| Sindrome francese di Ludovico Incisa di Camerana
 da Ideazione, gennaio-febbraio 2004
 
 Ogni tanto senza una scadenza fissa la Francia si guarda allo specchio e 
        non si piace. Comincia allora un esame di coscienza in senso 
        autocritico, che in alcuni casi resta circoscritto all’ambito 
        intellettuale, anzi letterario, in altri dà luogo a crisi che si 
        ripercuotono nel resto d’Europa. L’esame di coscienza costituisce un 
        campanello d’allarme ed ovviamente, per meglio comprenderne le 
        conseguenze non è male ricordarne i precedenti con le loro cause 
        determinanti e i loro sbocchi, prima di analizzarne i segnali più 
        recenti. In questo senso posso offrire una testimonianza personale 
        avendo seguito attentamente per anni le vicende francesi a partire della 
        crisi del maggio del 1958, dal movimentato passaggio tra la IV e la V 
        Repubblica. Mi trovavo, infatti, da più di un anno in una città di 
        provincia francese, Le Havre, il porto della Normandia.
 
 Venendo da un’Italia ancora misera, ma furiosamente laboriosa ed avida 
        di modernità, un’Italia che ritrovava con un candore e un entusiasmo 
        giovanili una speranza di ricupero e di crescita, quel primo anno di 
        vita in Francia mi aveva deluso: un sentore di muffa, di senilità, di 
        stanchezza pervadeva il paese. Le vestigia della seconda guerra 
        mondiale, in Italia, rapidamente rimosse, sembravano in Francia 
        permanenti, monumentali, invincibili, come i bunker del Vallo Atlantico 
        che costellavano ancora le spiagge della Manica. Quello stesso superiore 
        tenore di vita, che attirava in massa gli emigranti italiani, era 
        controbilanciato da un modo di tirare avanti ingordo ma sciatto, 
        monotono, scolorito, ed appariva anziché il frutto di un reddito di 
        lavoro e di impresa, come una rendita patrimoniale ancora cospicua ma 
        prossima all’esaurimento. La Francia si aggrappava all’impero 
        d’Oltremare e all’Algeria, che ne era il simbolo, nel timore di perdere 
        più che un gioiello dell’eredità famigliare, la sua stessa identità 
        storica.
 
 Di fronte ad una simile prospettiva le formule ideologiche dei partiti 
        si dissolvevano in un trasformismo indistinto. Intorno ad un centro, 
        ancora incarnato nel radicalismo, la religione laica della Repubblica, 
        ruotavano i cattolici del Movimento repubblicano popolare, i socialisti 
        che avevano conservato la denominazione tradizionale Section française 
        de l’Internationale Ouvrière (Sfio), i gollisti del Rassemblement, 
        nonché una pletora di formazioni minori come l’Udser di François 
        Mitterrand e i gruppi indipendenti. Al di fuori del sistema un partito 
        comunista ottusamente stalinista, ma consistente, cercava invano di 
        approfittare delle disgrazie coloniali del paese. L’insieme era così 
        scoraggiante da meritare da un giornalista autorevole, Jacques Fauvet, 
        un giudizio spietato: “I partiti politici francesi non sono tra loro 
        contemporanei.
 Alcuni appartengono all’età della pietra, altri all’età dell’atomo. Vi 
        sono dei fossili la cui specie si perpetua dopo che la vita li ha 
        abbandonati. Vi sono dei vertebrati che resistono alle prove peggiori e 
        molluschi che non reagiscono ad alcuna. Si può parlare di un marxismo 
        che divora carne cruda e di un marxismo ruminante”. I contrasti tra i 
        partiti si risolvevano al momento della formazione dei governi grazie 
        all’appiattimento su programmi minimi e alla proroga delle scelte 
        fondamentali.
 
 I governi della IV Repubblica esitavano tra la liquidazione dell’impero 
        coloniale e il suo mantenimento, tra un isolamento imperiale e l’Europa, 
        tra la paura della Germania e l’intesa con la Germania. In realtà essi 
        non avevano più un progetto nazionale, non avevano più per usare 
        un’espressione del generale de Gaulle “una certa idea della Francia”. 
        Anzi non avevano più nessuna idea della Francia.
 Al pari dall’arco politico non aveva nessuna idea della Francia il 
        partito dell’intellighenzia. Gli intellettuali di sinistra, con la scusa 
        di trovarsi in un “paese di quint’ordine e in un’epoca sorpassata”, 
        erano più impegnati a definire un proprio esclusivo modo di vita, 
        stupendamente descritto da Simone de Beauvoir nel romanzo Les Mandarins, 
        che ad immaginare un programma nazionale. Per gli intellettuali delle 
        generazione di Sartre la gestione di un “privato”, divenuto 
        nell’esistenzialismo folklore e attrazione turistica, trovava l’alibi 
        obsoleto di una rivoluzione di là da venire nell’antiamericanismo. Il 
        partito degli intellettuali si allineava su una posizione d’élite che si 
        risolveva in fondo nel rifiuto di porsi una meta precisa ed era 
        nient’altro, come osservava un giornalista tedesco Herbert Luthy, che 
        “una scusa bella e buona per cuocere nel brodo grasso del 
        conservatorismo”.
 
