| La grande paura degli europei di Alain Besançon
 da Ideazione, gennaio-febbraio 2004
 
 Perché la Francia incontra tante difficoltà a procedere a quelle 
        riforme, palesemente necessarie, che, operate dai suoi vicini in un 
        clima di accordo politico generale, si sono mostrate tanto feconde e 
        pertinenti? Perché tanta timidezza, tanta esitazione nei governanti 
        francesi? A causa di un sentimento che non osano neanche confessare a se 
        stessi perché inconfessabile: la paura. Solitamente la paura non viene 
        associata all’idea che la gente si fa della Francia, paese di dolcezza, 
        civiltà, bonomia. Eppure, Voltaire definiva i francesi un popolo 
        “frivolo e duro” e si metteva a letto ad ogni anniversario della notte 
        di San Bartolomeo. In effetti, sono pochi i paesi europei in cui le 
        guerre di religione hanno dato vita a crudeltà così efferate. L’editto 
        di Nantes non riconciliò i francesi e fu la necessità di mantenere 
        unite, anche per mezzo della paura, delle fazioni che continuavano ad 
        odiarsi a giustificare l’instaurazione della monarchia assoluta, 
        sistematizzata dalla dittatura di Richelieu. La Rivoluzione ha 
        notevolmente aggravato l’inimicizia tra i francesi e lo Stato 
        napoleonico è sorto per obbligarli, ancora una volta, a convivere 
        insieme. Il controllo dei cittadini da parte dell’amministrazione è 
        stato rigoroso e pesante e la letteratura ha dato voce alle loro 
        rimostranze. Per più di un secolo sono stati sottoposti ad un servizio 
        militare in cui la disciplina era più impersonale e l’iniziativa 
        individuale del soldato più vessata che non, per esempio, nell’esercito 
        tedesco.
 
 In Germania, dove si coltivava l’ideale di Gemeinschaft, non c’era una 
        mensa separata per gli ufficiali. Lo Stato francese si è liberalizzato 
        solo parzialmente, per brevi periodi, e nel Novecento, a causa delle 
        guerre e della socializzazione economica, ha avuto un’evoluzione che, 
        nell’insieme, l’ha portato ad un ampliamento dei propri poteri, anche se 
        l’influenza dell’Europa e della pace l’ha obbligato, nel corso degli 
        ultimi anni, ad accettare a malincuore norme di diritto adottate da 
        tempo dalle democrazie del Nord. Tuttavia, la pericolosità del clima 
        politico è una caratteristica costante della Francia. Eccone alcuni 
        esempi. Quattro volte, nella sua storia moderna, lo Stato francese ha 
        escluso una parte dei suoi cittadini dalla comunità politica: la prima 
        fu la spoliazione e l’esilio dei protestanti dopo il 1685; la seconda fu 
        la spoliazione e l’esilio degli “emigrati” della Rivoluzione; la terza 
        fu la spoliazione e l’esilio delle congregazioni religiose in seguito 
        alle leggi anticlericali della Repubblica radicale; la quarta fu la 
        spoliazione e l’esclusione degli ebrei in conformità ai decreti del 
        1940. Ogni volta, si comincia rendendo la vita impossibile al gruppo 
        designato, confiscandogli tutti i beni e obbligandolo a lasciare il 
        paese o a vivere in clandestinità. Ogni volta, per ciascuna di queste 
        decisioni si sono trovati giudici disposti a redigerle in debita forma e 
        un’amministrazione pronta ad applicarle alla lettera. Solo in Francia 
        troviamo una sequenza ripetitiva così sorprendente.
 
 Sin dai tempi della Rivoluzione, ma in modo ben più sistematico 
        dall’ultima guerra, in Francia viene applicata la damnatio memoriae. La 
        cancellazione metodica dei simboli della monarchia è stata condotta con 
        un rigore straordinario, in un’orgia di vandalismo e distruzione del 
        patrimonio culturale unica al mondo. La maggior parte delle nazioni 
        europee ha conservato le proprie insegne: la Germania ha mantenuto la 
        sua aquila, la Russia l’aquila bicipite, la Spagna il ricco stemma dei 
        suoi re. Se in Francia venisse reintrodotto l’emblema del giglio (di 
        origine merovingica e, quindi, privo di qualsiasi significato 
        religioso), si scatenerebbe un putiferio. I francesi si devono 
        accontentare di un triste “Rf” sui propri piatti ufficiali laddove, 
        ancora oggi, gli italiani non esitano ad usare un servizio da tavola sul 
        quale figurano le armi di casa Savoia.
 
