Israele, diritto di difesa
di Fiamma Nirenstein
da
Ideazione, marzo-aprile 2004
Dopo una quantità di insistenze e di critiche da parte di tutto il mondo
e all’ombra del processo dell’Alta corte di giustizia dell’Aja, Israele,
accorciandolo di cento chilometri, ha cambiato l’itinerario del recinto
di difesa, che tutti quanti chiamano ormai muro, benché il cemento sia
servito a costruire la divisione dai palestinesi soltanto per sette
chilometri su seicento in costruzione. Il muro, laddove è tale, è alto
non per crudeltà ma per evitare che venga scalato o che armi o materiali
dannosi vengano gettati al di là di esso; è brutto, perché il cemento è
grigio è oppressivo; ed esiste, perché mille morti sugli autobus e nei
caffè di Israele sono troppi per un paese di sei milioni di abitanti, di
cui cinque milioni di ebrei contro cui il disegno terrorista suicida è
mirato. Recinto si dice in ebraico gader, e muro homa: non è mai
capitato che da parte degli israeliani si sia scambiata una parte per
l’altra, il gader corre fra campi e foreste, triste come lo sono tutti i
fili spinati, angoscioso come tutto ciò che ricorda la morte, ma anche
rassicurante perché può salvare qualche vita; la homa passa ad est di
Gerusalemme e lungo l’autostrada numero 6, a nord, da dove sono entrati
a schiere i terroristi suicidi a piedi, in macchina, sui taxi.
Dal settembre 2000, dopo il rifiuto di Arafat ad accettare le
larghissime offerte territoriali del governo israeliano, Israele ha
sofferto (come frenetica continuazione della politica di terrorismo
lungo tutto il Ventesimo secolo da parte degli arabi palestinesi,
egiziani, siriani, libanesi, iracheni) l’equivalente di diecimila morti
in proporzione alla popolazione italiana. La società intera, l’economia,
l’educazione, i diritti civili più elementari, come la libertà di
movimento o di riunione, sono stati tutti quanti lesi. Le Brigate di al
Aqsa (legate al Fatah di Arafat) la Jihad islamica, Hamas, con l’aiuto
degli Hezbollah, hanno usato i terroristi suicidi per uccidere quanti
più ebrei possibile in un disegno che, con consapevolezza, dovremmo
definire genocida. Sugli autobus, nei caffè, nelle riunioni religiose,
hanno sparato dall’orlo delle strade su veicoli in movimento uccidendo i
guidatori e le loro famiglie, hanno sparato, mirando alla testa, a
bambini piccoli nei loro letti e nelle carrozzine o nei giardinetti,
hanno persino compiuto i loro attentati dentro le cliniche mediche,
hanno usato, per portare a buon fine i loro piani, bambini palestinesi
come esploratori e cavie, hanno usato ambulanze e altri sistemi medici
per portare la morte. Tutto questo ha prodotto una situazione
intollerabile, con la sua inverosimile, ripetitiva, straziante serie di
foto di ragazzi sulle prime pagine dei quotidiani, e risuona anche come
una gigantesca mostra di crudeltà nel vanto e nell’onore che il
terrorismo suicida ha portato con sé nella società palestinese, nell’eco
che ha in tutto il mondo islamico, dov’è un simbolo e un elemento di
continua esaltazione e di emulazione. Ancora dobbiamo piegarci a capirne
i significati e a trarne le conseguenze, noi europei.
In questo contesto di diciannovemila attacchi terroristici subiti dal
settembre 2000, e non in altri, nasce la barriera di difesa: a volte
difettosa, troppo lunga, a volte furbesca nell’inglobare insediamenti
isolati, crudele a tratti, ma sempre comunque indispensabile per
salvaguardare la gente dal terrorismo. Israele ha cercato in vari di
modi di fermarlo, e in parte ci è riuscita soprattutto con l’operazione
“Scudo di difesa”, intrapresa nel marzo 2002 dopo che in un solo mese i
terroristi avevano ucciso 120 persone. E’ allora che molte delle città
che in base all’accordo di Oslo erano già in mano all’Autorità
palestinese furono rioccupate nell’ambito di operazioni antiterroriste.
La barriera di difesa venne concepita proprio dalla sinistra israeliana
come un mezzo per salvare il popolo di Israele tenendo fuori il
terrorismo ed evitare le operazione militari per eliminare o
imprigionare i terroristi stessi, per limitare i danni alla popolazione
palestinese. La guerra al terrore non è una guerra di eserciti, i
terroristi stessi sono civili, sia pure armati; vivono fra la gente, fra
donne, vecchi, bambini, e se ne fanno scudo consciamente o meno, e le
operazioni militari non riescono sempre ad evitare di colpire chi si
trova nel mezzo dello scontro armato. La barriera non può tagliare fuori
solo i terroristi, taglia fuori il loro guscio intero, o non serve a
niente. Costa miliardi, cambia spesso direzione a seguito delle
proteste, procede lentamente. Ma è già completata nelle sue parti più a
nord, lungo l’autostrada numero 6, dove i cecchini prendono di mira le
auto, e fra Gerusalemme ovest ed est oltre che per alcuni tratti del
West Bank. I risultati della costruzione sono già evidenti. Fra l’agosto
2001 e l’agosto 2002 nelle città israeliane di Afula e Hedera, al nord,
vicino a Jenin e a Tulkarem 58 persone furono uccise; da allora, con la
barriera, Israele ha avuto solo tre vittime.