 Su un paese incerto si proiettava l’ombra messianica del generale de 
        Gaulle, colui che, avendo trasformato la sconfitta della Francia nella 
        seconda guerra mondiale in una vittoria e riportato la Francia tra le 
        grandi potenze, rimaneva, anche se appartato e severo verso tutti, 
        l’uomo capace di qualsiasi miracolo. La critica della IV Repubblica e 
        l’ostilità verso la guerra d’Algeria, accompagnata dalla degenerazione 
        della metodologia repressiva, offrivano agli intellettuali francesi una 
        legittimazione momentanea: ma il progetto accarezzato dal settimanale 
        L’Express di un governo di illuminati sotto la guida di Mendès France, 
        dell’unico uomo politico disposto ad avviare le decolonizzazione, non 
        convinceva. La proposta politica di questo de Gaulle della sinistra era 
        infatti pessimista e poco allettante, priva di una direzione definita: 
        né imperiale, né postimperiale, né europeista (si affretterà ad 
        affondare, la Ced, la Comunità europea di difesa), né antieuropeista, né 
        modernizzante, né antimodernizzante, né tecnocratica né 
        antitecnocratica. Sicché ogni volta che si contrapporrà a de Gaulle, il 
        contromito Mendès France si dissolverà come una bolla di sapone 
        dimostrando la sua inconsistenza.
 
 Non avevano un programma credibile nemmeno i militari colonialisti di 
        Algeri che avevano sollevato sui loro scudi il generale de Gaulle. 
        Ossessionati dalla psicosi di un Occidente assediato dal marxismo 
        sovietico e dal Terzo Mondo, afflitti da una mentalità misticheggiante 
        da sentinelle di Pompei, i centurioni dell’Armée d’Afrique vagheggiavano 
        una cittadella militare nordafricana separata da una madrepatria 
        noncurante, un nuovo Stato crociato, retto da moderni templari, un sogno 
        romantico ed assurdo che con ammutinamenti e ribellioni affretterà la 
        fine dell’Algeria francese.
 Richiamato al potere, de Gaulle giocherà gli uni contro gli altri. 
        Sconcerterà gli intellettuali mendesisti e si assicurerà grandi maestri 
        come il cattolico François Mauriac e l’excomunista André Malraux. Verrà 
        maledetto dai nuovi crociati delle truppe d’assalto, ma otterrà 
        l’appoggio degli ufficiali tecnici con la promessa di un esercito 
        moderno in grado di pesare, una volta alleggerito dei residui coloniali, 
        nell’equilibrio europeo ed anche in quello globale.
 
 Le premesse del generale erano semplici: la Francia coloniale dipendeva 
        politicamente e militarmente dal favore degli Stati Uniti essendo priva 
        dei mezzi finanziari necessari per raggiungere tre obiettivi: 
        modernizzare le Forze Armate impegnate in operazioni di polizia 
        sanguinose e frustranti, aggiornare l’assetto economico e amministrativo 
        interno, esercitare un ruolo egemonico in Europa.
 Solo rinunciando all’impero si poteva realizzare questo programma come 
        accadde effettivamente. Per valutare il successo gollista, basta 
        paragonarlo con quanto si verifica in quegli anni in un’Inghilterra, 
        anch’essa impegnata, parallelamente alla Francia, in una transizione 
        postimperiale, ma entrata in una fase di accasciamento e di decadenza, 
        di ristagno morale e politico, da cui si riprenderà solo vent’anni dopo, 
        quando la signora Thatcher restaurerà con energia il senso di una nuova 
        missione nazionale. Viceversa la Francia postimperiale disegnata da un 
        de Gaulle, convinto di essere “l’unico uomo di Stato europeo”, è un 
        paese che anziché perderla ricupera la sua grandeur: una Francia sicura 
        di sé, che dialoga con gli Stati Uniti e l’Urss, una Francia che non 
        respinge l’Europa, ma se ne mette a capo e la obbliga a marciare al 
        passo dettato da Parigi. Al timore della Germania si sostituisce nel 
        1963 un’alleanza, che impone la sua volontà agli altri paesi europei, 
        compresa l’Italia, che per una stupida forma di antigollismo rifiuterà 
        di associarsi all’asse Parigi-Bonn, e compresa l’Inghilterra che de 
        Gaulle manterrà fuori dalla Cee durante il suo governo.
 
 Lo “strano episodio” del 1968
 
 De Gaulle governa rinnovando quasi completamente i quadri politici e 
        amministrativi, accantonando perfino i propri seguaci, liberandosi dai 
        condizionamenti dei partiti tradizionali, isolando e riducendo 
        drasticamente, tramite un nuovo sistema elettorale, il peso parlamentare 
        del Partito comunista. La struttura governativa modello dell’epoca 
        gollista si articola nel 1962, quando primo ministro diventa il capo di 
        gabinetto del presidente, Georges Pompidou, titolare di un curriculum 
        non politico ma amministrativo ed economico culminato in incarichi nel 
        Consiglio di Stato e nel Consiglio di amministrazione del Banco 
        Rothschild. Con Pompidou sono chiamati al governo agli esteri un altro 
        tipico rappresentante dei corpi amministrativi Couve de Murville e alle 
        finanze un brillante ex allievo dell’Ena, l’Ecole Nationale 
        d’administration (Ena), Giscard d’Estaing. Passa un decennio e ecco una 
        nuovo esame di coscienza. Nel marzo del 1968 un editorialista de Le 
        Monde, Pierre Viansson Ponté, proclama in un articolo: “La Francia si 
        annoia”. Ed in effetti “una parte della Francia ha la nausea. Tutto 
        appare falsato e adulterato”. La gente “ha l’impressione che non si 
        pensi ad altro che a sottrarle il suo denaro, i suoi voti e i suoi buoni 
        sentimenti. Manifesta un’improvvisa allergia agli agenti pubblicitari, 
        ai moralisti e ai ragionatori. Non sopporta più gli appelli 
        all’efficienza, all’espansione, alla disciplina: non ci vede che frode e 
        ipocrisia”.
 
