| Islam, lo scisma del sangue di Carlo Panella
 da 
        Ideazione, maggio-giugno 2004
 
 La cultura politica occidentale su nessun tema registra divergenze così 
        radicali di analisi, di visione, di strategie di contrasto, come sul 
        terrorismo islamico che, dall’11 settembre 2001 (ma in realtà da molti 
        decenni prima), devasta il mondo. Ancora oggi divergenze radicali 
        dilaniano i suoi avversari, infiacchendone l’azione repressiva, aprendo 
        varchi in cui il terrorismo penetra con forza, addirittura suscitando la 
        più grave crisi politica tra gli Stati Uniti ed una parte dell’Europa 
        degli ultimi cinquant’anni. Tutto questo sconquasso, questa Babele di 
        analisi e rimedi ha in realtà una origine molto semplice: il terrorismo 
        islamico non esiste. Affermazione forte, provocatoria, ma vera. Quello 
        che opera da decenni è infatti ben di più e ben oltre un fenomeno 
        terrorista: è un radicale, popolare, esteso, scisma religioso che scuote 
        l’Islam.
 
 Di questo bisogna occuparsi, questo bisogna analizzare: se non si scava 
        nelle viscere di questo scisma religioso, non si comprende nulla di 
        quella che è solo la sua manifestazione più visibile e pericolosa, 
        nell’immediato, ma che non ne esaurisce affatto la carica eversiva, 
        esattamente come lo squadrismo non esauriva affatto la complessità del 
        nazismo e del fascismo. Se si lavora attorno al fenomeno terrorista così 
        come ci appare nelle sue manifestazioni, non si comprende nulla del suo 
        retroterra, della sua forza, della sua storia e ancor meno si afferra il 
        bandolo dei rimedi, della logica che bisogna assumere per contrastarlo. 
        Hanno così spazio le tesi economiciste di inerziale scuola marxista; 
        quelle che lo legano a movimenti nazionalisti; trionfa la “colpa 
        dell’Occidente”, il furto di materie prime, “l’imperialismo culturale” e 
        via banalizzando. Analisi tanto radicate e ripetute, quanto false, 
        indifendibili, a fronte di un minimo di verifica concreta. I paesi che 
        hanno fatto da culla al terrorismo islamico, Iran, Arabia Saudita e 
        Algeria, sono infatti tra i più ricchi al di fuori dell’Europa e degli 
        Usa (peraltro nei paesi islamici più poveri, Mauritania, Mali, la stessa 
        Somalia dilaniata dalle bande armate, i terroristi islamici non si 
        radicano); il paese in cui più si è scatenato il terrorismo islamico in 
        tutte le sue patologie, provocando più di 100.000 morti, l’Algeria, non 
        soffre di alcuna costrizione nazionale, è straordinariamente ricco di 
        materie prime, è assolutamente estraneo alla sfera di influenza 
        americana, non ha e non ha mai avuto a che fare con Israele.
 
 Accanto a queste analisi di poco spessore, hanno poi spazio le 
        insopportabili descrizioni tecnicistiche di specialisti che si dilungano 
        a spiegare la differenza tra organizzazioni “a rete”, rispetto a quelle 
        “a piramide” o a “cerchi concentrici”. Unico punto di convergenza pare 
        essere la convinzione che sia un fenomeno che intende combattere come 
        proprio nemico strategico l’Occidente. Ma anche questo è falso. Anche 
        questo non è assolutamente vero. Il terrorista islamico – che, lo 
        ripetiamo, non esiste, perché in realtà è uno “scismatico” – non ha per 
        nemico l’Occidente, ma la “deviazione dalla retta via” dei paesi 
        islamici. Gli Usa e l’Europa sono solo “nemici secondari” da colpire – e 
        vengono colpiti – perché alleati dei governi corrotti che esercitano un 
        potere impuro sul Territorio dell’Islam.
 
 A suffragio di questa nostra tesi, bastano e avanzano le parole di uno 
        dei primi obbiettivi dei terroristi islamici, re Abdullah di Giordania, 
        che così ha dichiarato al Corriere della Sera del 22 marzo: 
        «L’obbiettivo dei terroristi islamici non è la distruzione 
        dell’Occidente, ma la distruzione dell’Islam moderato, per prendere il 
        potere nei paesi arabi; l’Europa è un obbiettivo secondario: 
        indebolendola si vuole condizionare il futuro del mondo musulmano 
        all’interno della comunità internazionale».
 
 Questa analisi di re Abdullah lo porta diritto anche alla conclusione 
        che non vi è alcuna relazione meccanica tra la presenza di contingenti 
        militari in Iraq e la possibilità di divenire bersaglio di attentati: 
        «Non legherei il problema della presenza o meno di soldati in Iraq e la 
        possibilità di essere presi di mira da terroristi. Direi che questa è 
        solo parte di un quadro più ampio, legato a una lotta all’interno 
        dell’Islam, con gli estremisti che cercano di creare conflitti tra 
        Oriente e Occidente e guerre interreligiose». Giudizi che ribaltano 
        radicalmente le analisi di Parigi, Berlino, di Prodi, di Zapatero e che 
        sono ascoltate in Europa solo dai governi inglese, italiano e da Aznar.
 
