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		Massimo D'Alema commissaria il governo (ma solo 
		a metà)di Cristina Missiroli
 [18 mag 06]
 
 Hanno dipinto Massimo D’Alema come il leader che sa fare un passo 
		indietro per il bene delle istituzioni, del partito, della nazione. 
		Beato (o beota?) chi ci crede. Il presidente dei democratici di sinistra 
		non è affatto sereno come lo dipingono. Anzi. Da settimane – subito dopo 
		le elezioni - è sul piede di guerra e si comporta come se questa fosse 
		la sua ultima vera occasione. Per questo è pronto a passare sul 
		cadavere politico di chiunque. Soprattutto dei nemici interni.
 
 La guerra si gioca a tutto campo. E’ cominciata in parlamento, al 
		momento dell’elezione dei vertici dei gruppi. Ds e Margherita hanno 
		deciso di formare un unico gruppo dell’Ulivo sia alla Camera che al 
		Senato. La presidenza del deputati è stata assegnata alla Margherita e 
		alla guida del gruppo è stato eletto Dario Franceschini: elezione 
		scontata, certo, ma formalmente “normale”, con i deputati dei due gruppi 
		che hanno espresso il loro voto scrivendo il nome del candidato su una 
		simpatica scheda. Palazzo Madama toccava, invece, alla Quercia. Lì 
		l’elezione è stata un po’ meno serena e un po’ più teleguidata.
 
 La sera prima dell’elezione D’Alema ha ottenuto la designazione a 
		capogruppo di Anna Finocchiaro. Per evitare contrapposizioni o sorprese, 
		lo stato maggiore dell’Ulivo si è presentato al Senato in pompa magna. 
		Con il buffo risultato, tra l’altro, che a presiedere l’assemblea dei 
		senatori si sono trovati parecchi abitanti di Montecitorio. Ma l’aspetto 
		più curioso è stato quello della scheda consegnata ai senatori per 
		votare. Niente possibilità di esprimere il candidato. Solo una crocetta 
		da mettere sul “sì” o sul “no” alla proposta della presidenza. Risultato 
		tra perplessità e mugugni: un pienone di dalemiani. Dal fedelissimo 
		capogruppo Anna Finocchiaro, al suo vice Nicola La Torre (ombra di 
		D’Alema), dal vicepresidente del Senato, l’immancabile Gavino Angius, 
		fino al questore, il sardo Gianni Nieddu. Tutti dalemiani doc.
 
 Per fassiniani, sinistra e liberal neanche una poltroncina piccola 
		piccola. Un chiaro messaggio a Romano Prodi: la vita e la morte del 
		governo dipende dalla volontà di D’Alema. Massimo non intende subire più 
		ricatti come quello di Fausto Bertinotti che gli ha impedito la 
		conquista del più alto scranno di Montecitorio. Prodi è avvisato: sappia 
		d’ora in poi con chi deve fare i conti. Il braccio di ferro non ha 
		ottenuto subito i frutti sperati.
 
 Immediatamente è arrivata la crisi del Quirinale. E il secondo passo 
		indietro ha reso Massimo D’Alema ancora più cattivo. Un nervosismo che 
		si è riversato su Piero Fassino e Francesco Rutelli nei giorni caldi 
		della formazione del governo. Il neo ministro degli Esteri ha ottenuto 
		la rinuncia di Fassino al governo e una buona dose di ministri 
		dalemiani. Ma non tutto è andato per il verso desiderato. Il tentativo 
		di commissariamento, pienamente riuscito al Senato, è stato meno 
		efficace per quel che riguarda l’esecutivo. Sono di provata fede 
		dalemiani quasi tutti i ministri in quota ds. Oltre al leader stesso, 
		cui tocca la doppia poltrona di vicepremier e ministro degli Esteri, c’è 
		Pierluigi Bersani al ministero per lo Sviluppo, Livia Turco alla Salute, 
		Barbara Pollastrini alle Pari Opportunità. A metà strada tra D’Alema e 
		Fassino c’è Vannino Chiti cui spetta un ministero delle Riforme 
		rafforzato. Mentre a metà strada tra D’Alema e Bassolino (ha lavorato 
		con entrambi prima in Campania e poi in Puglia) c’è Luigi Nicolais alla 
		Funzione Pubblica. Non direttamente sotto influenza dalemiania sono 
		soltanto il fassiniano Cesare Damiano al Lavoro, il leader della 
		sinistra interna Fabio Mussi alla Ricerca e Università e la veltroniana 
		Giovanna Melandri, ripescata in extremis con un ministero che sa tanto 
		di hobby e sport. Grande escluso Luciano Violante. Aveva chiesto per sé 
		le Riforme, ma è stato giubilato. Pare dopo un braccio di ferro tra 
		Fassino e D’Alema che avrebbe visto la vittoria del segretario.
 
 Totalmente dimenticata la corrente liberal: Enrico Morando era in 
		predicato per diventare viceministro unico all’Economia con Tommaso 
		Padoa Schioppa, sulla poltrona che nel passato governo era occupata da 
		Giuseppe Vegas. D’Alema ha ottenuto invece lo sdoppiamento del ruolo e 
		l’imposizione del fidato Vincenzo Visco. I liberal - mormorano non senza 
		ferocia i dalemiani - hanno già il Quirinale (toccato al migliorista 
		Giorgio Napolitano da sempre vicino ai liberal) e la presidenza della 
		Rai di Claudio Petruccioli: che si accontentino.
 
		
		18 maggio 2006
 * Cristina Missiroli è la titolare del blog 
		
		
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