 L’imperdonabilità è entrata a far parte degli usi e costumi della 
        Repubblica francese sin dalla sua fondazione. Le epurazioni del 
        personale imperiale sotto Gambetta e Grévy non hanno risparmiato né gli 
        alti funzionari dello Stato né i magistrati più inamovibili. E questo 
        non è niente paragonato alla vigile maledizione che colpisce chiunque 
        abbia partecipato, seppure marginalmente, al governo di Vichy. E’ stato 
        necessario mandare al macero delle banconote con l’effige dei fratelli 
        Lumière e dei francobolli emessi in onore di César Franck, cambiare nome 
        a luoghi pubblici intitolati ad Alexis Carrel o Georges Claude, quando 
        la toponomastica francese è deturpata da innumerevoli Robespierre, 
        Saint-Just, Lenin, Duclos e altri assassini. Di recente, dall’entrata 
        del ministero dell’Istruzione nazionale è stato rimosso il ritratto di 
        Carcopino, che ha lasciato un vuoto come a Venezia, nella galleria dei 
        dogi, il ritratto mancante del traditore. Ieri, in libreria, mi è 
        capitato tra le mani un libro dal titolo Les Acquittés de Vichy (Gli 
        assolti di Vichy): l’autore sembrava scoppiare d’indignazione 
        constatando che alcuni dei colpevoli l’avevano fatta franca. Siamo nel 
        2003: sono passati cinquantotto anni! Il processo Papon ha rappresentato 
        uno sbocco dal quale gli umori epurativi francesi sono fuoriusciti con 
        tutta la veemenza del loro inestinguibile ardore.
 
 La pericolosità politica della Francia ha tuttavia un’origine ben 
        precisa. Si tratta del movimento sanculotto, sezionale1, giacobino 
        estremista che si è impadronito di Parigi nel 1792. Secondo Denis 
        Richet, aveva avuto un precedente: la Lega, al tempo dei Guisa. E’ 
        possibile, ma, a partire dal periodo del Terrore, nella storia politica 
        francese persiste un nucleo rivoluzionario il cui umore rimane immutato, 
        nonostante la rivoluzione a cui ambisce cambi varie volte di contenuto. 
        Si possono distinguere, nella sua struttura, due livelli sovrapposti? In 
        alto, gli ideali: l’uguaglianza, il nazionalismo, la Repubblica come 
        democrazia diretta, il sogno millenaristico di una società nuova, in cui 
        regni la fratellanza. In basso, passioni inespresse: il gusto della 
        violenza, la legittimità dell’odio, un certo nichilismo di stampo 
        anarchico, una mancanza di rispetto per principio nei confronti della 
        legge, della rappresentanza politica, dell’espressione del suffragio. 
        Questo nucleo si dilata e si contrae, ma mi pare che sia sempre stato 
        capace di conquistarsi la simpatia attiva di almeno un decimo del corpo 
        politico francese.
 
 Contenuto prima dal Direttorio e poi, con maggior fermezza, dal 
        Consolato, riappare nel 1815, nel 1830-32, nel 1848, nel 1871, fedele al 
        modello iniziale di stampo sezionale. Offre la sua etica barricadera al 
        magro sindacalismo francese, mai risollevatosi dopo lo scioglimento 
        delle corporazioni operato dalla legge Le Chapelier, che lo ha 
        condannato all’inefficacia, alle spaccature interne, all’allontanamento 
        dalla vita politica rappresentativa. E’ responsabile del mancato 
        passaggio dalla classe operaia alla socialdemocrazia, secondo il modello 
        tedesco o inglese. Ad ogni nuova conflagrazione, la classe politica 
        doveva trovare al proprio interno personaggi autoritari, come Casimir 
        Périer, Cavaignac, Thiers o Clemenceau, in grado di contenere il 
        “nucleo”, salvatori e oggetto di esecrazione. Tra una crisi e l’altra, 
        però, continuava a non essere tranquilla. “Il carro dello Stato naviga 
        sopra un vulcano”. Secondo Elie Halévy, alla vigilia del 1914 si 
        profilava una scelta tra guerra e rivoluzione: tesi improbabile, 
        testimonianza tuttavia di grande inquietudine.
 
 Un nucleo irriducibile
 
 All’incirca nel 1923, il movimento rivoluzionario indigeno francese si è 
        aggregato al movimento comunista internazionale, guidato direttamente da 
        gruppi sovietici. La pericolosità politica transalpina ha preso una 
        nuova piega, raggiungendo un livello superiore. Ecco perché le crisi del 
        1936, del 1944-46 e del 1968 sono state fenomeni che hanno oltrepassato 
        il quadro nazionale. Dopo la seconda guerra mondiale, la presa di potere 
        da parte dei comunisti in occasione di una crisi è diventata 
        un’eventualità certamente poco probabile, ma plausibile o almeno 
        ipotizzabile, che governanti ed elettori hanno iniziato a tener 
        presente. “Tra noi e i comunisti non c’è niente” diceva Malraux. Questa 
        congiuntura è stata la formula base della Repubblica gollista, in grado 
        di mantenere la propria stabilità soltanto a patto di porre e sfruttare 
        un’alternativa del genere, di trasformare ogni grande elezione in un 
        estenuante gioco di lascia o raddoppia, in cui molti votavano, per la 
        destra o per la sinistra, contro le proprie reali convinzioni, 
        semplicemente per paura, imponendo alla vita politica francese un 
        estenuante vivere pericoloso.
 