 Il culto della morte
 
 Esiste e si amplifica invece un nuovo scisma islamico. Uno scisma che si 
        basa sul culto della morte. La morte propria. La morte altrui. Mai, mai 
        nella storia, un’iniziativa terroristica ha riscosso da una così vasta 
        platea popolare tanti e tali applausi, intimi ed espliciti entusiasmi. 
        Mai il terrorismo si è presentato sulla scena mondiale non come un 
        fenomeno “a margine”, ma come il centro di una radicata visione del 
        mondo, fatta propria da milioni e milioni di correligionari.Mai un 
        popolo ha educato i propri bambini nel miraggio di diventare delle 
        bombe, di farsi esplodere in mezzo ad altri bambini, chiamati “scimmie e 
        porci” dai pulpiti delle moschee. Scimmie e porci perché ebrei.
 
 Infiniti sono gli esempi di popoli che hanno condotto per anni guerre di 
        liberazione, che si sono difesi armi alla mano, che hanno combattuto per 
        la loro terra, anche per impedire di essere spazzati via in feroci 
        pulizie etniche, dal genocidio. Ma non esiste nulla di simile 
        all’ideologia e alla pratica del martire-assassino islamico che ha 
        iniziato il suo cammino in Iran nei primi anni Ottanta e che dopo 
        quindici anni ha preso piede in Palestina. Il mondo è pieno di eserciti 
        di soldati-bambini e anche in Palestina al Fatah, Hamas e Hezbollah 
        organizzano campi estivi di soldati-bambini. Ma in nessun paese del 
        mondo si allenano i bambini a diventare bombe per uccidere altri 
        bambini.
 
 Tutto questo non può essere spiegato con il termine “terrorismo”. È un 
        fenomeno ben più complesso, profondo, radicale. Il terrorismo, che 
        opera, che fa stragi, che ha già migliaia di vittime, è solo una 
        manifestazione di un’ideologia, di una religione i cui adepti hanno 
        adottato questi nuovi, terribili riti che divorano i loro stessi 
        figli.Il mondo sta subendo una messe sanguinosa di attentati al cui 
        centro risalta il nuovo fenomeno del martirio-assassinio, strumento per 
        il raggiungimento del fine strategico: l’allargamento della società dei 
        saggi (salafita), in cui si ripercorrano i fasti della prima comunità 
        (umma) musulmana che si riunì attorno al profeta Maometto alla Medina e 
        poi alla Mecca.
 
 Le radici dello scisma
 
 Un fine strategico che si muove su alcuni capisaldi, su alcuni dogmi, 
        che rappresentano una novità di rottura rispetto alla tradizione 
        islamica, alle tradizioni islamiche. In un alveo religioso musulmano in 
        cui gli scismi non si contano, l’iniziativa cultural-religioso-politica 
        di alcuni pensatori musulmani, si è intrecciata con alcuni grandi 
        avvenimenti politici. Uno scisma religioso che ha dunque una dinamica 
        interna tutta politica, che si colloca per intero nelle grandi crisi 
        politiche che da decenni attraversano tutti i paesi islamici.
 
 Uno scisma che ha inizio negli anni Venti, quando il mondo islamico si 
        confronta con la straordinaria e terribile crisi d’identità (e anche 
        d’orgoglio, di percezione di sé), conseguente alla fine ingloriosa del 
        califfato. Ancora oggi, in Occidente, non si comprende quale peso 
        straordinario abbia avuto per la comunità islamica l’abolizione di fatto 
        (nel 1918) e poi di diritto (nel 1924, ad opera di Ataturk) del 
        califfato. Crisi che è stata uguale a quella che avrebbe colpito il 
        mondo cattolico se all’improvviso fosse scomparso dalla storia il 
        Pontefice romano, con un di più, perché il Califfo rappresentava anche 
        l’aspirazione all’unione politica di tutte le nazioni dell’Islam.
 
 La reazione a questo straordinario vulnus delle coscienze, della memoria 
        storica, addirittura dell’identità dei musulmani, è stata assolutamente 
        diversificata. Accanto alla formazione – lenta e impacciata – di gruppi 
        dirigenti politici su base nazionale, in genere condizionati da una 
        visione laicista e filonazista di contagio europeo (il Baath in Siria e 
        Iraq, il gruppo dirigente palestinese del Gran Muftì Hussein, i Giovani 
        Ufficiali di Nasser e Sadat, la Falange libanese, i Pahalavi in Iran), 
        tutti destinati a prendere il potere, si sviluppano e radicano altre 
        leadership improntate al conflitto-collaborazione con l’Europa, in una 
        prospettiva di integrazione nella diversità (gli Hashemiti in Iraq e 
        Transgiordania, il Waqf in Egitto, il Destour in Tunisia, l’Istiqual in 
        Marocco).
 