 Il malessere si coagula nella dissidenza giovanile, nella ribellione al 
        piano dell’ex ministro dell’educazione Fouchet, una riforma intesa a 
        fare dell’università una funzione del sistema industriale, una riforma, 
        che peraltro presenta, come nuovo modello, un esempio negativo, 
        l’università di Nanterre: installata nel paesaggio sinistro della 
        periferia parigina, in mezzo alle bidonvilles, un insieme “freddo, 
        indifferente, di immensi corridoi da incubo”, novecento sale “anonime, 
        tutte eguali”. “Nanterre – s’indigna Maurice Bardèche – annuncia la 
        disumanità della società dei consumi”. In queste condizioni l’università 
        diviene l’incubatrice di una rivoluzione che sotto l’influenza della 
        contemporanea rivoluzione culturale cinese e del ruolo che il maoismo 
        assegna alla giovane generazione (le nuove Guardie rosse), dovrebbe 
        avere come avanguardia non già la classe operaia ma il pouvoir étudiant, 
        il potere studentesco. Tanto per cominciare il potere studentesco si 
        ribellerà contro tutti, trattando come “vecchi scocciatori” il poeta 
        ufficiale del partito comunista Louis Aragon e il filosofo Sartre, 
        invano inseguito e assecondato dal duetto Mendès-France e 
        Servan-Schreiber, che brucia inutilmente le sue ultime cartucce. Alla 
        fine il movimento, diventato a parere di Raymond Aron, “uno psicodramma, 
        la caricatura di una commedia rivoluzionaria”, perderà la sua carica 
        eversiva.
 
 La contestazione giovanile farà proseliti altrove. In Francia verrà 
        riassorbita da una maggioranza sociale disturbata dalla “cagnara” 
        pseudorivoluzionaria, ma soprattutto verrà bloccata dalla classe di 
        governo creata da de Gaulle, che vincerà le elezioni politiche e 
        rimpiazzerà il generale, dimissionario perché battuto in un referendum 
        su modifiche costituzionali ragionevoli ma non ben capite. Una classe 
        selezionata dai concorsi delle Grandi Scuole universitarie, dal 
        Politecnico, dall’Ena, senza passare per le sezioni dei partiti o dei 
        sindacati, manterrà il potere fino ad oggi: il vero bipartitismo 
        francese sarà rappresentato dagli énarques di destra come Giscard e 
        Chirac e dagli énarques di sinistra come Rocard, Fabius, Jospin, tanto 
        che il passaggio del potere avviato nel 1981 con l’elezione alla 
        presidenza di Mitterrand non comporterà discontinuità nel progetto 
        nazionale. Del resto il presidente socialista aveva capito il segreto 
        del gollismo: il cui genio, secondo una sua battuta, “consisteva nel 
        risvegliare la Francia addormentando i francesi”: una ricetta che lui 
        stesso applicherà abilmente. La crisi del 1968 resterà nella storia 
        francese, come affermerà oggi Alain Besançon, “una sorpresa che resta 
        parzialmente misteriosa”, una sorpresa che, come concluderà da parte sua 
        Raymond Aron, pochi giorni dopo il ritorno all’ordine, costituisce 
        “l’episodio più strano di una storia francese ricca di episodi strani”.
 
 Mitterrand o la fine dell’egemonia francese
 
 Grazie ad una classe dirigente stabilizzata, senza distinzione tra 
        destra e sinistra, de Gaulle rimane il nume tutelare della V Repubblica 
        e a lui si ispireranno non solo i suoi successori di destra come 
        Pompidou, Giscard, Chirac, ma anche Mitterrand, l’unico esponente della 
        IV Repubblica, sopravissuto nella V dopo essersi impadronito di un 
        partito socialista allo sbando, privo di leadership, ed aver 
        addomesticato un partito comunista diventato l’ectoplasma dei suoi tempi 
        migliori a causa di quella che egli stesso definirà “l’incredibile 
        mediocrità intellettuale dei suoi dirigenti”. Mitterrand, durante i due 
        settennati della sua presidenza, ricalcherà il carisma del generale e la 
        ritualità monarchica del gesto solenne e spettacolare. Se la prenderà 
        con l’Ena, “l’esercito di mestiere dell’amministrazione”, e i suoi 
        pupilli. “Questi personaggi inimitabili che occultano sotto un viso 
        liscio e uno sguardo assente il segreto del potere”, “portatori di un 
        Santo Sacramento per cui lo Stato si traduce in un certo modo di 
        annodare la cravatta, di accendere una sigaretta¸ di camminare sulle 
        uova e di fissare degli appuntamenti, destinati a rimanere nascosti, in 
        quei bar dove s’incontrano tutti”.
 