 Il collasso del 1968 è stato una sorpresa e resta tutt’oggi, almeno in 
        parte, un mistero. Ci furono tuttavia alcuni giorni in cui il Partito e 
        la Cgt (Confédération Générale des Travailleurs, Confederazione generale 
        dei lavoratori) ebbero campo libero. Se la Francia ha evitato una fase 
        convulsiva alla portoghese o alla cilena, deve solo ringraziare che il 
        tacito accordo di politica estera tra de Gaulle e Breznev resse alla 
        crisi. Breznev aveva svariate buone ragioni per non romperlo, ma era lui 
        ad avere in mano il gioco. Come mai il gollismo si era ridotto a 
        ricercare le proprie garanzie in Unione Sovietica? Per questo episodio 
        poco glorioso, unica spiegazione e scusa è il clima di precarietà della 
        vita politica francese.
 Dopo questi “avvenimenti”, il nucleo rivoluzionario autoctono ha 
        iniziato a staccarsi dal movimento comunista internazionale, permettendo 
        a Mitterrand di intraprendere quella brillante avventura personale che 
        doveva portarlo al potere per una quindicina d’anni. L’ex presidente 
        della Repubblica ha dovuto mutuare la lingua del nucleo e prendere in 
        prestito parte del suo programma, il che ha causato, per due anni, dal 
        1981 al 1983, uno scossone economico e sociale i cui effetti perdurano 
        ancora oggi. Poi il comunismo è crollato.
 
 Da quel momento, abbiamo assistito ad un’evoluzione sorprendente: si 
        potrebbe parlare di rimpatrio in Francia dell’idea rivoluzionaria. Il 
        congiungimento del partito “sezionale” con il comunismo era stato 
        considerato come un’estensione alla Russia, e successivamente al mondo, 
        del giacobinismo nazionale, il che soddisfaceva il genere di 
        nazionalismo proprio della Rivoluzione. Léon Blum tacciava i comunisti 
        francesi di nationalisme étranger (nazionalismo estero). Certo, ma si 
        trattava comunque di nazionalismo, sebbene proiettato in una Russia 
        utopica. Era un nazionalismo franco-sovietico e i militanti di base non 
        vi vedevano alcuna contraddizione. Quando l’idea ha fatto ritorno in 
        Francia, ha recuperato le linee guida robespierriste, diventando 
        pienamente compatibile con quel nazionalismo innato che così ben 
        simboleggia l’espressione “eccezione francese”.
 
 L’idea ha abbandonato in parte le sue convinzioni marxiste. Con il 
        marxismo-leninismo aveva perso quella simpatia che nutriva per la 
        produzione, per la produttività, una simpatia che aveva ricoperto un 
        certo ruolo prima e dopo la seconda guerra mondiale. E’ ritornata al 
        conservatorismo economico assoluto, al rifiuto del progresso, al 
        luddismo, all’antimodernismo di un certo tipo di sindacalismo 
        rivoluzionario. Ha perso il suo aspetto sociologico e storiosofico, la 
        codificazione “scientifica” delle proprie passioni, sebbene il 
        trotzkismo abbia in parte conservato il proprio vocabolario e le proprie 
        liturgie. Robespierre denunciava pubblicamente “i viziosi e i ricchi”, 
        confidando nella giustizia dei tribunali e delle masse sezionali. Si 
        trattava, quindi, di un oggetto d’odio vago e onnicomprensivo, ma allo 
        stesso tempo concreto e visibile, decisamente meno astratto delle 
        categorie che incorrevano nella condanna della dottrina marxista. 
        Vizioso e ricco può essere il proprio vicino: è un odio di vicinanza.
 
 Dopo essersi sbarazzato del proprio arsenale ideologico di “classe”, è 
        stato più facile per il sinistrismo post-sessantottino penetrare negli 
        ambienti che non devono più niente alla famosa “classe operaia” e 
        riconquistare quei ceti sociali che erano stati la culla del 
        giacobinismo e del pensiero rivoluzionario: in passato, piccoli uomini 
        di lettere, avvocati, magistrati, abati e redattori di gazzette; oggi, 
        soprattutto professori, giornalisti e una parte del mondo dello 
        spettacolo. Il guaio è che quest’ultimo strato sociale viene gonfiato a 
        dismisura dall’evoluzione delle società democratiche moderne. L’immensa 
        istituzione dell’Istruzione nazionale costituisce il serbatoio e la 
        roccaforte di questo stato d’animo: preserva atteggiamenti di sacrosanta 
        indignazione, dualismi del tipo “noi e loro”, tutta una religiosità 
        fondata su un sincero timor panico della “destra”; non è più formalmente 
        marxista, ma ha costruito una storia di Francia in partita doppia, 
        separando il male – l’Ancien Régime, la religione cattolica, la 
        borghesia, “l’ordine morale”, il colonialismo, il razzismo, il mercato, 
        il profitto – dal bene, le cui massime espressioni sono gli episodi 
        francesi di rivoluzione, insurrezione, “contestazione”. A mio parere, 
        questa visione del mondo, affidata ai testi scolastici, non viene 
        coltivata in modo tanto geloso in nessun’altra nazione. Di certo, in 
        nessun paese dell’ex impero sovietico. Un’altra eccezione francese è 
        rappresentata dall’egemonia di questo tipo di pensiero, di questa 
        religiosità, di questi riflessi morali nel giornalismo scritto e 
        televisivo. Secondo una statistica riportata da Commentaire, il 90 per 
        cento dei giornalisti vota per la sinistra ed altrettanti darebbero il 
        proprio suffragio ad Arlette Laguiller piuttosto che a Jacques Chirac. 
        Non vedo altri paesi in Europa in cui la divisione politica dei media 
        rifletta così poco la divisione politica del corpo elettorale, che, come 
        ovunque altrove, varia intorno al 50 per cento.
 
