| La scommessa di Sharon di Marta Brachini
 
 E’ molto improbabile che il nome di Ariel Sharon rimarrà associato nella 
        storia del Medio Oriente al raggiungimento di un accordo di pace coi 
        palestinesi. La Road Map è ormai tramontata. La speranza di ottenere una 
        tregua col terrorismo vanificata insieme a quella di giungere alla 
        formazione di uno Stato palestinese, con confini certi e definiti. Come 
        nelle più comuni liti si cerca sempre di attribuire la responsabilità a 
        una sola parte. Nel caso del conflitto israelo-palestinese questa 
        indagine si è sempre rivelata inutile e ampliamente controproducente. Il 
        leader del Likud si è preso sulle spalle il peso di un processo di pace 
        fallito sin dal 2001, anno della sua elezione. Sotto il suo governo, 
        Israele è stata sconvolta dalla indicibile quantità di sangue che vite 
        immolate alla seconda Intifada hanno fatto scorrere. E’ stato votato 
        perché aveva promesso sicurezza agli israeliani, perché era l’uomo forte 
        necessario per guidare il paese nell’incertezza. Tanto più dopo l’undici 
        settembre e a maggior ragione nella difficile gestione dell’onda d’urto 
        provocata dall’invasione dell’Iraq.
 
 In questo contesto Sharon ha deciso di scavalcare l’attuale impasse 
        diplomatico con una mossa unilaterale. In marzo ha annunciato a 
        Washington il ritiro dell’esercito israeliano dalla striscia Gaza e lo 
        smantellamento delle colonie ebraiche all’interno. Una decisione che ha 
        sorpreso molto. Il partito laburista israeliano non poteva non 
        accogliere con entusiasmo la decisione del premier. Da sempre la 
        sinistra pone la questione delle colonie al centro delle sue proposte di 
        negoziazione della pace. L’accettazione non è stata così automatica per 
        la destra. La destra del partito di Ariel Sharon ha bocciato l’idea del 
        suo leader nel referendum interno del 2 maggio. I militanti del Likud 
        hanno in realtà votato contro qualunque ritiro unilaterale israeliano 
        dai territori palestinesi. Inoltre i coloni di Gaza sono tutti risoluti 
        a restare, anche tra più di un milione di palestinesi, rischiando 
        continuamente la vita, come Tali Hatuel, la donna assassinata con le sue 
        quattro bambine sulla strada per andare a votare in Israele.
 
 Bisogna dire che la scelta di Sharon è stata tanto impopolare per il 
        Likud quanto meticolosamente calcolata. L’intenzione del premier 
        israeliano si è rivelata essere qualcosa di diverso dal semplice e 
        immediato abbandono dei territori di Gaza, come per una concessione 
        sommessa e passiva agli obiettivi politici del terrore. Una vasta 
        operazione militare israeliana ha preceduto e seguito l’annuncio 
        ufficiale delle scelte unilaterali del governo. I vertici dei gruppi 
        armati “jihadisti” sono stati decapitati con operazioni mirate, compreso 
        il popolarissimo sceicco Yassin, guida spirituale di Hamas. Ogni 
        operazione è stata messa in atto come ritorsione a un attentato. Così 
        all’uccisione di undici militari israeliani in Gaza, i cui resti sono 
        stati mostrati come trofeo dai militanti di Hamas, ha seguito 
        l’operazione che porta il nome improprio di Arcobaleno: decine di case 
        palestinesi sono state abbattute nei pressi di Rafah, uno dei più 
        popolati campi profughi palestinesi, anche luogo dell’attentato. 
        L’ordine era quello di arrivare a smantellare tutti i passaggi 
        sotterranei per il contrabbando d’armi tra l’Egitto e le case 
        palestinesi a ridosso del confine. L’obiettivo quello di impedire ai 
        terroristi di rifornirsi delle armi che venivano passate proprio sotto 
        la Philadelphia Road, il corridoio di terra sotto controllo israeliano 
        tra Gaza e l’ Egitto.
 
 Non ci sono condanne internazionali, come l’ultima risoluzione di 
        condanna dell’operato dell’esercito da parte dell’ ONU, e biasimi 
        generali che riescano a fermare la determinazione di Sharon. La 
        precedenza va alla lotta al terrorismo, a costo di mettere a repentaglio 
        molte vite civili, delle quali si fanno scudo vilmente gli estremisti. 
        Il primo ministro israeliano vuole dimostrare ai suoi elettori di non 
        aver perso la mano forte e a tutti gli israeliani di essere capace di 
        “scelte dolorose”. Soprattutto, una volta lasciata Gaza, dimostrerà 
        l’impotenza dell’Autorità palestinese di Arafat a mettere ordine nel 
        caos e nella rivalità delle varie fazioni religiose e combattenti.
 
 Sharon ha in mente una soluzione temporanea del conflitto, poco politica 
        e limitata per il fatto stesso di essere unilaterale. E’ una scelta 
        sulla quale chiamerà ad esprimersi tutto l’elettorato israeliano. In 
        caso di mancato appoggio, come ha annunciato, convocherà nuove elezioni 
        politiche.
 
 Il precipitare degli avvenimenti di Gaza ha accresciuto il numero degli 
        scettici e i loro dubbi sulla buona fede delle intenzioni di Sharon. Il 
        progetto del governo viene visto come una strategia di “annessione 
        unilaterale” dei maggiori insediamenti in Cisgiordania. In realtà sembra 
        più credibile pensare che l’obiettivo di Sharon rimanga uno solo: 
        combattere il terrorismo. E’ certo che il completamento della barriera 
        di sicurezza resta una priorità assoluta e che Sharon verrà ricordato 
        come “l’architetto” del muro di separazione tra israeliani e 
        palestinesi. La provvisorietà dell’assetto politico e territoriale è la 
        regola. Non si esclude dunque che una divisione forzata dei territori 
        contesi crei le condizioni per un futuro di negoziazione.
 
        
        25 maggio 2004
 
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