 Ciò nonostante si servirà degli “enarchi” come primi ministri e ministri 
        e gestirà dignitosamente uno Stato modernizzato ed efficiente mantenendo 
        l’egemonia della Francia in Europa, sotto la formula dell’asse 
        franco-tedesco. Un nuovo esame di coscienza comincerà, tuttavia, nel 
        1989: la caduta del muro di Berlino sconvolgerà una diplomazia francese, 
        che si basava nel rapporto con Bonn su una compensazione tra la 
        superiorità economica della Germania Federale e la superiorità militare 
        della Francia, dovuta non tanto alla forza nucleare francese ma alla 
        necessità per la Germania di avere non solo l’aiuto militare americano 
        ma anche quello francese per scoraggiare una possibile aggressione 
        sovietica. La divisione della Germania impacciava il governo di Bonn, 
        limitando la sua libertà d’azione, mentre la Francia poteva permettersi 
        manovre diplomatiche non consentite alla Germania, donde la superiorità 
        politica, oltre che militare, della Francia soprattutto nelle scelte 
        strategiche all’interno dell’Europa, tradotte praticamente negli 
        strepitosi guadagni ottenuti nella difesa degli interessi del mondo 
        agricolo francese e nell’accettazione da parte tedesca di certe 
        iniziative francesi più di prestigio che di sostanza.
 
 Orbene, la caduta del muro di Berlino, l’evacuazione delle guarnigioni 
        sovietiche di stanza nella Germania orientale e l’unificazione tedesca 
        modificavano il rapporto franco-tedesco, annullando il valore aggiunto 
        della superiorità politica e militare francese. Venendo meno la parità 
        tra i due paesi, la bilancia pendeva nettamente a favore della Germania, 
        anche se questa con il cancelliere Kohl faceva finta di non avvedersene. 
        Il trauma in Francia sarà tale da indurre qualche esperto a evocare 
        l’ipotesi di un prossimo conflitto tra i due paesi. Fortunatamente il 
        capovolgimento del rapporto tra Francia e Germania non si è del tutto 
        verificato. Anzi i governi francesi hanno approfittato delle difficoltà 
        incontrate dal governo tedesco nella riconversione dell’Est per ottenere 
        da Bonn e poi da Berlino una delega nella guida dell’Europa, un’Europa 
        basata, come ha affermato a suo tempo l’ex ministro degli Esteri del 
        governo Jospin, Védrine, sull’unità fra tre grandi paesi, la Francia. la 
        Germania, la Gran Bretagna. In sostanza la diplomazia francese, 
        accortasi che la Germania non aveva o non intendeva assumersi una 
        responsabilità egemonica in Europa, adoperandosi meno del previsto nella 
        penetrazione economica e politica dei paesi dell’Europa 
        centro-orientale, ha cercato di associare la Germania e il Regno Unito 
        alla propria priorità strategica: il contenimento in Europa della 
        preponderanza americana.
 
 L’operazione doveva essere completata dall’appoggio alle Nazioni Unite 
        sul piano internazionale, contrapponendo la formula di un mondo 
        “multipolare, diversificato e multilaterale” alle tendenze 
        unilateraliste attribuite all’ “iperpotenza” americana. Una simile 
        impostazione si rivelerà fragile: sul piano europeo la posizione della 
        Gran Bretagna rimane ambigua e comunque condizionata, nelle grandi 
        linee, alla special partnership, all’alleanza storica con gli Stati 
        Uniti. Sempre sul piano europeo il triangolo Parigi-Berlino-Londra non 
        potrà dettar legge, senza l’appoggio di almeno uno o due degli altri 
        grandi dell’Unione ampliata. Infine l’opposizione di Chirac alla guerra 
        contro l’Iraq è stata bocciata dalla “nuova Europa”.
 Certamente uno dei pilastri della grandeur francese, l’egemonia europea, 
        non ha più una base solida. A questo punto emerge un interrogativo: la 
        Francia è in declino? La Francia cade?
 
 Il dilemma di oggi: la Francia cade o non cade?
 
 Secondo la tesi esposta pochi mesi fa da un economista e pubblicista 
        Nicolas Baverez la Francia tombe, la Francia cade. Ed ecco la necessità 
        di un nuovo esame di coscienza. Anzi di un’autocritica storica perché è 
        caduta anche in passato “in un’alternanza brutale di periodi di declino 
        e di fasi di ripresa”. La priorità data alla stabilità politica e 
        sociale e la paura del cambiamento hanno impedito alla Francia di 
        adattarsi alle grandi trasformazioni del quadro internazionale, donde 
        alla fine del Settecento il sorpasso da parte dell’Inghilterra nella 
        rivoluzione industriale e, un secolo dopo, la sua conseguente 
        detronizzazione come maggiore potenza economica europea a vantaggio 
        della Germania.
 Con una serie di soprassalti si giunge ai giorni nostri con una diagnosi 
        ancora negativa: “Oltre a non aver riassorbito gli effetti degli choc 
        petroliferi degli anni Settanta la Francia subisce ormai direttamente le 
        trasformazioni radicali scatenate dalla fine della Guerra Fredda, la 
        globalizzazione e poi l’offensiva terroristica dell’11 settembre 2001. 
        Sicché si trova impelagata nelle crisi del secolo XXI quando non ha 
        ancora riassorbito gli choc dell’ultimo quarto del Novecento tra i quali 
        figura in primo luogo la disoccupazione”. Di fronte ai grandi 
        cambiamenti dell’ultimo decennio del Novecento, la maggioranza dei 
        paesi, a cominciare dagli Stati Uniti si è impegnata a ripensare la 
        propria posizione diplomatica e strategica, a rimodernare le 
        istituzioni, ad adattare la politica e le strutture economiche e 
        sociali. Invece di reagire dinamicamente la Francia si è rifugiata 
        nell’immobilismo, si è barricata dietro le vecchie formule, “la 
        dissuasione nucleare, l’euro forte, il servizio pubblico alla francese, 
        l’eccezione (culturale) francese”.
 