 Lo Stato e la società civile
 
 La presenza di questo nucleo irriducibile incide in maniera 
        considerevole sullo stile di governo francese e sul rapporto che lega lo 
        Stato alla società civile.
 Cosa succede quando è la sinistra a governare? Innanzitutto, può 
        raggiungere il potere soltanto con l’aiuto dell’estrema sinistra. E’ 
        quindi costretta a infarcire il proprio programma di assurdità 
        economiche, con gran disperazione dei quadri socialisti 
        dell’amministrazione statale, incaricati, volenti o nolenti, di metterle 
        in atto. Come ha saggiamente fatto notare Philippe Raynaud, il governo 
        di sinistra in Francia si riduce alla struttura del Direttorio 
        termidoriano: degli uomini di governo, disincantati, del tutto scettici, 
        in alcuni casi persino cinici, sufficientemente razionali, sono 
        obbligati a far affidamento sulle masse sezionali (sulla “base” del 
        partito) per conservare il potere in modo duraturo. Navigano quindi tra 
        il ragionevole e l’inetto, ma devono essere capaci, in qualsiasi 
        momento, di fruttidorare il proprio avversario di destra, in caso di 
        necessità.
 
 Il loro stile di potere, pur non essendo dispotico, non è neanche 
        autenticamente liberale. Deve pesare una minaccia. Mai l’apparato 
        statale francese è stato così ostentativo, mai il viceprefetto così 
        solenne nei suoi spostamenti, così difficile da contattare, così 
        maestoso nelle sue visite quanto sotto Mitterrand. Nel frattempo, però, 
        lo Stato cresce. Da quando il sinistrismo è divenuto il luogo d’incontro 
        di tutti i conservatorismi sociali e di tutti gli immobilismi economici, 
        una porzione crescente dei francesi intende trarre profitto 
        dall’economia amministrata. Più della metà di loro vede aumentare il 
        proprio reddito grazie alla ridistribuzione dei prelievi fiscali. Quando 
        si vuole beneficiare direttamente delle ridistribuzioni, evitare i 
        rischi del mercato, liberarsi da qualsiasi preoccupazione in materia di 
        impiego e pensione, la cosa più semplice e logica da fare rimane pur 
        sempre di trovarsi un posto come funzionario statale: secondo un 
        sondaggio, sarebbe il sogno del 67 per cento dei giovani francesi. Un 
        quarto della popolazione transalpina ci è riuscito (un sesto, in media, 
        negli altri paesi).
 
 Vi sono riusciti, però, soltanto grazie alla pressione che esercitano 
        sullo Stato. Ecco perché lo Stato non può fare assegnamento sul fatto 
        che si calmino e diventino, politicamente, conservatori. Il loro 
        conservatorismo esige una posizione di sinistra e il loro sinistrismo si 
        esprime attraverso il rifiuto, violento ed estremista a parole, di 
        rimettere in questione, in qualsiasi modo, il loro status, i privilegi 
        acquisiti. Il governo di sinistra cede in parte, ampliando così la sua 
        base elettorale, ma senza ottenere la pace; oppure tenta di deviare la 
        rivendicazione economica, difficile da soddisfare, tramutandola in 
        rivendicazione “culturale”, sul tipo dei pacs, assumendo atteggiamenti 
        avanguardistici che, pur non costandogli molto, lo trascinano ancor più 
        nella connivenza con l’estrema sinistra, pericolosa per la sinistra 
        quanto per la destra. Ecco il motivo per cui, in Francia, ciò che resta 
        del sindacalismo si concentra nella funzione e nei servizi pubblici: è 
        lo Stato che più ha da dare ed è lo Stato che più facilmente dà, perché 
        forte della propria capacità di far pagare “i viziosi e i ricchi” e 
        perché, a differenza delle imprese private, non paga di tasca propria. 
        Insomma, l’idea socialista si è trasformata in idea statalista, ma senza 
        portare tranquillità allo Stato, che continua a crescere in modo 
        patologico, come quei cani che mangiano il doppio perché devono nutrire 
        la tenia che li divora dall’interno.
 