La popolazione palestinese soffre della separazione: anche se il gader è
pieno di cancelli e ogni espropriazione è stata compensata con denaro, e
molti ulivi sono stati trapiantati da una parte all’altra, pure per chi
lavora o ha famiglia e proprietà dall’altra parte della barriera la vita
è diventata molto difficile. Occorrono nuovi permessi, le attese si
moltiplicano, la gente viene separata dal suo ambiente, dagli amici, e a
volte da parte della famiglia. Ma le proteste circostanziate e le
richieste internazionali specie degli Usa, sono state prese in
considerazione tanto che si è rivisto profondamente il percorso,
escludendo alcuni insediamenti e rinunciando a costruire anelli intorno
ai villaggi palestinesi sul confine. Ma la necessità di una separazione
profonda dal terrorismo è evidente: nessuno Stato del mondo rinuncerebbe
a proteggere i propri cittadini con un confine chiuso in una situazione
analoga, e infatti ne esistono di lunghi e invalicabili per motivi molto
meno cogenti, per esempio quello fra Usa e Messico.
Tuttavia, la recente risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu dell’8
gennaio ha chiesto alla Corte internazionale dell’Aja di giudicare
Israele come fosse un criminale di guerra: niente di nuovo, l’Onu ha
dedicato un terzo delle sue risoluzioni a condannare Israele, e di fatto
ha indicato alla Corte una strada prefissata, sostenendo che con la
barriera Israele costruisce su “territori palestinesi occupati”. Per
questo Israele ha deciso di non accettare la giurisdizione della Corte e
di non presentarsi all’Aja: la definizione è puramente politica e non
fattuale, in quanto le risoluzioni 242 e 338 che definiscono la
situazione israelo-palestinese parlano non di territori occupati (se
così fosse la quarta convenzione di Ginevra proibirebbe la costruzione
della barriera), ma invece “disputati”, ovvero di territori ex-giordani
su cui le due parti si dovranno mettere d’accordo sulla base di colloqui
politici e non – come spera Arafat – di condanne internazionali. L’Onu è
già comunque impegnata nella realizzazione di questi colloqui tramite la
Road map.
In realtà, Israele, se non in aula, combatterà una sua battaglia
d’opinione intorno al processo, e intanto prepara la carcassa di un
autobus sventrato da portare all’Aja; spiegherà alla stampa e alla Tv,
mentre rifiuta di sedere all’Aja, che il recinto non ha intenzione di
essere un gesto politico di annessione come sostengono i palestinesi,
che, anzi, esso è facilmente rimovibile, mentre i morti non ritornano,
essi vengono seppelliti per sempre.
Ciò che più colpisce in questo processo, in cui ancora una volta Israele
aggredito diventa l’imputato di fronte a 15 giudici di tutto il mondo, è
la falsariga concettuale e morale adottata dai palestinesi e in fondo
già accettata dall’Onu: non si perde occasione, da parte della
propaganda araba, di definire Israele uno Stato “razzista, di
apartheid”. Ora, Israele, con tutti i difetti che gli si possono
imputare, è la culla dell’integrazione fra mille etnie, il presidente
della Repubblica è iracheno, il primo ministro russo, gli arabi
palestinesi siedono in parlamento e nelle commissioni, i drusi e i
beduini servono nell’esercito, le varie etnie, e specie gli arabi, sono
rappresentati con rispetto e con grande partecipazione specialmente
nelle scuole, nell’arte, nei film, nei mezzi di comunicazione di massa.
Israele non criminalizza e non isola, certo, si difende dato che è
pesantemente attaccato. Già nel ’77 l’Onu definì con una risoluzione
“razzista” il sionismo, poi, nel ’91, la risoluzione fu abolita, e ora
si torna a quella strategia di distruzione morale.
I palestinesi hanno trovato giustamente orecchie aperte e disponibilità
al cambiamento quando hanno posto il problema del gader. Ma non hanno
dato alcun segno di apprezzare i cambiamenti: il loro scopo è politico,
e non in senso ristretto, non solo per esigere che si costruisca la
divisione lungo la Linea Verde – richiesta pia – che piace molto a tutto
l’Occidente, ma che non trova riscontro nella politica di Arafat quando
ha rifiutato uno Stato che di fatto l’aveva come confine; lo scopo è
politico quanto lo fu quello della conferenza dell’Onu contro il
razzismo che nell’estate 2002, a Durban, si trasformò in una conferenza
razzista contro Israele, e basò il suo successo sull’invenzione del
totale stravolgimento semantico di parole come terrorismo, razzismo,
apartheid, violenza, colonialismo, atrocità. Lo scopo del processo
dell’Aja è la delegittimazione di Israele in base a una delle accuse più
atroci in tempo di religione dei diritti umani, ovvero quella di
razzismo: delegittimare l’anima stessa, il senso, l’origine dello Stato
degli ebrei è lo scopo della denuncia del muro, che ogni mente sana,
fatti eventuali cambiamenti e debite correzioni, vede come
indispensabile in tempi di attacco terroristico indiscriminato. Infatti,
implica la rinuncia all’autodifesa.
La Corte certamente non accetterà la richiesta di Israele e di diversi
altri Stati, fra cui gli Usa e anche la Germania, di lasciare perdere la
vicenda, e di nuovo inanellerà un altro capitolo il cui risultato
saranno altri ritratti di Sharon con la svastica a braccetto con Bush,
di ebrei nasuti con il sacco dei dollari e i missili americani a fianco,
altre descrizioni di quella tragedia palestinese che tutti desideriamo
vedere conclusa con una soluzione di due Stati per due popoli, e non con
la famelica ondata di antisemitismo che il mondo arabo si sforzerà,
anche in questa circostanza, di sollevare su Israele.
27 aprile 2004
|