 Baverez accusa la Francia e la Germania di essere rimaste al rimorchio 
        di modelli economici e sociali scaduti, di aver ignorato il carattere 
        strutturale delle difficoltà e di essersi giustificate cercando dei 
        capri espiatori “come la globalizzazione per la Francia, la 
        riunificazione per la Germania, l’immigrazione e l’Europa per entrambe”. 
        “Il tutto accompagnato da una feroce resistenza al mutamento degli 
        elementi più conservatori della società”.
 Partendo da queste premesse Bavarez presenta un quadro geo-politico 
        internazionale nel quale spicca il confronto tra il terrorismo islamico 
        e gli Stati Uniti. Il terrorismo islamico agisce come un attore 
        autonomo, favorito tra gli altri fattori dal discredito delle ideologie 
        laiche e dalla rivalutazione delle religioni nonché dal fallimento 
        cronico nel mondo arabo di modelli capaci di produrre democrazia e 
        sviluppo. Nel fronteggiare questa minaccia gli Stati Uniti scelgono 
        risposte valide caso per caso e quindi imprevedibili, spiazzando una 
        diplomazia francese basata sullo statu quo e la rigidità. Il rischio per 
        la Francia è di nuotare contro corrente dal momento che gli altri paesi 
        regolano la loro politica secondo l’atteggiamento degli Stati Uniti. “La 
        Francia sa ciò che non vuole – l’egemonia degli Stati Uniti sulle 
        democrazie o la leadership del Regno Unito in Europa – ma non sa ciò che 
        vuole”. Il risultato è “un incontestabile declino nel seno di un’Europa 
        anch’essa decadente”.
 
 Baverez intravede elementi di retrocessione anche nell’ambito 
        istituzionale interno e nel campo economico: la società è sempre più 
        frammentata e “la Francia sta per diventare un deserto industriale e 
        imprenditoriale”. Non solo: il declino “non è mai fatale, ma sempre 
        voluto e programmato”. Il nocciolo duro della V Repubblica, che risiede 
        in un’osmosi tra i dirigenti politici, gli alti funzionari e i leader 
        sindacali, ossia l’élite gollista e post-gollista, è colpevole di non 
        aver elaborato “un progetto globale e coerente di modernizzazione per 
        adattare il paese al nuovo ambiente nato dal dopo Guerra Fredda e dalla 
        globalizzazione”. Sotto quest’aspetto il Governo dell’attuale primo 
        ministro Jean-Pierre Raffarin seguirebbe l’esempio del governo 
        socialista di Lionel Jospin, “senza rimediare alla crisi che mina la 
        Francia e i francesi”. Sarebbe insomma il governo della Francia “che 
        cade”.
 La speranza di una ripresa è affidata ad una destra energica, alla 
        Thatcher, capace di adottare una terapia d’urto. La visione di Baverez 
        accentua le tonalità più scure e contrasta per quanto riguarda la 
        situazione economica francese con la posizione internazionale della 
        Francia, che rimane per ora dopo gli Stati Uniti, il Giappone, la 
        Germania la quarta potenza del mondo nell’ammontare del prodotto 
        nazionale lordo. Del resto, in un saggio documentato di due anni fa, due 
        esperti, un americano e una francese hanno ricordato che la Francia è al 
        terzo posto nella graduatoria internazionale come polo d’attrazione 
        degli investimenti stranieri e che il problema riguarda semmai il 
        secolare contrasto tra i bonapartisti ossia i dirigisti, e gli 
        orleanisti ossia i liberisti. Nel complesso la Francia si sta adattando 
        rapidamente alla globalizzazione tanto da essere già “uno dei paesi più 
        globalizzati del pianeta”. Il disagio francese riguarda piuttosto la 
        cultura e la conservazione dell’identità nazionale.
 
 La crisi morale
 
 Le tesi di Baverez hanno suscitato un dibattito sulla rivista 
        Commentaire con diversi interventi di intellettuali impegnati 
        politicamente in settori diversi.
 