 Cosa succede, invece, quando è la destra a governare? Risente di un 
        deficit di legittimità a causa dell’egemonia che il pensiero del nucleo 
        sinistrorso esercita sulla sinistra e, come vedremo, anche su parte 
        della destra stessa. In Spagna, la sinistra lascia governare la destra – 
        e viceversa – perché il “nucleo” non esiste. In Francia questo non 
        accade: per riconquistare il potere, la sinistra, all’opposizione, deve 
        riallacciare i rapporti con l’estrema sinistra, sebbene quest’ultima 
        l’abbia fatta tribolare quando era al governo. Nella congiuntura 
        attuale, al congresso socialista abbiamo sentito personaggi come 
        Hollande, Fabius e Strauss-Kahn, le cui gradevoli figure di quadri ben 
        pasciuti dell’amministrazione statale contrastavano in modo sbalorditivo 
        con i loro discorsi, proporre politiche completamente contrarie a quelle 
        che avrebbero voluto applicare quando erano al governo e a cui hanno 
        dovuto rinunciare per timore di quell’estrema sinistra con cui ora si 
        trovano d’accordo. Di conseguenza, la destra, che vorrebbe essere 
        centrista, sarà costretta a riprodurre la congiuntura gollista e ad 
        accaparrarsi il suffragio di elettori che non saranno convinti del 
        proprio voto, ma che le accorderanno la propria preferenza perché 
        obbligati dall’assurdità del programma della sinistra detta di governo.
 
        A partire 
        dagli anni Sessanta, quella di riforma è stata soprattutto un’idea della 
        sinistra. Certo, nel periodo di de Gaulle e di Giscard d’Estaing, la 
        riforma è stata attuata, di preferenza, per via statalista. Lo Stato, 
        insieme alle sue funzioni, è cresciuto altrettanto velocemente sotto i 
        governi di destra. Ora che questi ultimi sembrano aver aderito ad un 
        ancor timido liberalismo, è comprensibile che una parte dell’apparato 
        statale dello stesso colore politico voglia continuare ad esistere e non 
        abbia alcuna fretta di sparire nel vasto oceano del mercato. Esiste 
        quindi una certa connivenza tra statalismo di destra e statalismo di 
        sinistra.
 De Gaulle aveva volontariamente trattato con riguardo i comunisti, che 
        all’epoca rappresentavano il “nucleo”, sia perché sperava di riuscire a 
        creare un raggruppamento di tipo unanimistico, sia perché voleva 
        sfruttare la propria politica estera usandola come un’utile leva, sia 
        perché intendeva paralizzare l’opposizione di sinistra, in quel periodo 
        ancora fermamente anticomunista, comprendendo in questa paralisi anche i 
        comunisti. Da allora, però, altri governi di destra hanno raggiunto il 
        potere: nessuno di loro si è posto come chiaro obiettivo politico quello 
        di ridurre il nucleo, di dissolverlo, di renderlo inoffensivo. Hanno 
        invece continuato a finanziare la stampa di estrema sinistra, ad 
        autorizzare deleghe che costringono il contribuente a pagare migliaia di 
        funzionari di partito e di sindacato. Eppure è al nucleo che dobbiamo la 
        maggior parte delle “eccezioni francesi”: è sua la responsabilità se la 
        Francia ha perso la propria credibilità agli occhi delle altre nazioni 
        europee, abituate come sono a vedere periodicamente porzioni del paese 
        transalpino, agricoltori, ferrovieri, professori, in modo separato o 
        collettivo, esplodere come bombe, con parole terribili e gesti 
        impressionanti. E’ lui che blocca la “riforma”, che incute timore a 
        Raffarin dopo aver spaventato Juppé. La destra ha conquistato una 
        maggioranza sostanziale in tutti i corpi rappresentativi di una 
        democrazia rappresentativa. Afferma di volersi mettere al passo con 
        l’Europa. In realtà, non fa altro che camminare sulle uova, priva com’è 
        di fiducia in se stessa.
 
 La destra e la riforma
 
 Non è detto che possa attuare questo programma. Non è detto, poi, che 
        abbia intenzione di farlo.
 Che possa farlo. Il governo Raffarin ha scelto di iniziare da una 
        riforma delle pensioni che, in tutti i paesi europei, ha assunto un 
        carattere “bipartigiano”. Ha proposto una legge molto simile a quella di 
        cui il governo socialista aveva riconosciuto la legittimità: una riforma 
        fondata su un calcolo aritmetico semplice, alla portata di tutti. 
        L’intera sinistra è insorta, i sindacati più importanti del settore 
        pubblico, compresi quelli della Sncf (Société Nationale des Chemins de 
        fer Français, Società nazionale delle ferrovie francesi) e della Ratp 
        (Régie Autonome des Transports Parisiens, Organizzazione autonoma dei 
        trasporti parigini), perché, nonostante fossero stati debitamente 
        avvisati del fatto che la riforma non avrebbe toccato i loro statuti 
        privilegiati, sapevano di disporre di un coefficiente di nocività 
        decisivo. Per settimane la Francia è stata sconvolta da lunghi scioperi 
        organizzati, resi possibili dalla supposizione che il pubblico fosse 
        incapace di un calcolo economico molto semplice. Questo andava a toccare 
        l’insegnamento dispensato dall’Istruzione nazionale e riportava 
        l’attenzione su un problema di fondo, anch’esso “bipartigiano”: quello 
        del sistema educativo.
 
