| New Europe/3. Budapest, ritorno in Occidente di Alessandro Napoli
 
 Sono passati più di tredici anni dal cambiamento, ma non è stata una 
        “decada perdida”. Se cercassimo nel mondo analoghi esempi di adattamento 
        a un nuovo sistema, che questo comporti adattamento istituzionale e 
        normativo piuttosto che adattamento dell’economia e più in generale 
        della società a modelli affatto nuovi, di casi di comparabile successo 
        faticheremmo a trovarne. Ha girato le spalle al piano e ha accettato i 
        rischi del mercato; ha girato le spalle alla divisione del lavoro 
        interna a quello che era il Comecon, orientando i propri scambi 
        internazionali principalmente verso l’Occidente e in particolare verso 
        l’Ue, ha sperimentato e sviluppato una democrazia rappresentativa basata 
        sull’alternanza fra blocchi contrapposti che comunque ha finora 
        garantito stabilità e continuità di sistema. Di certo in Ungheria 
        restano i problemi. Per esempio crescenti squilibri territoriali 
        interni, il cui superamento, insieme con il catching up dell'intero 
        paese dei livelli di benessere dei prossimi partner Ue, dovrebbero 
        essere l’obiettivo cruciale di una politica di sviluppo regionale che 
        dal 2004 potrà contare anche sulle risorse dei fondi strutturali. Per 
        esempio, crescenti e stridenti differenze sociali che possono mettere in 
        discussione quel modello moderatamente consociativo su cui si reggeva lo 
        stesso socialismo kadarista e che di fatto ha continuato sostanzialmente 
        a funzionare anche dopo il cambiamento, come nella vicina Austria o 
        anche in Svizzera. “Chi non è contro di me è con me” si diceva alcuni 
        anni fa, e questo motto, autentico ribaltamento di principi totalitari, 
        ha continuato per un po’ funzionare anche quando si è passati dal piano 
        al mercato, dal partito unico alla democrazia.
 
 Oggi, grazie anche a una coraggiosa politica di attrazione di 
        investimenti diretti esteri, il processo di accumulazione è ripreso, e 
        l'Ungheria ha rioccupato il suo posto in Europa. E forse dentro l’Ue ha 
        qualche lezione da impartire. Innanzi tutto una lezione di “politesse”, 
        come quella che insegna ai bambini che ai più grandi ci si deve 
        rivolgere con un “kezet csokolom” (“bacio le mani”), e lo stesso un 
        qualsiasi uomo deve dire a una donna, indipendentemente dalla età di 
        lei. Una lezione come quella che insegna che la musica, colta o popolare 
        che sia, è una parte importante, anzi insostituibile, della vita. Una 
        lezione come quella che insegna ad amministrare il proprio tempo senza 
        abusarne e senza abusare di chi ti ascolta, con il consiglio di 
        astenersi da ogni forma di improvvisazione: parlare in pubblico senza 
        leggere o senza illustrare un documento accuratamente preparato è 
        considerato segno di maleducazione.
 
 Il ricongiungimento con l'Occidente e con l'Europa avviene in un misto 
        di passione e scetticismo. Passione segnalata ad esempio 
        dall'elevatissima quota di consensi nei referendum sull'adesione alla 
        Nato e sull'adesione all'Ue; scetticismo segnalato da tassi di 
        partecipazione agli stessi referendum non esattamente entusiasmanti. Ma 
        fra i due sentimenti non c'è davvero contraddizione. La passione, 
        emblematicamente simbolizzata dai count down dal giorno dell'adesione 
        all'Ue installati nelle piazze delle città di provincia oppure dallo 
        sventolare generalizzato di bandiere blu a stelle gialle, incontra un 
        razionale limite nei discorsi dell'uomo della strada che senza negarla 
        si chiede prosaicamente se la carne per lo spezzatino costerà di più o 
        di meno, e quanto di più e quanto di meno, oppure se i salari saranno 
        davvero più elevati. L'estrema destra e l'estrema sinistra pongono poi 
        altri quesiti, che sostanzialmente girano attorno ai timori per la 
        perdita dell'identità nazionale di fronte al processo di integrazione 
        nello spazio economico globale o a quali relazioni si stabiliranno con 
        alcuni pesi vicini dove vivono più che consistenti minoranze etniche 
        magiare. A trovare il tutto assolutamente normale è invece gran parte 
        dell'intellighenzia e della borghesia delle professioni, disposte ad 
        accettare sacrifici in cambio di una promessa di maggiore sicurezza e 
        prosperità e nel complesso sicure di far parte di un paese che sta 
        accettando e dimostrando di accettare la competizione con altri paesi.
 