 Alain Besançon, partendo da un pieno consenso sull’impostazione di 
        Baverez, l’ha arricchita, sottolineando l’esistenza in Francia, a 
        partire dalla fase più tragica della Rivoluzione francese, il Terrore, 
        di un pericolo permanente: un “nucleo rivoluzionario”, che si dilata e 
        si contrae rimanendo sempre minoritario, ma che negli anni Venti si 
        congiunge con la centrale comunista sovietica. La sconfitta del 
        comunismo porterà il nucleo francese a nazionalizzarsi e a coagulare una 
        classe tradizionalmente giacobina composta da “professori, giornalisti e 
        una parte del mondo dello spettacolo”. Sotto tale veste il gauchisme 
        condiziona i governi socialisti e cerca di ostacolare i programmi di 
        riforma dei governi di centro-destra, contando su pregiudizi che è 
        riuscito a generalizzare grazie al controllo dei mass media. L’unica 
        critica che Besançon muove a Baverez è di avere trascurato la presenza 
        dell’Islam in Francia, ma si tratta di un “problema senza soluzione”.E’ 
        interessante l’intervento di un intellettuale, a suo tempo teorico del 
        gauchisme, Max Gallo, oggi romanziere e storico indipendente. Lo 
        scrittore nizzardo approva una visione pessimista che, basandosi su dati 
        economici, smentisce l’ottimismo ostentato dalla classe politica, ma 
        osserva che Bavarez, attenendosi a criteri di rigore contabile, ha 
        trascurato una “dimensione essenziale” della crisi nazionale, “la 
        dimensione morale e psicologica”, sintetizzata da un’espressione 
        drastica: “L’anima della Francia è ferita”. Da questo punto di vista 
        Gallo rovescia la definizione di Baverez, “un fiasco diplomatico”, 
        dell’atteggiamento assunto dalla Francia di fronte alla guerra 
        dell’Iraq, e parla del “sentimento di fierezza nazionale” provato dai 
        francesi. Comunque il paese ha bisogno di una “riforma”, ma una riforma 
        nazional, “francese”, che non tenga conto di princìpi imposti 
        dall’esterno, ma sia conforme all’anima “nazionale”. Resta il problema 
        dell’Europa. Max Gallo è d’accordo con Baverez: “Bisognerebbe rompere la 
        dinamica deflazionista europea”. Se non ci sarà una soluzione alla 
        francese, il popolo si adatterà alla decadenza e la crisi morale 
        ovviamente resterà.
 
 Mentre Philippe Raynaud, più pessimista di Baverez ma appunto per questo 
        – come dichiara – più indulgente verso i governanti, propone una 
        soluzione esplicitamente gattopardesca, “cambiare tutto perché nulla 
        cambi”, per Patrick Jarreau il male francese sta in un antiamericanismo, 
        subentrato alla linea atlantica di Mitterrand, ma condiviso da una 
        destra gelosa della sovranità nazionale e dalla sinistra 
        altermondialiste (il nuovo nome dei no global) contro gli interessi 
        nazionali (tra l’altro l’economia francese e quella americana sono 
        complementari soprattutto sul piano finanziario). In realtà 
        l’antiamericanismo svolge una funzione interna, giustificando il 
        conservatorismo reazionario di una società chiusa: “La denuncia dei vizi 
        della società americana serve a nascondere ciò che dimostrano i suoi 
        successi: le virtù sociali dell’apertura, della mobilità e della 
        competizione”.
 Anche per Pascal Bruckner alle radici del declino francese sta un 
        conservatorismo che ha adottato il linguaggio della rivoluzione, un 
        “neobolscevismo reazionario”, che manifesta soprattutto un odio feroce 
        del progresso ed un terrore di fronte alla marcia di una storia di cui 
        “non abbiamo preso abbastanza le misure”. Anche Bruckner contesta 
        l’antiamericanismo, ma aggiunge alcune osservazioni interessanti, come 
        la curiosa inversione dei ruoli nella cultura del lavoro: “In questo 
        inizio del XXI secolo le masse francesi adottano poco a poco il 
        disprezzo aristocratico del lavoro, mentre le élite abbracciano con 
        diletto lo schiavismo lavorativo un tempo riservato alla plebe”. 
        Appropriandosi del lavoro le élite si approprieranno dei destini della 
        nazione escludendo le masse. Bruckner mette in luce egualmente un 
        fenomeno paradossale: l’orgoglio della propria storia, la sfiducia 
        sull’avvenire, la tentazione di scaricare la colpa dei propri mali sugli 
        altri, Bruxelles, l’America, la globalizzazione, il neoliberalismo. 
        Allarmante, inoltre, è l’emigrazione giovanile dalla Francia a cui si 
        potrebbe aggiungere un’emigrazione ebraica provocata da ondate di 
        antisemitismo e della passività e dal silenzio dimostrati di fronte a 
        tali fenomeni dalla sinistra francese. D’altronde, conclude Bruckner, se 
        un mutamento benefico potrà sopravvenire nel nostro paese, sarà dovuto 
        all’attuale squadra di governo, nonostante una comprensibile 
        perplessità.
 