 Il governo ha proposto, per cominciare, una miniriforma di carattere 
        puramente organizzativo, che riguardava circa il 3 per cento del 
        personale più marginale del ministero in questione. Levata di scudi, 
        manifestazioni, scioperi, “azioni selvagge”, grandi discorsi, grandi 
        princìpi. Si sono quindi dovute rimandare le riforme più serie, come, ad 
        esempio, una forte decentralizzazione del ministero, un’autentica 
        autonomia delle università, a cui verrebbe assicurato il diritto di 
        firmare i diplomi che rilasciano, e così via. Nella stragrande 
        maggioranza dei casi, l’informazione televisiva ha preso le parti degli 
        scioperanti, schierandosi contro il governo. Anche la stampa, salvo rare 
        eccezioni, non l’ha sostenuto. Durante tutta la primavera, il “nucleo” 
        ha riacceso il ricordo ed esaltato l’esempio delle grandi sollevazioni 
        popolari, come quella del 1968 o quella del 1995, che stava scivolando 
        verso l’insurrezione e che fece arretrare, e poi cadere, il governo di 
        destra. Tra i grandi princìpi sbandierati come palesi verità, come se 
        fossero assiomi fondamentali della democrazia francese, notiamo 
        espressioni del tipo “servizio pubblico”, “unità” dell’Istruzione 
        nazionale, delle poste, della Sncf, oltre ad un altro termine che assume 
        una connotazione criminale: “liberale”, qui antonimo di “cittadino” e 
        “repubblicano”.
 
 Un agitatore locale, un povero diavolo figlio di un esperto di Ogm, si 
        faceva notare da qualche anno per i suoi discorsi demagogici, le sue 
        azioni incoerenti ed i suoi reati comuni. Nessuno osava più prendere le 
        sue difese. Condannato, venne invitato a scontare la propria pena. 
        Levata di scudi a sinistra, esitazione e rammarico in parte della 
        destra. Il quotidiano Le Monde titola a quattro colonne in prima pagina 
        il 29 giugno: Dal carcere, José Bové si rivolge a Jacques Chirac. Appare 
        come un grande personaggio.
 Ecco perché il programma di Nicolas Baverez, così motivato, sano e 
        necessario, del quale egli sollecita un’applicazione rapida attraverso 
        una “terapia d’urto”, sembra, nel clima politico francese, una montagna 
        terribilmente alta e scoscesa, sulla quale vanno ricercati i sentieri 
        che permetterebbero di scalarla.
 Ma esiste la volontà di farlo? Ecco dove si situa l’incertezza 
        principale nell’attuale congiuntura politica francese. E’ impossibile 
        sapere chiaramente quale sia, se esiste, il pensiero guida alla base 
        dell’azione del presidente della Repubblica e del suo primo ministro o 
        conoscere l’orientamento e la forza della loro volontà. Questo, a mio 
        parere, per due motivi.
 
 In primo luogo, vedono la situazione all’incirca come la vediamo io e 
        Nicolas Baverez: pur distinguendo mali e rimedi, si rendono conto della 
        pericolosità della professione politica in Francia. Chirac l’ha 
        sperimentato sulla propria pelle. Sa bene che il terreno è infido, 
        disseminato di crepacci, soggetto a frane improvvise. Ha il talento di 
        chi scende le rapide: è stato in grado di tornare a galla dopo che la 
        canoa si era rovesciata, ma non ha intenzione di ripetere l’esperienza. 
        Tiene d’occhio i sondaggi, che mostrano fino a che punto la visione del 
        mondo del nucleo è riuscita a penetrare, smorzandosi e diversificandosi, 
        nella maggior parte degli strati della società francese. In effetti, 
        questa visione del mondo e questo modo di pensare non hanno incontrato 
        una contestazione energica e generale simile a quella che ha permesso ai 
        conservatori inglesi di vincere la battaglia ideologica contro i loro 
        avversari della sinistra laburista. In Francia non c’è stata alcuna 
        battaglia: semplicemente, le idee della sinistra, in modo estremamente 
        lento e graduale, hanno perso vitalità. Sono scese di livello nella 
        società intellettuale. Il “nucleo” non ha più i suoi “grandi 
        intellettuali”, ma ne ha ancora di medi e piccoli, il cui numero 
        continua ad aumentare. Il guaio dei media francesi è che reclutano il 
        proprio personale ad un livello intellettuale più modesto che in 
        Inghilterra, in Italia o in Spagna. Nel corso degli ultimi scioperi, i 
        poveri utenti si sono lamentati a bassa voce, invece di gridare a 
        squarciagola: non avrebbero saputo cosa dire, nessuno aveva fornito loro 
        delle argomentazioni e la televisione forse non avrebbe documentato la 
        loro reazione.
 
