Tutti i dubbi della missione in Libano
di Alessandro Marrone
[05 ott 06]
Oggi nessuno sottolinea il fatto che l’Italia ha mandato 2.500 soldati
in Libano, una delle regioni più pericolose del mondo. Mentre l’Iraq è
stato per tre anni nell’occhio del ciclone, oggi non ci sono bandiere
arcobaleno ai balconi né marce per la pace, e i media guardano da
tutt’altra parte. Eppure entrambe le missioni sono in Medio Oriente.
Entrambe sono legittimate da risoluzioni dell’Onu successive a una
guerra, la 1546 del 2003 per l’Iraq e la 1701 del 2006 per il Libano,
che invitano esplicitamente tutti i paesi membri a inviare soldati.
Entrambi vedono una partecipazione più o meno significativa della
comunità internazionale, 30 paesi in Iraq e 6-8 in Libano. Entrambi
prevedono per i nostri soldati la facoltà di rispondere al fuoco se
attaccati, e il ministro Parisi ha affermato che la missione in Libano
sarà “lunga, pericolosa e difficile”, mentre la pericolosità della
missione in Iraq purtroppo si è vista nella morte di diversi soldati. La
differenza discriminante sta nel fatto che la missione in Iraq fu voluta
dal governo Berlusconi, quella in Libano dal Governo Prodi. E’ evidente
allora la strumentalità e l’infondatezza del clamore orchestrato per tre
anni dai movimenti pacifisti, teleguidati dai partiti dell’Unione, che
oggi hanno messo l’elmetto e applaudito la partenza dei militari.
Le contraddizioni dell’Unione “di lotta e di governo” risaltano
maggiormente di fronte al comportamento coerente del centrodestra: già
favorevole alla guerra Nato in Serbia voluta dal governo D’Alema nel
1998, artefice delle missioni di peace-enforcing in Afghanistan e Iraq
quando governava, oggi non è pregiudizialmente contrario a una missione
decisa dal governo Prodi: il 14 Settembre in Commissione Esteri e Difesa
Fi, An e Udc hanno votato a favore della missione, mentre la Lega si è
astenuta, e tutta la CdL ha chiesto chiarimenti su obiettivi, entità e
regole di ingaggio del contingente italiano, in un ulteriore passaggio
parlamentare. L’unico modo infatti per sfuggire alla logica infantile
“la mia guerra è bella e giusta, la tua no”, è analizzare quanto sono
raggiungibili gli obiettivi prefissati in relazione alla strategia e ai
mezzi impiegati nella missione. Dopo che Israele aveva reagito
militarmente agli attacchi missilistici degli Hezbollah, finanziati e
armati da Iran e Siria, la risoluzione Onu 1701 chiedeva almeno
quindicimila soldati per presidiare la regione meridionale del Libano
compresa tra il fiume Litani e il confine con Israele, base degli
attacchi Hezbollah e obiettivo della reazione israeliana. Cina, Russia,
Turchia, hanno promesso di inviare truppe in Libano, ma tra il dire e il
fare c’è di mezzo il mare (di petrolio iraniano), e così a metà
settembre dei soldati richiesti erano schierati sul terreno meno di un
terzo, di cui circa duemila francesi, 1100 spagnoli e mille italiani.
Altri 1500 italiani pattuglieranno le acque marine libanesi al sicuro
delle portaerei. Un contingente di terra assolutamente insufficiente,
quindi, per presidiare efficacemente l’area e raggiungere gli obiettivi
della risoluzione 1701 che prevede anche, testualmente, “il disarmo di
tutte le milizie sul campo”, compresa quindi Hezbollah che conta sul
triplo, se non il quadruplo, di effettivi.
Perciò, come sempre, le parole dell’Onu restano sulla carta senza un
esercito che le faccia rispettare sul campo: gli attori regionali più
vicini all’Iran, a cominciare dal leader sciita Nasrallah, si sono
precipitati ad affermare che le truppe internazionali non vanno lì a
disarmare Hezbollah, alla faccia della lettera della risoluzione
accettata come male minore da Israele e dagli Usa. L’ala sinistra
dell’Unione è del medesimo avviso, e così il ministro D’Alema tenta
improbabili equilibrismi: prima passeggia per Beirut sottobraccio ad un
deputato di Hezbollah, poi in Parlamento dichiara che: “la forza Unifil
2 non ha il mandato di disarmare direttamente Hezbollah, ma ha il
mandato di contribuire a rendere possibile questo risultato”. Ma come?
Non si sa. Non lo sa l’Onu, non lo sa il comando francese della
missione, non lo sanno gli italiani, e non lo si deduce certo dalle
regole di ingaggio. La missione in Iraq aveva l’obiettivo, considerato
da alcuni sbagliato e utopistico, di aiutare la ricostruzione
democratica del paese. La missione in Libano rischia di non avere
obiettivi, e di ridursi semplicemente a stazionare in una polveriera,
come la precedente Unifil 1.
Cosa succederà allora? Chirac lo ha detto nell’ultimo vertice credendo
di avere il microfono spento: “A mio avviso non ci saranno problemi per
due o tre mesi perché Hezbollah si è un po' indebolita. Ma fra tre,
quattro, cinque mesi potrebbe diventare pericoloso. Sono un po'
preoccupato per il futuro. Molto dipenderà dall'andamento dei negoziati
con l'Iran sul nucleare”. E’ proprio questo il punto che molti
nell’opinione pubblica di centrodestra hanno evidenziato e che il
governo ha ignorato e censurato: la missione non va in Libano a
disarmare Hezbollah, e non appena i guerriglieri si riprenderanno dalla
batosta inflittagli dall’esercito israeliano potranno riprendere a
lanciare i loro missili su Israele, nei tempi e nei modi che l’Iran
vorrà. E a quel punto i nostri soldati saranno spettatori inermi, anzi
peggio: possibili vittime di rappresaglie israeliane sulle postazioni
Hezbollah costruite a un passo dagli alloggi Unifil. Forse è per questo
che i francesi passeranno il comando agli italiani giusto tra 4-5 mesi.
Così rischiamo non solo di stazionare in una polveriera, ma di restare
anche con il cerino in mano.
05 ottobre
2006
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