 A cavallo tra questi, la setta wahabita dei sauditi riesce a conquistare 
        l’Arabia, dando vita ad un regno basato su una drammatica doppiezza: il 
        più duro integralismo antioccidentale come ideologia sul piano interno, 
        affiancato però alla più smaccata alleanza con l’Occidente sul piano 
        internazionale e militare (da qui il brodo di cultura da cui nasce al 
        Qaeda di Bin Laden, quando le due strade entrano in conflitto nel 
        1990-’91 con “Desert Storm”).
 
 Esiste ed opera però, già a partire dalla fine degli anni Venti, un 
        piccolo gruppo di religiosi con grande prestigio e seguito (Hassan al 
        Banna e poi Sayyd Qutb e infine al Turabi, Sayyd al Mawdudi, Ruollah 
        Khomeini), che in Pakistan, Iran, Egitto e Sudan elabora, spesso in 
        maniera interdipendente, ma convergente nelle linee di fondo, una 
        strategia di “ricostituzione del califfato” (inteso non tanto come ruolo 
        personale, quanto come ricostruzione dell’unitarietà universale della 
        comunità musulmana). Strategia improntata ad un “ritorno alle origini”, 
        alla necessità di riprendere con rigore i paradigmi politici della prima 
        comunità musulmana guidata da Maometto alla Medina, sulla base delle 
        interpretazioni rigoriste e formaliste di Ibn Taymmiyya, filosofo 
        integralista, vissuto a cavallo tra il Tredicesimo e il Quattordicesimo 
        secolo. Tra questi, fondamentale è il rispetto formale, non evolutivo, 
        meccanicistico, della shar’ia, la legge islamica, accompagnato dalla 
        pratica del più rigido antisemitismo, in una visione degli ebrei quale 
        quinta colonna dei politeisti, impregnati di jayllyyia (ignoranza 
        empia), tipica della seconda fase della predicazione maomettana alla 
        Medina (quando sgozzò 600 ebrei Banu Quraish, colpevoli solo di avere 
        appoggiato politicamente, non militarmente, i suoi avversari).
 
 Non si tratta naturalmente solo di un richiamo antiebraico astratto, ma 
        del supporto ideologico che fa sì che la questione sionista (intimamente 
        legata al fatto che gli ebrei hanno combattuto a fianco delle democrazie 
        franco-inglesi, mentre tutti i palestinesi e gli arabi – esclusi gli 
        hashemiti – hanno combattuto nel fronte delle autocrazie turco-europee), 
        esca da subito dai binari del conflitto nazionale e venga considerata 
        dalla leadership del Gran Muftì un impegno religioso, col territorio 
        della Palestina considerato un Waqf, un lascito eterno di Allah 
        all’Islam, sottratto quindi alla possibile mediazione politica e 
        diplomatica (da questa rigidità teologica discendono le continue 
        sconfitte palestinesi, il loro reiterato rifiuto di siglare mediazioni).
 
 Ideologia e leadership
 
 Abbiamo dunque la definizione di una nuova ideologia, i primi germi 
        dello scisma che iniziano a maturare già negli anni Venti (nel 1928 
        Hassan al Banna fonda i Fratelli Musulmani in Egitto), che da subito si 
        interseca con il conflitto israelo-palestinese che incredibilmente 
        l’Europa e la sinistra pensano tuttora su basi nazionali, e che invece, 
        da parte araba, è essenzialmente ideologico-religioso. Da qui, 
        l’alleanza stretta tutta la leadership palestinese con il nazismo, che 
        di nuovo viene equivocata in Europa tutt’oggi, perché la si pensa 
        motivata da scelte tattiche provocate dagli scenari bellici, e invece 
        era intrinsecamente omogenea sul piano ideologico, ivi compresi gli 
        entusiasmi tutti teologici del Gran Muftì nei confronti della Shoà.
 
 Terminata la guerra, questa componente estremista, fondamentalista, 
        trascina il mondo arabo non solo al conflitto del 1948 con Israele, ma 
        soprattutto impedisce alla cultura arabo-islamica di prendere atto della 
        sconfitta e di rielaborarla politicamente. Da questa componente, va 
        ricordato, discende anche la crisi perenne dell’Onu che si vede 
        rifiutato – a tutt’oggi – da 18 paesi della Lega Araba su 23, l’atto 
        fondante la nuova legalità internazionale post-bellica: la nascita dei 
        due Stati, israeliano ed arabo, in Palestina, decretata dall’Assemblea 
        delle Nazioni Unite.
 
 Seguono decenni in cui si consumano in pieno tutte le ideologie e le 
        leadership che a partire dagli anni Venti avevano tentato la strada del 
        laicismo nazionalista paranazista e che poi approfittano ampiamente 
        della benedizione provvidenziale di “socialisti e progressisti” che 
        l’Urss impartisce loro negli anni Cinquanta (Nasser in Egitto, sfiancato 
        dalla pulsione di “distruggere Israele”, Numeyri in Sudan, Arafat e 
        l’Olp, il Baath in Iraq e Siria, il Fln in Algeria). Intanto, i gruppi 
        islamici ideologicamente estremisti si radicano sempre più, diventano 
        sempre meno marginali, sia pure in maniera carsica, non avvertibile e 
        non avvertita: i Fratelli Musulmani si espandono a macchia d’olio; 
        Khomeini conquista il controllo di buona parte della gerarchia sciita; 
        Mawdudi si radica nelle élite pakistane.
 
