Referendum: un "sì" per riqualificare la politica
di Domenico Mennitti*
[23 giu 06]
La opinione di molti osservatori politici è che la tanto evocata riforma
federalista dello Stato sia giunta al giorno del giudizio elettorale
svuotata d’interesse, negletta persino dalla famiglia politica che l’ha
sostenuta e votata in Parlamento. In verità sul sostegno strenuo di
molti padri la legge non ha mai potuto far conto: l’iter parlamentare,
infatti, si è svolto fra pause e spintoni, con la Lega minacciosa a
rivendicare il valore essenziale della riforma e gli alleati, tiepidi,
impegnati ad azionare il freno su alcune norme e preoccupati soprattutto
di salvaguardare governo e maggioranza dal “risentimento padano”.
L’opposizione ha di fatto rinunziato a partecipare al dibattito,
limitandosi ad una propaganda terroristica fondata sul principio della
difesa dell’unità nazionale.
Acquisiti i risultati di due competizioni elettorali, ora gli oppositori
della riforma hanno il morale alto ed i sostenitori battono la fiacca.
Conclusione: l’argomento più evocato degli ultimi quindici anni, lo
scoglio sul quale è naufragata la prima repubblica, la grande speranza
di rinnovare le istituzioni e di rigenerare la politica, insomma quella
che ai primi anni Novanta si rappresentava come l’aspirazione più forte
degli italiani potrà evitare la figuraccia della inutilità del passaggio
elettorale solo perché per questo tipo di referendum non è prescritto il
quorum.
Francamente non è un bel quadro, perché la prima fondamentale domanda da
porsi non è la valutazione sul merito della riforma, su quanto del
vecchio testo si ritiene superato e sulle introduzioni idonee a far
funzionare la macchina dello Stato in sintonia con i bisogni attuali dei
cittadini; piuttosto il livello d’importanza che la classe politica
attribuisce alla esigenza di disporre di leggi più moderne, più
attrezzate rispetto ai problemi, più efficienti e funzionali rispetto
alla velocità degli eventi ed alla capacità del potere pubblico di
governarli. Non è una domanda che sposta indietro le lancette
dell’orologio ed introduce un espediente dialettico per evitare risposte
dirette ed immediate sul voto da esprimere domenica prossima; è il
tentativo di capire la ragione della caduta di tensione che caratterizza
questa scialba vigilia, nella quale siamo sopraffatti dalla noia,
costretti ad assistere ad una patetica carica dei nostalgici, scesi in
campo con lo slogan “ la costituzione non si tocca”, e ad una diffusa
latitanza di quanti, avendo costruito in Parlamento un nuovo sistema,
sembrano abbiano perso ogni entusiasmo nel momento della consacrazione
popolare.
Nel 1994, quando gli analisti decisero di definire “seconda repubblica”
la fase politica che s’era aperta dopo Tangentopoli, furono determinati
a questa scelta dal fatto che la riforma costituzionale sembrava dovesse
segnare la linea di confine tra il vecchio ed il nuovo, tanto è vero che
si parlò a lungo della opportunità di aprire una fase costituente e di
affidarne la gestione ad una assemblea autonoma. La Costituente non si
fece e la Commissione bicamerale produsse i risultati inconcludenti che
tutti conosciamo.
Ecco perché ha senso la domanda: la classe dirigente italiana ritiene
ancora fondamentale – addirittura preliminare a qualsiasi altro tipo di
riorganizzazione – mettere mano alla Carta Costituzionale? Oppure, come
si espresse un protagonista importante del nostro mondo politico,
ritiene che “la Costituzione non dat panem”, nel senso che non produce
consensi elettorali ed è una esercitazione accademica per pochi
iniziati?
La mia personale posizione è che sia essenziale al buon funzionamento
dello Stato, ma anche alla riqualificazione della politica, una
rivisitazione del testo della Costituzione, che – come ha detto il
giorno prima della elezione il nuovo presidente della repubblica – “ è
stata scritta con l’intento che durasse a lungo, non che fosse
immutabile”.
Perciò voterò e mi esprimerò a favore del “sì”, dando al mio voto il
senso della volontà di avviare un processo che sino ad ora ha subito
accelerazioni in tempi di emergenze ed impantanamenti in tempi ordinari.
Insomma, per dirla con chiarezza, sino a quando ci sarà qualcuno che
sosterrà la tesi secondo la quale “la Costituzione non si tocca”, mi
sentirò autorizzato a sostenere il contrario. C’è un punto di partenza
che mi sembra essenziale: la “devoluzione”, espressione spesso
pronunziata nella versione inglese per caricarla di facile ironia,
introduce il principio del trasferimento dei poteri, concetto al quale
in tutti questi anni si è opposto quello della delega, che non ha mai
consentito si avviasse il cammino dell’autonomia. C’è chi teme che
l’approvazione della legge non segni l’avvio, ma l’immodificabile punto
d’arrivo di una vicenda legislativa. Però la preoccupazione sembra
eccedere sino al punto da negare la vitalità della politica, un dato che
coinvolge non solo le classi dirigenti ma anche gli elettori.
Sugli aspetti particolari è difficile esprimersi in poche battute.
Tuttavia è innegabile che lo spirito del sia quello di modernizzare lo
Stato, il sistema di approvazione delle leggi, le funzioni delle due
Camere, il numero dei parlamentari, tutti temi sui quali la coscienza
popolare ha manifestato – quando ha potuto, come ha potuto – una chiara
propensione. E’ la volontà di una parte soltanto del Parlamento e,
quindi, del Paese? Ma le riforme solo quando intervengono dopo
sconvolgimenti profondi e cruenti si realizzano in un clima di grande
unità; in tempi ordinari sono opera della parte coraggiosa e
lungimirante della politica che, invece di farsi travolgere, precede gli
eventi. Il loro valore si misura su tempi lunghi. Avviamoli, quindi,
senza ulteriori indugi.
* Sindaco di Brindisi, presidente della
Fondazione Ideazione
23 giugno 2006
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