 Una volta salutati il cambiamento, l'integrazione con l'Europa, 
        l'integrazione con l'Occidente, si tratta di capire però in quale 
        posizione questo paese si collocherà quando dell'Unione Europea e 
        dell'Occidente sarà membro a parte intera. Qui le cose potrebbero essere 
        meno semplici di quanto molti le rappresentino, specialmente se nelle 
        relazioni fra Europa e Usa il confronto dovesse trasformarsi in 
        strisciante conflitto o se la stessa adesione all'Unione si dovesse 
        rivelare agli occhi dei più, classe politica inclusa, più impegnativa 
        del previsto. Finora tutte le scelte sono state fatte in uno scenario 
        sostanzialmente senza contraddizioni, sulla base del quale la scelta 
        pro-Ue era sostenuta da una prospettiva di prosperità, quella 
        dell'alleanza con gli Stati Uniti da una di accresciuta sicurezza 
        politico-militare, quella dell'adesione al Consiglio d'Europa da una di 
        garanzia del consolidamento dei diritti civili e sociali.
 
 In questo quadro si possono collocare le relazioni con l'Italia, che non 
        si limitano all'interscambio commerciale. Ci sono infatti dossier sui 
        quali Roma e Budapest hanno entrambe valide ragioni per discutere e 
        sperimentare posizioni ispirate alla difesa di interessi comuni. Per 
        esempio quello della politica regionale dell'Ue, dei fondi strutturali e 
        di quali regole definire per il loro uso. Per esempio quello delle 
        relazioni fra l'Unione e gli Stati Uniti, nelle quali i due paesi 
        potrebbero avere interesse a giocare un ruolo specifico, diverso sia da 
        quello dei paesi della vecchia sia da quello dei paesi della nuova 
        Europa. Per esempio quello della politica dell'Ue verso i Balcani, che 
        entrambe le capitali hanno interesse a vedere come politicamente stabili 
        ed economicamente in crescita. Partirebbero da qui ulteriori riflessioni 
        su prospettive di cooperazione, prima che da un'intensificazione dei 
        commerci e da un cambiamento di punto di vista da parte 
        dell'imprenditoria dei due paesi.
 
 Su quest'ultimo punto vale la pena di sottolineare solo due temi. Il 
        primo: l'imprenditoria italiana deve liberarsi da una percezione 
        dell'Ungheria in base alla quale il paese tende a essere omologato ad 
        alcuni suoi vicini. L'Ungheria non è un luogo dove delocalizzare 
        produzioni a basso valore aggiunto e alta intensità di lavoro. Non ce ne 
        sono le convenienze. Piuttosto gli investimenti diretti avrebbero motivo 
        per utilizzare alcuni strategici vantaggi del paese, a cominciare dalla 
        posizione centrale nel continente, dalla buona logistica, dalla 
        disponibilità di manodopera ad alta qualifica. Il secondo: proprio per 
        queste ragioni, gli investimenti italiani in questo paese non possono 
        che essere, almeno in generale, e fatte salve alcune eccezioni, di 
        consistente scala. La modesta dimensione delle imprese italiane 
        costituisce da questo punto di vista un vincolo che può però essere 
        superato con un approccio sistemico. Insomma, se non ci sono molte 
        imprese italiane in grado di investire individualmente, ci sono però 
        molte imprese italiane che possono investire insieme.
 
 Una riflessione a parte. L'intera Ungheria sarà, dopo l'adesione, area 
        Obiettivo 1. Come dire che nella programmazione, la gestione e 
        l'attuazione di interventi sostenuti con i fondi strutturali, qui 
        varranno le stesse regole del Mezzogiorno d'Italia. Per l'Italia, che 
        negli ultimi anni ha messo in piedi e attuato una politica di sviluppo 
        regionale che vanta significativi successi in termini di capacità di 
        spesa e di impatto della spesa, si apre un altro terreno di 
        cooperazione. E’ quello fra amministrazioni pubbliche, che l'Unione 
        peraltro incoraggia. E questo terreno può svilupparsi anche in territori 
        di altri paesi, a cominciare da quelli dei candidati che non entreranno 
        nel 2004, per finire in quello dei paesi che non sono ancora candidati 
        ma che lo diventeranno prossimamente. Insomma, italiani e ungheresi 
        possono essere partner in programmi comuni di assistenza tecnica e 
        istituti on building sostenuti dall'Unione. Italia e Ungheria sono 
        geograficamente vicine e storicamente accomunate da interessi 
        oggettivamente comuni. E questo è un momento particolare per 
        svilupparli. Intanto, nella vecchia sede del Parlamento, nel centro di 
        Budapest, l'Italia tutta, non solo quella dell'impresa, può essere 
        orgogliosa di essere presente con uno dei suoi istituti di cultura 
        all'estero più prestigiosi. E lo stesso può fare l'Ungheria con la sua 
        Accademia collocata in uno dei palazzi più belli di Roma, non lontano da 
        piazza Farnese.
 
 22 aprile 2004
 
 (da
        
        Emporion)
 
 |