 La svolta matura nel 1979, quando contemporaneamente si verificano due 
        radicali cambiamenti di scena: in Iran crolla sotto i colpi di una 
        rivoluzione di massa guidata da Khomeini il regime dello scià, mentre in 
        Egitto, Sadat rinnega le basi ideologiche del nasserismo, ma anche 
        dell’islamismo fondamentalista “delle origini”, non tanto facendo la 
        pace con Begin (scelta tattica che anche l’Islam più radicale poteva ben 
        accettare), ma soprattutto riconoscendo in pieno il diritto ad esistere 
        dello Stato di Israele. Contemporaneamente, dunque, irrompono sulla 
        scena dell’Islam due fenomeni sconvolgenti: una rivoluzione popolare che 
        prende il potere (sino ad allora octroyé dalle potenze europee che 
        avevano sconfitto l’Impero turco), e il più grande paese arabo che 
        abbandona la pregiudiziale del rifiuto ideologico e teologico della 
        possibilità degli ebrei di avere un loro Stato in Palestina. Sadat rende 
        omaggio alla Knesseth (gesto sacrilego per tutti i capisaldi antiebraici 
        della cultura legata alla “comunità maomettana delle origini” e al 
        carattere sacro per l’Islam di Gerusalemme).
 
 Di più, e fondamentalmente: la rivoluzione in Iran vince grazie al 
        consenso universale – nuovissimo, un inedito anche nell’Islam – riscosso 
        dalla pratica del martirio. È una rivoluzione non violenta – è difficile 
        oggi ricordarselo – che letteralmente spacca il quarto esercito del 
        mondo, che si sfarina durante la repressione sanguinaria di manifestanti 
        che accettano di morire a migliaia, inermi. Da quelle giornate di 
        Teheran del ’78-’79, dunque, il martirio islamico assume l’identico 
        rapporto con la rivoluzione islamica che lo sciopero generale ha con la 
        rivoluzione comunista. Così come non c’è rivoluzione comunista, tentata, 
        riuscita o fallita, che non sia legata ad una strategia che si basa 
        sullo sciopero generale, così l’unica rivoluzione islamica vittoriosa, 
        quella iraniana, ha trionfato solo ed esclusivamente grazie ad una 
        strategia basata sul martirio islamico.
 
 Se non si ha presente questo legame, non si comprendono né la storia, né 
        l’essenza del martirio islamico nell’era moderna. Non si coglie la 
        straordinaria mutazione che la concezione del martirio nell’Islam vive 
        dopo il 1979. Soprattutto non si capisce come e perché il martire 
        musulmano, lo shahid, si trasformi all’inizio degli anni Ottanta del 
        Novecento, in un assassino di civili, in un terrorista. Dopo che per 
        secoli era stato, come in tutte le religioni, un “testimone” della fede, 
        cui offre il proprio sacrificio, la propria morte, diventa altro, si 
        trasforma in un suicida-assassino, in una bomba umana che attraverso la 
        propria morte moltiplica per mille la potenza omicida del tritolo che 
        porta addosso.
 
 La teologia del martire-assassino
 
 Questa trasformazione da martire in suicida-assassino, in terrorista, 
        non ha affatto origine – come si crede e si scrive – nella questione 
        palestinese, non si innesta nella vicenda dei campi profughi, non nasce 
        con la povertà, la miseria, la perdita della propria terra dopo il 1967, 
        né come conseguenza del sottosviluppo in altri paesi islamici. La 
        successione delle date e degli eventi chiarisce che il fenomeno è 
        assolutamente ideologico, intrinseco allo sviluppo del radicalismo 
        islamico e alla rivoluzione islamica trionfante con l’ayatollah 
        Khomeini, in un contesto iraniano che nulla ha a che fare con Israele e 
        la Palestina.
 
 La verità storica si incarica anche di spiegarci che il terrorista 
        islamico, suicida-assassino, nasce e si afferma non quale arma per 
        combattere gli israeliani, o gli americani. Il cammino di questo 
        contagio di morte è invece inverso: il suicida-assassino, lo 
        shaid-killer, il civile che – uccidendosi – fa strage di civili 
        innocenti, viene “inventato” come strumento di lotta politica tutto 
        interno alla società islamica, come arma formidabile di musulmani per 
        uccidere musulmani (re Abdallah di Giordania lo sa bene). Arriva in 
        Israele e nei Territori molto tardi, dopo 13 anni dalla sua apparizione, 
        dopo avere seminato di morte centinaia e centinaia di piazze musulmane, 
        soprattutto in Afghanistan, Egitto, Libano e Algeria. Arriva con 
        l’attentato di Afula, del 6 aprile 1994, che è organizzato da Hamas per 
        impedire, come i tanti che lo seguono (facendo centinaia di vittime 
        prima del 2000, della seconda Intifada), gli accordi Arafat-Rabin. Il 
        martire-assassino palestinese, dunque, compare in Israele per combattere 
        contro la logica dei “due popoli-due Stati”, a clamorosa smentita di 
        tutte le tesi giustificazioniste che ancora oggi si sentono in Europa 
        nei confronti del terrorismo palestinese.
 
