti? Un uomo, Silvio Berlusconi, che ha racchiuso in una leadership
forte le cento e più anime che costituiscono il centrodestra italiano.
Quello che negli Stati Uniti fa un partito, con le sue strutture, i suoi
luoghi di confronto, i think tank e le riviste di dibattito culturale,
l’articolazione sul territorio e nelle università, in Italia fa “un uomo
solo al comando”. Silvio Berlusconi è stato, ed è tuttora, il
centrodestra italiano. L’obiettivo, dunque, è di costruire tutto quello
che negli Stati Uniti fa dei conservatori un partito: un processo lungo
e complesso che va molto al di là del breve tempo che ci separa dalle
elezioni del 2006.
Il secondo spunto riguarda gli elettori del centrodestra che sembrano
già comportarsi come se il partito unico ci sia. Cambiano voto
all’interno della coalizione piuttosto che lasciarsi attirare dalle
sirene del centrosinistra, rafforzano il fragile sistema bipolare
italiano nonostante gli sforzi centrifughi dei partiti. Riconoscersi in
un polo, a prescindere dai simboli che lo compongono, è molto più
semplice per un elettore che per un politico del centrodestra. Motivo
sufficiente per provare a ridurre questo divario, riavvicinando la
politica agli elettori.
Terzo spunto: il modello di riferimento. Si parla da più parti del
partito popolare europeo. Se da un lato è comprensibile il raffronto con
le realtà istituzionali del nostro Continente, dall’altro non sembra
davvero l’esempio più beneagurante. L’Europa, e le sue espressioni
partitiche non hanno di questi tempi un grande appeal e dimostrano in
questi tempi tutta la cifra retorica e burocratica che le caratterizza.
Il partito popolare europeo, lungi dal diventare il catalizzatore
continentale di un rassemblemant liberal-conservatore, è rimasto un
contenitore delle diverse esperienze politiche nazionali che trovano
spazio negli organi direttivi secondo una logica non troppo dissimile da
quella dell’italianissimo manuale Cencelli. Semmai un processo
unificatore dovesse prender piede in Italia, sarebbe meglio guardare a
modelli più vitali e dinamici come il partito repubblicano americano. Se
il progetto è serio, guardiamo alle esperienze migliori.
29 aprile 2005 |