| Bernard Lewis e il futuro dell'Islam di Pino Bongiorno
 
 Il giorno prima degli attentati di Madrid, Bernard Lewis, professore 
        emerito dell’Università di Princeton e grande conoscitore del mondo 
        arabo, aveva messo in guardia da un pericolo a suo parere incombente e 
        che riguardava il modo in cui il Medio Oriente poteva interpretare 
        l’atteggiamento occidentale. “L’Islam non ha alcuna esperienza – aveva 
        dichiarato – di un dibattito libero, aperto, e dunque può leggere la 
        nostra discussione come un segno di debolezza, di paura. Temo che, in 
        seguito a questa sensazione, siano tentati di agire, pesantemente. Come 
        fecero l’11 settembre”. Il timore di Lewis, purtroppo, era motivato e 
        sono bastate poche ore per dargli ragione, perfino nella misura, dato 
        che Al Qaeda ha di nuovo colpito pesantemente.
 
 Il vecchio studioso londinese, quasi ottantottenne, è convinto da tempo, 
        e di recente l’ha ribadito ancora nel suo libro “La crisi dell’Islam”, 
        che a tutto ciò esiste un solo rimedio, difficile da somministrare ma 
        efficace come nient’altro: la democrazia. E’ perciò che l’Iraq assume un 
        significato e un ruolo fondamentali, al di là della destituzione di 
        Saddam Hussein e del non ritrovamento delle armi di distruzione di 
        massa. L’ “Islam estremo”, come lo chiama Lewis, teme la libertà e la 
        democrazia più di ogni altra cosa, sa bene che se su di esse si 
        costruisse il nuovo Iraq ogni dittatura mediorientale sarebbe minacciata 
        e, quel che più conta, subirebbe un colpo forse fatale il progetto 
        binladeniano di deoccidentalizzazione dell’Islam e di islamizzazione 
        dell’Occidente.
 
 Sulla diffusione della democrazia, quindi, si gioca la scommessa del 
        futuro, prossimo e remoto. Ed è una partita che riguarda tutti, perché 
        nessuno, Stato o individuo, può chiamarsene fuori, sia che vi partecipi 
        direttamente sia che si limiti soltanto a criticare le mosse degli 
        altri. Per ora, e tutto lascia pensare che il peggio debba ancora 
        arrivare, si assiste invece a qualcosa che ricorda, nell’atteggiamento 
        tenuto dagli attori principali della nostra parte di mondo, le sfide a 
        carte nelle piazze dei paesi italiani, tutti uguali nei giorni dell’ozio 
        e della canicola, in cui intorno a un tavolo alcuni rischiano in proprio 
        e altri, con tutte le carte sotto gli occhi, pontificano, forti del 
        fatto che non hanno niente da perdere e che poi chiunque vinca anche a 
        loro una bevuta nessuno la negherà. Nella partita iniziata l’11 
        settembre, però, tutti abbiamo qualcosa da perdere e non è indifferente 
        come andrà a finire. L’ha scritto anche Emma Bonino, con la consueta 
        libertà di pensiero, sul “Corriere della sera” del 18 marzo 2004, 
        ricordando, a quanti credono che basti stare a distanza di sicurezza 
        dagli Stati Uniti per essere al riparo, le carneficine degli ultimi due 
        anni e mezzo (New York, Bali, Istanbul, Riad, Casablanca, Baghdad, 
        Nassiriya, Kerbala, Madrid), cui si devono aggiungere, e lo facciamo 
        noi, gli attentati che hanno colpito, in Iraq, la Croce Rossa e l’Onu, 
        cui certo non può essere rimproverato, soprattutto nelle ultime vicende, 
        il filoamericanismo.
 
        Oggi, pertanto, “qualunque richiamo all’Onu – 
        afferma la Bonino in risposta agli Zapateros dell’ultima ora – rischia 
        di essere un puro escamotage, se non è accompagnato da un altrettanto 
        forte richiamo ai paesi che continuano a stare alla finestra e agli 
        stessi Stati arabi, affinché si decidano ad assumere responsabilità 
        chiare, pesanti, serie. Insomma: al contrario degli Zapateros la 
        risposta adeguata dovrebbe essere «tutti a Baghdad», tutti determinati 
        ad assumere responsabilità vere contro il terrorismo: solo così avrebbe 
        senso e concretezza invocare l’Onu, o la Nato, quali espressioni, 
        appunto, di responsabilità condivise e non del noto «armiamoci e 
        partite»”. Parole, queste della Bonino, sulla stessa lunghezza d’onda di 
        quelle con cui Bernard Lewis conclude il suo lavoro: “La guerra contro 
        il terrore e la lotta per la libertà sono inestricabilmente connesse, e 
        nessuna delle due può vincere senza l’altra. Lo scontro non è più 
        limitato a due o tre paesi, come alcuni occidentali vogliono ancora 
        credere. Ha assunto una dimensione prima regionale, e poi globale, con 
        profonde conseguenze per noi tutti. Se la libertà fallisce e il terrore 
        trionfa, i popoli dell’Islam saranno le prime e le peggiori vittime. Ma 
        non saranno le sole, e molti altri soffriranno con loro”.
 19 marzo 2004
 
 Bernard Lewis, "La crisi dell’Islam", Mondadori, pgg. 166, euro 16,50
 
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