 Ma non si tratta – come comunemente si crede – solo di un arma, di uno 
        strumento di lotta, di una nuova e micidiale tecnica terroristica: è 
        invece parte integrante nel progetto di società islamica nella sua 
        versione fondamentalista. Una società in cui trionfa il culto della 
        morte, base della concezione teocratica e militaresca del proselitismo 
        come del vivere comune. La stessa codificazione teorica e teologica del 
        nuovo shahid-killer, la sua collocazione all’interno di una visione 
        moderna della Guerra Santa, della jihad, avviene in ambito 
        esclusivamente musulmano, quale connotato qualificante del nuovo scisma 
        islamico, tanto che il primo esempio storico, il primo attentato in cui 
        questi appare è l’uccisione dell’ayatollah di Tabriz ad opera dei 
        Moejjhaedin del Popolo (la “sinistra” rivoluzionaria iraniana, 
        emarginata da Khomeini) in una data che appare incredibile: l’11 
        settembre 1981! A quell’attentato ne seguiranno decine d’altri, sempre 
        con la tecnica dell’attentatore imbottito di tritolo.
 
 Il martire-assassino nasce come strumento di lotta politica tutta 
        interna alle società islamiche iraniana, egiziana, afgana, libanese e 
        algerina. Solo alla fine del suo rapidissimo percorso espansivo dentro 
        l’Islam, arriva ad Israele. La teologia del martire-assassino nasce per 
        santificare l’uccisione di un musulmano da parte di un altro musulmano, 
        naturalmente dopo che il primo è stato degradato ad “empio ed apostata”, 
        con la specifica condanna di rito, il takfir. Il tutto, shahid e jihad, 
        martirio e guerra santa, nel nome di una strategia di un obbiettivo 
        religioso preciso: imporre ovunque l’applicazione della shar’ia, la 
        legge islamica. I sensi di colpa che alcuni commentatori hanno voluto 
        risvegliare vuoi nell’Occidente vuoi negli Stati Uniti vuoi in Israele 
        per avere, con la loro azione “imperialista”, “meritato” tante 
        devastazioni da parte dei martiri-assassini, non hanno ragion d’essere.
 
 Punire i corruttori dell’Islam
 
 La logica assassina del moderno “martirio islamico” non nasce infatti 
        assolutamente come risposta ad azioni “imperialiste”, ma si afferma come 
        strumento per punire l’apostasia, “la corruzione dell’Islam”, la 
        jiayllhyya (l’ignoranza in cui trionfa il caos pagano e politeista 
        pre-islamico) di musulmani nei confronti di altri musulmani. Tutta la 
        vicenda – moderna, assolutamente nuova alla tradizione islamica – della 
        comparsa del fenomeno martire-assassino è dunque racchiusa dentro la 
        storia della rivoluzione iraniana, dentro l’affermazione politica delle 
        dottrine dell’ayatollah Ruollah Khomeini, dentro il movimento popolare 
        che contrappone il movimento rivoluzionario islamico e il regime dello 
        scià e poi dentro lo scontro che lacera le forze rivoluzionarie 
        islamiche vincitrici.
 
        Dopo il 
        1979, ben al di là dei confini della comunità sciita, tutto l’Islam, 
        compresa la sua componente sunnita, ma anche quella salafita (wahabita) 
        e tutti gli altri mille scismi sono coinvolti e convinti dalla strategia 
        rivoluzionaria che si impone in Iran e dalla Repubblica Islamica 
        teocratica che viene instaurata. Il martirio, la disponibilità di 
        centinaia di migliaia di iraniani a subirlo per abbattere lo scià, è 
        l’arma segreta che Khomeini manovra per piegare e sconfiggere uno dei 
        più moderni ed efficaci apparati repressivi del mondo: l’esercito dello 
        scià. Il martire-assassino, lo shahid-killer è la sua immediata 
        evoluzione e nasce e viene impiegato nel sanguinoso regolamento di conti 
        che attraversa la dirigenza rivoluzionaria iraniana nei primi due anni 
        dopo la vittoria. È tutta interna alla rivoluzione iraniana, a fronte 
        della guerra con l’Iraq, anche la seconda evoluzione del martire 
        islamico (dopo la sua trasformazione in arma di assassinio), che porta 
        allo sconvolgente proselitismo di bambini plagiati e trasformati in 
        suicidi-killer. Con un effetto contagioso in tutto l’Islam, anche quello 
        sunnita, in cui lo scisma si afferma con straordinario vigore. Di nuovo 
        è l’ayatollah Khomeini in persona a introdurre questa teoria-prassi 
        dell’Islam rivoluzionario, a spronare centinaia di migliaia di ragazzini 
        dai dodici anni in su a suicidarsi-uccidendo sul fronte dell’Iraq (molte 
        testimonianze iraniane entusiastiche parlano anche di bambini di dieci 
        anni, di intere classi “martirizzate”). 
 Nell’arco di pochi anni, tra il 1978 e il 1982, si definisce dunque uno 
        sviluppo del martirio islamico nell’alveo del pensiero politico 
        fondamentalista che, come si diceva, ha la stessa centralità che la 
        teoria e la prassi dello sciopero generale hanno avuto per la 
        rivoluzione comunista. Lo sviluppo della jihad contro l’invasione 
        sovietica in Afghanistan, l’afflusso di combattenti da tutti i paesi 
        arabi e islamici, radicano, esaltano e contemporaneamente assicurano una 
        rapida e generalizzata diffusione di questo modello in tutti i settori 
        della umma.
 