 In secondo luogo, anche il governo la pensa come l’opposizione. 
        Comprende più o meno vagamente la situazione, ma, allo stesso tempo, gli 
        è impossibile metterla a fuoco chiaramente perché i suoi modelli di 
        pensiero sono influenzati dall’ideologia del nucleo molto più di quanto 
        esso non creda. Nei licei, nelle università, ha appreso una storia della 
        Francia, una storia del mondo e una filosofia politicamente corrette ed 
        è stato troppo impegnato per impararne altre. Quando Chirac, nelle sue 
        dichiarazioni, fa promesse all’estrema sinistra nazionale o 
        internazionale, quanto si tratta di calcolo razionale, quanto di 
        convinzione? L’estrema destra afferma spesso che la destra al governo è 
        una finta destra, che in realtà è di sinistra: questo è falso nel senso 
        che, per fortuna, non condivide i pregiudizi dell’estrema destra, ma è 
        anche vero, in parte, nella misura in cui è intrisa di pregiudizi che 
        non sa da dove le vengano (in realtà dalla sinistra) e che non critica. 
        Uno degli ultimi atti dell’ultimo consiglio municipale di destra a 
        Parigi è stato di conferire ad una piazza il nome di Commune de Paris. 
        Alcuni storici hanno protestato ricordando cos’era stata la Commune, 
        cosa aveva fatto della capitale e cosa ne pensavano Zola e George Sand. 
        Il che non ha certo impedito alla più conservatrice delle assemblee 
        francesi, il Senato, di inaugurare, a giugno di quest’anno, nel giardino 
        del Luxembourg, una nuova targa sempre in onore della Commune de Paris.
 E’ 
        evidente che Nicolas Baverez spera nella comparsa di un equivalente 
        francese di Margaret Thatcher. Questa signora non sapeva tutto, ma aveva 
        le idee chiare. Forse Chirac conosce più cose, ma ha le idee chiare?
 L’Islam: un problema senza soluzione
 