 D’Artagnan al Panthéon
 
 Lo stesso Baverez, riassumendo la sua tesi su Le Monde, ha partecipato 
        su tale quotidiano a un dibattito sotto un interrogativo più asettico: 
        Comment va la France? Come va la Francia?
 La risposte variano di tono. C’è chi vede già avviata una “grande 
        trasformazione”, imperniata sul ruolo, non più delle istituzioni 
        tradizionali – l’esercito, la Chiesa, lo Stato, la Scuola, “ormai 
        indebolite” – ma di una classe imprenditoriale dinamica e veramente 
        aggiornata. Le vecchie ideologie, dal liberalismo al keynesismo, dal 
        socialismo al gollismo sono da rifare. Un “nuovo positivismo” permetterà 
        d’immaginare “un nuovo modo di governare, un nuovo legame tra l’economia 
        e la politica”.
 C’è chi, come Alain Minc non vede vie di scampo perché si governa 
        “all’antica”. Governare all’antica significa, sotto il pretesto del 
        pragmatismo, controbilanciare gli opposti: privatizzare e 
        nazionalizzare, strizzare l’occhio agli uni e fare regali agli altri, 
        lasciare tutto lo spazio sociale ad uno Stato che è un miscuglio di 
        “padre nobile e di padre brutale”. Chirac sarebbe “di spirito un 
        radicalsocialista, modello III Repubblica, ma nel comportamento un erede 
        del bonapartismo”, ossia del dirigismo. L’opposizione è anch’essa 
        prigioniera del fascino di un modo di governare all’antica. La 
        conseguenza è che la Francia “va di male in peggio: il peggio è davanti 
        a noi”.
 Meno pessimista sul piano economico Daniel Cohen ricorda che Francia, 
        Germania, Gran Bretagna, Italia, ossia le maggiori potenze europee, 
        hanno con poche differenze lo stesso livello di reddito. Il problema 
        della Francia è la crisi politica, dovuta al fatto che la distinzione 
        tra destra e sinistra si è andata sempre più attenuando. Ma in ogni caso 
        per Cohen lo Stato tutto fare, secondo il modello “socialstatalista” non 
        esiste, anche se la Francia fa fatica ad accettare questa scomparsa.
 
 C’è chi si è appellato per arrestare il declino alla rivalutazione della 
        cultura del lavoro: “Quanti punti in più si avrebbero nella crescita se 
        ogni francese scambiasse una mezz’ora quotidiana di televisione con una 
        mezz’ora di lavoro straordinario”. “La civiltà del tempo libero è un 
        mito altrettanto poco realista della fine della storia o della guerra 
        pulita” afferma Michel Pébereau. C’è ancora chi, come un esperto di 
        questioni sociali Lionel Stoleru, accusa Chirac di sbagliarsi quando 
        ritiene che la Francia abbia bisogno di un “dialogo sociale”: c’è 
        bisogno invece di un rimescolamento sociale: “La Francia bassa non ha 
        bisogno di parlare con la Francia alta, ha bisogno di trovarvi il suo 
        posto e di prenderlo”. Ma ecco la domanda: “Quale ascensore sociale la 
        isserà?”. In altri termini, se non si trovano i canali giusti per 
        portare in alto i giovani dei ceti meno privilegiati. Stoleru, 
        osservando il “clima tiepido, fiacco, opaco, rassegnato” della ripresa 
        autunnale, modifica il titolo del famoso articolo di Viansson Ponté La 
        Francia si annoia. Trentacinque anni dopo il titolo più appropriato 
        sarebbe: La Francia si arena.
 Infine altri saggi contemporanei allo scritto di Bavarez, come quelli di 
        Alain Duhamel su Le desarroi français e di Marcel Gauchet su La 
        condition historique, hanno insistito più su aspetti specifici del 
        declino che sull’esistenza di una crisi generale. Per Duhamel, per 
        esempio, la Francia soffre di una nostalgia della politica: spazzate le 
        vecchie ideologie, è in attesa delle nuove. I francesi, in altri 
        termini, si trovano in una situazione preideologica.
 Per ora il dibattito resta circoscritto ai circoli intellettuali e 
        dirigenziali. Siamo lontani dal maggio del 1968, e dalle tumultuose 
        agitazioni e dagli slogan di una gioventù arrabbiata: “l’immaginazione 
        al potere”, “lottate nella prospettiva di una vita appassionante”. Il 
        risvolto romantico ed emotivo di questa analisi del declino è stato così 
        poco evidente che un ex ambasciatore americano a Parigi, banchiere di 
        professione, è intervenuto e, premesso che la Francia è sempre una 
        potenza maggiore, ha alluso ai vari temi discussi ed ha ammonito: “Senza 
        un’economia forte e stabile, non ci saranno soluzioni durature per 
        questi problemi, io stimo che una democrazia moderna deve mantenere una 
        crescita economica del 3,5 per cento al minimo”. Ma in ogni caso tutto 
        dipenderà dalla politica che la Francia svolgerà nell’ambito atlantico 
        ed europeo.
 