 L’internazionalismo terrorista
 
 La dottrina e la prassi insurrezionaliste hanno alle spalle una lenta, 
        secolare evoluzione, dalle iniziali manifestazioni luddiste agli 
        scioperi disperati e difensivi delle prime industrializzazioni, su su 
        fino agli scioperi generali, ai dibattiti della prima Internazionale, al 
        sorelismo, all’anarco-sindacalismo, alle insurrezioni, alla rivoluzione 
        leninista. Momento centrale in tutta l’architettura rivoluzionaria del 
        movimento operaio europeo, lo sciopero generale, non solo rappresenta 
        uno strumento che può evolvere in insurrezione, che può assumere, come 
        pochi altri, valenze eversive. Lo sciopero generale è il metodo 
        principale della lotta rivoluzionaria del movimento comunista, 
        soprattutto perché prefigura in sé il rifiuto del sistema di produzione 
        capitalistico e l’esercizio del potere, del dominio operaio e proletario 
        sulla società. È uno strumento di lotta, la cui applicazione evoca e 
        illustra la nuova legge, l’ordine nuovo che reggerà la società 
        comunista.
 
 Tutto è rapido e compresso, invece, in ambito islamico, come se la 
        lenta, secolare, incubazione del fondamentalismo dentro il grande e 
        lento fiume del quietismo politico-religioso, abbia poi prodotto 
        un’accelerazione incredibilmente urgente e sincopata. Ma anche qui lo 
        strumento prescelto per conseguire la vittoria rivoluzionaria in Iran 
        (con lo sciopero generale che blocca il paese per mesi, ma non è 
        determinante affatto per la vittoria), il martirio islamico, la shahada, 
        contiene in sé gli elementi portanti della nuova società che l’Islam 
        rivoluzionario prefigura. Una società retta sulla shar’ia, in cui il 
        ruolo del singolo, della persona, è costantemente subordinato alle 
        esigenze della società, in cui l’uno e l’altra sono attraversate dalla 
        normalità onnipresente della morte. Morte ricevuta e morte data.
 
 Morte come strumento per raggiungere il Paradiso, la salvazione, la 
        felicità eterna. Morte bramata. Morte agognata.«Voi amate la vita, noi 
        amiamo la morte». Questa dinamica, si badi bene, trova un suo punto di 
        contatto immediato tra Iran ed Egitto, tra rivoluzione iraniana e 
        nascita del terrorismo islamico, a partire dall’ospitalità ed aiuto che 
        Sadat offre allo scià Reza in esilio. Non è un punto di contatto 
        casuale, perché lega due atti di terrorismo: l’occupazione della 
        ambasciata Usa a Teheran con la presa in ostaggio dei diplomatici 
        (legata proprio ai beni dello scià e al suo esilio protetto in Egitto) e 
        l’uccisione di Sadat, il 5 ottobre del 1981, data che segna 
        indiscutibilmente l’inizio del cammino trionfante del terrorismo 
        islamico.
 
 Gli attentatori di Sadat superstiti alla strage, tra cui il braccio 
        destro di Bin Laden, al Zawahiri, danno vita infatti in tribunale ad un 
        surreale dibattito teologico con la corte, in cui spiegano la loro 
        teoria che li porta a dover uccidere i governanti takfir, apostatici 
        dell’Islam, là dove Sadat si è macchiato di questa colpa per avere 
        riconosciuto il diritto degli ebrei a disporre di un territorio sacro 
        che Allah avrebbe invece destinato all’Islam, sino al Giudizio 
        Universale. Contemporaneamente a questi fatti, Sayyd Mawdudi, riesce a 
        inserirsi nella crisi pakistana e assieme a Zia ul Haq riforma in senso 
        integralista tutto il vertice dello Stato, a partire dal quadro 
        dirigente militare, portando l’intero Pakistan nell’ambito del 
        “fondamentalismo praticato”, elemento fondamentale per la maturazione in 
        senso estremista della crisi afgana.
 