 C’è un grande assente nell’articolo di Nicolas Baverez. Poiché procede 
        in modo binario, fornendo una diagnosi della malattia abbinata alla cura 
        appropriata, è comprensibile che non abbia voluto trattare un problema 
        per il quale non si intravede alcuna soluzione. Parlo dell’insediamento 
        in Francia di un nuovo corpo estraneo: l’Islam.
 La storia 
        religiosa francese è caratterizzata da una certa continuità. Il 
        substrato di mitologie indoeuropee, celtiche e successivamente latine, 
        temperato e solennizzato dalla filosofia antica, è andato sparendo, in 
        modo estremamente graduale, nell’Alto Medioevo. La Chiesa latina ha 
        costantemente ricercato la sintesi e gestito la transizione. La rottura 
        rappresentata dalla Riforma è stata provocata da un accesso di fervore 
        intransigente, su una base agostiniana tipicamente latina. La riforma 
        cattolica è maturata per emulazione. La frattura non è stata riparata. 
        Il fermento giansenista ha scosso il cattolicesimo, facilitando il suo 
        dileguarsi di fronte all’Illuminismo e favorendo il passaggio 
        dall’Ancien Régime ad un nuovo sistema di governo. Ma l’Illuminismo, 
        che, a partire dalla Rivoluzione, rappresenta un tipo di sovranità 
        alternativo e, nella maggior parte dei casi, offensivo, è nato 
        nell’humus di un cattolicesimo razionalizzato, del quale ha ripreso le 
        regole etiche e le norme sociali, almeno fino al 1968. La mescolanza, 
        nelle città, nei paesi, nelle famiglie, di Illuminismo e cattolicesimo è 
        sempre stata possibile e molto spesso attuata. Secondo il medesimo 
        modello è avvenuta anche la concrezione delle tradizioni protestanti 
        posteriori alla revoca dell’editto di Nantes e di quelle giudaiche 
        successive all’emancipazione ebraica dopo la Rivoluzione.
 Bisogna tener presente che l’Islam non è una religione “non cristiana”, 
        come l’induismo, il buddismo o il confucianesimo, religioni anteriori al 
        cristianesimo e senza contatto organico con esso. L’Islam è nato come 
        reazione anticristiana, e di conseguenza antiebraica, in modo 
        estremamente cosciente e definito. Ha rifiutato non soltanto i dogmi 
        cristiani ed ebrei, ma tutta la filosofia, la concezione del mondo e 
        della storia che ne sono alla base. È portatore di una civiltà 
        caratterizzata da frontiere nette e particolarmente visibili. È accaduto 
        che zone cristiane siano state occupate da dominazioni musulmane e zone 
        musulmane da dominazioni cristiane o di origine cristiana. Dopo un certo 
        periodo, generalmente contraddistinto da guerre crudeli ed ostinate 
        persecuzioni, si è operata una separazione: uno dei due gruppi, quello 
        dei musulmani o quello degli ebreo-cristiani, ha dovuto lasciare il 
        paese. A metà del secolo scorso, la separazione era compiuta.
 Ora non è 
        più così. L’Islam si è pacificamente insediato in Europa occidentale ed 
        in modo particolare in Francia, dove, rispetto a Germania e Inghilterra, 
        i suoi praticanti sono presenti in proporzioni almeno doppie. Non 
        intendo tornare sulle cause di questo fenomeno, molteplici e ormai ben 
        note. In maniera formale, tra l’8 e il 10 per cento circa della 
        popolazione che vive sul suolo francese è musulmana; i demografi 
        prevedono che, in breve tempo, si arriverà al 20 per cento. I dati sono 
        incerti e, per motivi legali o ideologici, non è facile raccoglierli. Le 
        conseguenze di un avvenimento del genere sono prevedibili. Sono ancor 
        più gravi se si considera che la religione cristiana, in tutte le sue 
        confessioni, è in crisi, in Francia in modo più serio che in qualsiasi 
        altro paese. O la letteratura cattolica sull’Islam dimostra una 
        sconvolgente ignoranza su questa religione oppure non riesce bene a 
        distinguere la differenza tra se stessa e l’altro credo; il che, ad uno 
        storico, ricorda molto da vicino le circostanze che prepararono, nel vii 
        secolo, l’improvviso passaggio all’Islam di metà, o quasi, dei 
        cristiani: anche loro ritenevano che l’Islam fosse una variante come 
        un’altra del cristianesimo e si convertirono senza rendersene conto. Il 
        giudaismo, invece, sembra in piena rinascita. Come in Israele, esiste 
        quindi, sul territorio francese, una situazione di conflitto, che 
        contribuisce a sviluppare, nelle comunità ebraiche, un senso di 
        alienazione nei confronti della patria francese. Infine, 
        la società francese, laicizzata o laicista, ha perso l’abitudine di 
        attribuire al fattore religioso il peso che gli è proprio. Di forma 
        democratica, non può fare altro che offrire ai musulmani le stesse 
        prospettive di integrazione che, da due secoli, offre alle varie ondate 
        immigratorie. Si stupisce che nelle famose periferie si creino dei 
        nuclei che le rifiutano. Si rallegra che un’altra frazione, attraverso 
        la scuola e l’università, riesca gradualmente a salire la scala sociale. 
        Lo Stato si occupa dei problemi più urgenti. Adesso è cosciente di 
        essere sotto l’influenza di queste masse musulmane, che già possiedono, 
        o possiederanno ben presto, tutti i diritti dei cittadini francesi. Ha 
        tentato di organizzare una rappresentanza politica nella speranza di 
        contrapporre un Islam “mite” ad un Islam “duro”, trascurando, come 
        tutti, la natura e la specificità di questa religione e applicandole dei 
        modelli nati da una storia diversa. Fino ad ora, non sembra aver avuto 
        successo. L’integrazione, a dispetto di quanto desideri la maggior parte 
        dei francesi, rimane una chimera: si sta trasformando a vista d’occhio 
        in uno slogan privo di significato. Cosa 
        possiamo sperare, allora? Che la democrazia, che ha lentamente dissolto 
        la religione cristiana, faccia altrettanto con l’Islam. Bisognerebbe 
        quindi parlare, invece che di integrazione, di un’assimilazione e di un 
        abbandono dei princìpi fondamentali dell’Islam. Ma se questo non dovesse 
        accadere, se invece, come nel caso del giudaismo, l’Islam religioso 
        dovesse entrare in una fase di affermazione di sé, sarebbe in grado di 
        edificare in Francia una propria società, completa, numerosa, 
        diversificata, ricca di élite istruite da scuole e università francesi, 
        in grado di difendere, se non di imporre, le norme che più le tornano 
        vantaggiose.Se ciò avvenisse, assisteremmo ad uno degli eventi più gravi della 
        storia francese o, piuttosto, sarebbe la stessa storia francese ad 
        entrare in una fase di trasformazione, come desiderano molte correnti 
        musulmane. ÈE’comprensibile che risulti difficile considerare seriamente 
        un avvenimento del genere: la gravità stessa dell’evento è sufficiente a 
        distogliere a lungo lo sguardo e l’attenzione da esso.
 E’ arduo, 
        tuttavia, capire da che parte sia bene prenderlo. E’ stato proibito a 
        lungo persino menzionarlo, protetto com’era dai tabù dell’antirazzismo, 
        della laicità o semplicemente dalla direzione presa dalle democrazie 
        europee dopo la seconda guerra mondiale. Ora si impone all’attenzione e 
        l’unico modo che troviamo per affrontarlo è di subirlo passivamente, 
        come un destino. Che fare? Non è più possibile imitare Isabella la 
        Cattolica, Filippo ii o, ancor meno, Todor Jivkov, che ha tentato invano 
        di cacciare i turchi dalla Bulgaria comunista. Se, tra un certo numero 
        di anni, la Francia dovesse ritrovarsi nella situazione in cui oggi è 
        Israele, le sarà necessario modificare molti princìpi prima di essere in 
        grado di imitarla. Anche perché, fino ad ora, nella sua storia, pure 
        tanto violenta, le espulsioni non le sono ancora riuscite. 
      
      29 gennaio 2004
 (traduzione di Sarah del Meglio)
 © Commentaire - Numéro 103/Automne 2003, “Réponse à Nicolas Baverez”
 
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