 Al dibattito, tuttavia, hanno partecipato anche i grossi calibri. In una 
        serata in un teatro parigino Edwy Plenel ha intervistato il ministro 
        dell’Interno Nicolas Sarkozy e il segretario del Partito socialista, 
        François Hollande. Il primo ha riconosciuto che la società politica ha 
        dieci anni di ritardo sulla società civile ed ha ammesso il peso minore 
        della potenza economica attuale della Francia rispetto all’epoca 
        coloniale: “Ma non esiste la vocazione a rimanere un grande paese se gli 
        abitanti del grande paese non sentono una grande ambizione”. Oltre a 
        tutto è venuta meno la sicurezza dell’impiego: “Nessuno è oggi sicuro 
        che se nasce con un ruolo morirà con quello”. Per Hollande il declino 
        non è economico, ma c’è “una crisi di risultati” perché di governo in 
        governo emergono sempre gli stessi problemi; la disoccupazione, il 
        deficit, la previdenza sociale. Il leader socialista segnala inoltre 
        “una crisi della democrazia” perché quel modello di integrazione 
        repubblicana “a cui il nostro paese deve i suoi successi” non funziona 
        bene come prima. Questa crisi ha due aspetti, da un lato l’astensione 
        dal voto di consistenti sezioni del ceto impiegatizio e della classe 
        operaia, dall’altro il trattamento delle comunità etniche.E’ soprattutto 
        sul secondo aspetto che si sofferma a lungo il dialogo tra i due 
        politici che danno prova in merito di un’analoga incertezza.
 La teoria del declino non influisce sulla mistica del post-gollismo che 
        continua ad inoltrarsi su percorsi culturali continuamente riconfermati. 
        Così Chirac, dopo aver reso omaggio a Zola e a Victor Hugo, ha celebrato 
        anche l’inumazione nel Panthéon di Alexandre Dumas, premiando così 
        l’autore di un’opera che “fa parte della nostra memoria collettiva e ha 
        partecipato all’edificazione della nostra identità nazionale”. Il 
        fattore nazionale rimane primario e va valutato pertanto nel suo 
        rapporto positivo o negativo con il declino.
 
 Deficit di Grandeur
 
 L’identità di un paese si definisce all’esterno secondo il suo 
        comportamento, ossia secondo la sua politica estera. Ebbene, la politica 
        estera francese ultimamente non è forse in declino, ma certamente ha 
        adottato un basso profilo. Su tale terreno la Francia rischia davvero di 
        cadere.
 Un noto esperto Thierry de Montbrial, intervenendo nel dibattito, non 
        nega il declino: la Francia non ha ancora superato l’umiliazione del 
        1940, de Gaulle ha cercato di restaurare la doratura del blasone, 
        puntando su un direttorio a tre: Stati Uniti-Gran Bretagna-Francia senza 
        riuscirci e senza accontentarsi del primato interno nella piccola Europa 
        dei Sei. L’unificazione tedesca e l’allargamento dell’Unione europea 
        hanno ulteriormente ridimensionato la posizione della Francia, ma ancora 
        oggi la sua importanza dipenderà dal suo apporto all’impianto europeo.
 Il dilemma che si pone alla diplomazia francese è sempre quello di agire 
        attraverso l’Europa o per conto proprio. L’editorialista di Le Monde, 
        Daniel Vernet, contesta l’accusa della Francia a rifarsi grande in 
        funzione del suo antagonismo con gli Stati Uniti, ma nota non senza 
        compiacimento il fatto di essere riuscita, in occasione della guerra 
        dell’Iraq, ad annullare un tabù, l’allineamento di principio della 
        Germania a fianco degli Stati Uniti. La politica estera in funzione dei 
        rapporti franco-americani è stata discussa in un confronto pubblico, 
        animato egualmente da Edwy Plevel, tra il ministro degli Esteri 
        Dominique de Villepin e l’ex primo ministro socialista Laurent Fabius. 
        Il Ministro si è preoccupato soprattutto di confermare che la Francia ha 
        “una sua visione del mondo”, difende convinzioni e ideali, i princìpi 
        dell’ordine internazionale, come ha inteso fare in occasione della 
        guerra dell’Iraq.
 
 Fabius, pur ribadendo una posizione contraria all’intervento americano 
        nel Medio Oriente, ha definito l’antiamericanismo “una grande 
        stupidaggine”. I problemi nascono dal fatto che “i francesi non 
        conoscono bene gli americani, non li capiscono e che simmetricamente gli 
        americani non capiscono sempre ciò che è la Francia”. Ma paventa 
        soprattutto che gli Stati Uniti abbandonino l’atteggiamento benevolo 
        assunto verso l’integrazione europea.
 Villepin alza la cresta: ricorda che la Francia è una potenza militare, 
        possiede l’esercito più operazionale del mondo dopo quello degli Stati 
        Uniti e fornisce contributi sostanziosi nella lotta contro il 
        terrorismo. Nondimeno non risponde in modo esauriente ad osservazione di 
        Plevel, che ha ripreso una battuta di de Gaulle: “Io sono su un 
        palcoscenico e faccio finta di crederci. Faccio credere che la Francia è 
        un grande paese. È un’illusione permanente”.
 Declino dunque anche sul piano internazionale? Il deficit di grandezza, 
        di grandeur non è ricuperabile. Tuttavia, sia pure alla pari con la 
        Germania, la Francia esercita nell’Unione europea un’influenza se non 
        egemonica condizionante. Lo ha dimostrato, grazie all’appoggio della 
        presidenza italiana, dando un colpo sperabilmente mortale al famigerato 
        Patto di stabilità che, se attuato alla lettera avrebbe effettivamente 
        generato e accelerato la tendenza al declino non solo delle due maggiori 
        potenze europe,. ma dell’intera Unione. Se, come si preannuncia la 
        Francia e la Germania rilanceranno la crescita e lo sviluppo, si 
        profilerà per la Francia, non tanto il ritorno ad una grandeur ormai 
        crepuscolare, bensì un ruolo guida pratico e conveniente per tutti, 
        senza cadute o scivolate.
 
 29 gennaio 2004
 
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