 Negli anni Ottanta, dunque, quella che era incubata per cinquant’anni 
        come una marginale deviazione ideologica nei paesi arabi, ma che era pur 
        sempre riuscita a condizionare nell’intransigenza araba (e nel 
        terrorismo) la crisi israelo-palestinese, diventa altro: irradia la sua 
        leadership (anche organizzativa, attraverso Hezbollah) a partire dal 
        “Comintern sciita di Teheran”, ramifica le sue cellule in tutte le 
        società arabe, fa opera di proselitismo combattente sulle montagne di un 
        Afghanistan che l’Urss ha invaso, non a caso, dopo la fine del regime 
        dello scià.
 
 Ad una rivoluzione popolare vittoriosa, fa infatti immediatamente 
        seguito una guerra di resistenza contro l’invasore sovietico che 
        mobilita una sorta di “Brigate Internazionali” dell’Islam, che 
        naturalmente sono costituite dagli elementi più radicali, più vicini 
        alle tesi fondamentaliste, anche se con una spiccata formazione 
        bellicista “partigiana”. Si forma così una generazione di “militari 
        irregolari dell’Islam” che si convince che “il potere sta sulla canna 
        del fucile”, che ha solo una infarinatura ideologico-religiosa, che è 
        ben simboleggiata dalla coppia Osama Bin Laden-Mullah Omar (due nullità 
        dal punto di vista teologico, ma grandi leader di guerriglia) e che, 
        purtroppo, vince. Vince non solo in Afghanistan, dove l’Armata Rossa 
        subisce continui rovesci militari, ma vince addirittura – 
        nell’immaginario collettivo islamico – a Mosca. Dal punto di vista 
        dell’Islam, anche di molti moderati, il crollo dell’Impero sovietico va 
        infatti ascritto alle armi dei combattenti islamici dell’Afghanistan, 
        non alla vittoria Usa della Guerra Fredda. Un incredibile equivoco, ma 
        radicato come non mai.
 
 L’estremismo islamico dunque, nell’arco di dieci anni, conquista due 
        invidiabili vittorie: umilia il “capitalismo liberale” Usa in Iran, 
        sconfigge l’Armata Rossa a Kabul, e addirittura favoleggia di avere 
        distrutto il “comunismo ateo” facendo esplodere l’Urss. Una progressione 
        di successi – dal punto di vista musulmano – che spiega l’incredibile 
        popolarità del fenomeno estremista. È poi importante, fondamentale – ma 
        quasi sempre dimenticato – notare che la tappa successiva alla sequenza 
        Iran-Egitto-Afghanistan, in cui Jihad e martirio si intersecano e 
        trionfano, con immediate ricadute terroristiche, è l’Algeria. Questo è 
        un paese che ha risolto trionfalmente la sua questione nazionale 
        umiliando la Francia, è potenzialmente ricchissimo, è totalmente 
        estraneo alla sfera d’influenza Usa, non si è mai minimamente occupato 
        del conflitto arabo-palestinese. Ma è qui che tutte queste tensioni 
        ideologico-politiche divampano.
 
 Qui la rivolta jihadista è stata contenuta, sconfitta, i suoi leader 
        imprigionati e umiliati, ma il fenomeno non è stato affatto estirpato 
        nonostante l’immensa strage, si è cronicizzato, radicato, si è 
        trasferito ad altri tipi di conflitto, come quello etnico con i berberi 
        di Kabilya, e sta divorando dall’interno la vita della nazione. 
        Contemporaneamente all’avvio della guerra civile algerina, il grande 
        trauma: “Desert Storm”, la guerra arabo-americana contro Saddam Hussein 
        per liberare il Kuwait annesso all’Iraq. Qui tutto si prende, tutto si 
        tiene. Qui nasce al Qaeda, qui i “partigiani” afgani si sentono traditi, 
        qui salta il grande inganno, il patto “blasfemo” che garantisce la vita 
        della dinastia saudita. Il vulnus provocato nell’immaginario estremista 
        dalla presenza di militari Usa con la croce al petto (e anche la stella 
        di Davide), riporta, di nuovo, alle origini maomettane della società 
        musulmana. Il quarto califfo, Omar, decretò infatti che il territorio 
        della Mecca e della Medina, doveva essere haram, puro di cristiani ed 
        ebrei, questo perché le due comunità dovevano essere coranicamente 
        “umiliate” nel ruolo di dimmi, pagando una “tassa di sottomissione”, 
        nelle società islamiche, ma erano comunque inaffidabili “quinte colonne” 
        della cultura e delle armate “politeiste”. Con “Desert Storm”, invece, 
        emerge lo scandalo: il regno dei “Custodi della Mecca”, accompagna la 
        sua intransigenza fondamentalista della fede con un patto sacrilego in 
        cui affida la sua difesa a “crociati e ebrei” con cui combatte un paese 
        arabo e musulmano: l’Iraq di Saddam Hussein.
 
 Nella sconfitta kuwaitiana, si consuma dunque la parabola della 
        distinzione tra “laicismo” panarabo che perde (e Arafat viene sconfitto, 
        di nuovo, a fianco del suo alleato Saddam) e fondamentalismo islamico 
        che trionfa e che ora si schiera al fianco dei “laici” sconfitti. Il 
        fenomeno appare evidente in Palestina, dove il corpo della “laica” al 
        Fatah passa rapidamente, proprio a iniziare dal ’91, sotto l’egemonia 
        politica e terroristica di Hamas ed Hezbollah e i militanti di Arafat 
        diventano cultori della pratica dei martiri-assassini. Oggi, dunque, i 
        terroristi islamici hanno esattamente lo stesso referente culturale 
        composto da una nuova triade concettuale che è l’asse portante di uno 
        scisma religioso: guerra santa-martirio-imposizione universale della 
        Legge Coranica, jihad-shahada-shar’ia.
 
 ’Wala, una bellissima ragazzina palestinese, in un talk-show mandato in 
        onda dalla televisione dell’Anp (il “martirio” stragista è propagandato 
        senza scrupoli nella televisione ufficiale palestinese) il 9 giugno del 
        2002, così risponde, senza esitazioni, al presentatore che le chiede: «È 
        meglio: la pace e i pieni diritti del popolo palestinese o il 
        martirio?». «Il martirio!» è la sua risposta immediata e spiazzante, a 
        cui segue la spiegazione, come da catechismo del nuovo scisma: «Otterrò 
        i miei diritti dopo essere divenuta martire!». Nella sua spontaneità e 
        nella piena soddisfazione del presentatore palestinese, troviamo la 
        conferma dell’inadeguatezza di tutte le spiegazioni correnti sul 
        terrorismo islamico e ancor più sullo specifico terrorismo palestinese.
 
 La base fondamentale, il movente del terrorismo non è dunque la 
        questione nazionale palestinese, non è l’occupazione dei Territori da 
        parte di Israele dopo il 1967, non è neanche – e sembra un paradosso – 
        la stessa contestata esistenza dello Stato di Israele su territorio 
        dell’Islam, non è la miseria, la povertà dei popoli arabi (tra i più 
        ricchi del mondo, peraltro) e tutte le piccole motivazioni meccaniciste 
        ed economiciste della pubblicistica comune.
 
 La soluzione finale
 
 La base reale del terrorismo islamico, anche nella sua componente 
        palestinese è un’altra: è una visione del mondo in cui la morte assume 
        un valore finalistico totalizzante ed assoluto. In cui la morte è 
        angelicata. In cui la morte è agognata perché è fonte di conoscenza 
        (Gnosi) e quindi di perfezione per la persona umana, e vede moltiplicati 
        nell’Eden i suoi effetti positivi se trascina con sé – precipitandola 
        negli Inferi – la morte dell’empio, dell’apostata, dell’ebreo, 
        dell’americano, del cristiano. Nella sua ingenuità la piccola 
        palestinese ‘Wala, riassume tutti questi concetti e dà loro la forza del 
        messianesimo infantile, del mito dell’eterna giovinezza, quando chiude 
        la sua risposta con un ineffabile: «Noi vogliamo restare ragazzi per 
        sempre!». Questo è il martirio, per questo ‘Wala si associa con 
        entusiasmo alla celebrazione della strage della martire-assassina Ayyat 
        al Akhras, che ha ridotto a pezzi una giovane adolescente ebrea di 17 
        anni, Rachel Levy e una guardia privata, per mantenere in eterno la sua 
        purezza di ragazza.
 
 Nell’ideologia del martirio, che dello scisma in atto è l’architrave, è 
        totale ed assoluta l’identificazione tra purezza paradisiaca e morte 
        violenta con assassinio di civili innocenti, di vecchi, di minori, di 
        donne inermi. Mai, a memoria d’uomo, la centralità della morte e 
        dell’uccisione di esseri umani, è stata così forte e con tanti consensi 
        in un’ideologia di massa.
 
 Nel fascismo e soprattutto nel nazismo il culto della morte è 
        onnipresente, ma sempre come passaggio indispensabile per 
        l’esplicitazione della volontà di potenza. Per il nazista e per il 
        fascista il rischio della propria morte è una sfida irridente, ma non un 
        appuntamento ambito. Assolutamente convinto della necessità di dominare 
        ed eliminare gli untermenschen, i sotto-uomini, il nazismo però non 
        arriva mai a teorizzarne apertamente, pubblicamente, ufficialmente la 
        necessità di eliminazione fisica. La stessa strage degli ebrei, la 
        stessa Shoà, è attuata e praticata, ma sempre in qualche modo occultata 
        dai carnefici, relativizzata, persino nei documenti ufficiali interni, 
        persino nei verbali della Conferenza di Wannsee del 20 gennaio 1942 in 
        cui Heydrich, Eichmann e gli altri gerarchi nazisti varano la “Soluzione 
        Finale”.
 
 Nelle parole degli imam palestinesi, invece, la morte propria e la morte 
        altrui sono spesso l’obiettivo, la mèta, il fine agognato del fedele, 
        addirittura del giovane fedele, del ragazzino, del bimbo. Né questo è un 
        Islam marginale, eccentrico, condizionato dalla tragedia 
        israelo-palestinese. È sicuramente un Islam minoritario, ma dai consensi 
        rapidamente crescenti e soprattutto radicato ovunque. Anche in Europa. 
        Anche in Italia.
 
 31 maggio 2004
 
 
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