| Reagan-Wojtyla: la Storia vera di Franco Oliva
 
 Ronald Reagan e Giovanni Paolo II: non è la prima volta che, in termini 
        più o meno appropriati, il nome di un Papa e di uno statista vengono 
        accoppiati nell’iconografia mediatica o addirittura nell’immaginario 
        popolare. Ma è sicuramente la prima volta che l’operazione viene 
        effettuata con solide giustificazioni storiche e per eventi concreti di 
        grandissima portata. A differenza, per esempio, di quanto era già 
        successo per John F. Kennedy e Giovanni XXIII, che la propaganda 
        “pacifista” aveva eletto a punto di riferimento di una coesistenza tra 
        Occidente e blocco sovietico per un breve triennio all’inizio degli anni 
        Sessanta. Allora si trattò di una operazione propagandistica da parte di 
        chi voleva legittimare, magari cristallizzandola, la “guerra fredda” e 
        l’ordine di Yalta, e quindi la divisione dell’Europa con una cortina di 
        ferro, che con muri e filo spinato teneva isolati, imprigionati e 
        staccati dalla loro storia metà dei cittadini del continente. Per non 
        parlare dell’infame tentativo che spesso riaffiora di accomunare Adolf 
        Hitler a Pio XII, per avversione al Vaticano.
 
 Reagan e Wojtyla sono stati gli indiscutibili protagonisti dei “mirabili 
        anni Ottanta”, culminati, grazie anche e soprattutto al loro ruolo, con 
        il crollo e lo sbriciolamento dell’impero sovietico, uno dei due 
        mostruosi moloch totalitari del Ventesimo secolo. Con una considerazione 
        che esalta la grandezza della loro azione: per sconfiggere il nazismo 
        sono state immolate milioni di vite umane, di civili e di militari, di 
        donne e uomini, di giovani e anziani. Infinitamente meno cruenta è stata 
        la battaglia per battere il comunismo sovietico.
 
 Con il senno del poi, sappiamo che in effetti si trattava di un gigante 
        dai piedi di argilla. Ma basta un po’ di memoria storica per ricordare 
        la terribile minaccia che Mosca, direttamente con l’invasione 
        dell’Afghanistan o indirettamente con il supporto ai guerriglieri e ai 
        terroristi di tutti i continenti, esercitava alla fine degli anni 
        Settanta. Decidere di affrontarlo a viso aperto sul suo stesso 
        territorio (la Polonia, colonia sovietica) e sui suoi stessi temi forti 
        (i missili e gli armamenti) non era un’impresa di poco conto e, 
        soprattutto, non era una sfida che poteva essere accettata e affrontata 
        da personaggi di scarsa levatura e di poco coraggio.
 
 Per fortuna, a volte la storia segue i suoi imperscrutabili disegni e 
        crea le circostanze, o le “coincidenze”, giuste che rendono possibile 
        l’impossibile. Ecco allora comparire sulla scena, a poca distanza l’uno 
        dall’altro, due personaggi inediti. Per alcuni aspetti – in primo luogo 
        per formazione e spessore culturale – sono quanto di più diverso si 
        possa immaginare. Per altri, sono sorprendentemente simili: grandi 
        comunicatori, ex attori, sportivi, fermi sostenitori delle proprie idee 
        e convinzioni, bestie nere della sinistra mondiale. Presto sono 
        accomunati da una drammatica esperienza: a distanza di un mese e mezzo, 
        nel 1981, sono vittime di attentati che solo per miracolo non sortiscono 
        effetti mortali.
 
 Ma soprattutto, come analizza bene George Weigel nella sua preziosa 
        biografia di Giovanni Paolo II, “Testimone della speranza”, il Papa e il 
        Presidente condividevano alcune convinzioni:
 • entrambi credevano che il comunismo fosse 
        un male morale, e non solo un sistema economico sbagliato
 • entrambi avevamo fiducia nella capacità 
        degli individui liberi di sfidare il comunismo
 • entrambi erano convinti che la lotta al 
        comunismo potesse sfociare in una vittoria, e non semplicemente in un 
        compromesso
 • entrambi avvertivano la drammaticità 
        della storia del tardo Novecento, e credevano che un messaggio di verità 
        potesse rompere l’equilibrio statico e fasullo del comunismo e scuotere 
        la gente dal suo acquiescente stato di soggezione.
 
 Era quindi normale che tra i due si stabilisse una giusta “chimica” e 
        che l’azione dell’uno influenzasse e rafforzasse l’impegno dell’altro. 
        Ci sono testimonianze sul fatto che Reagan, quando era candidato alla 
        presidenza, fosse rimasto profondamente toccato da un servizio 
        televisivo sulla messa celebrata da Giovanni Paolo II a Varsavia, il 2 
        giugno 1979, in occasione della sua prima, trionfale, storica visita al 
        suo Paese da Pontefice. Mentre è certo che Wojtyla abbia compreso 
        appieno il significato dell’anatema lanciato da Reagan contro l’”impero 
        del male” sovietico, avendone sperimentato direttamente per più di 30 
        anni la perversità e inumanità.
 
 Durante il loro primo incontro, il 7 giugno 1982, Giovanni Paolo II e 
        Ronald Reagan constatarono di avere interessi sostanzialmente concordi 
        per quanto riguardava la sfida al sistema di Yalta. Ma bastano queste 
        considerazioni oggettive a sviluppare una dietrologia secondo la quale 
        essi ordirono un complotto politico-militare per destabilizzare l’impero 
        sovietico e provocare il crollo del comunismo europeo? Questa versione è 
        stata sostenuta in un voluminoso libro (“Sua Santità: Giovanni Paolo II 
        e la storia nascosta del nostro tempo”) dall’ex cronista dello 
        scandalo Watergate Carl Bernstein e dal vaticanista italiano Marco 
        Politi con il supporto di presunte indiscrezioni e di documenti di 
        origine sovietica.
 
 Questa versione “complottarda”, che tende a gettare ombre su tutto il 
        processo di democratizzazione dell’Est europeo, non sembra però reggere 
        a un serio esame dei fatti e viene definita dagli analisti più seri una 
        semplice fantasia giornalistica.
 
 Sostiene con fermezza Weigel: “Non c’era nessun accordo tra gli Usa e 
        Giovanni Paolo II per cui il sostegno alla Polonia sarebbe stato pagato 
        con il silenzio del Vaticano sulla collocazione dei missili nucleari 
        Nato di media gittata in Europa o sulla politica statunitense in Centro 
        America. Insinuare che il Papa abbia potuto prendere in considerazione 
        compromessi di questo tipo denuncia un fondamentale ignoranza del suo 
        carattere”.
 
 Questo non significa negare che si instaurassero tra i due forme di 
        collaborazione significative. Il presidente Reagan nutriva una 
        grandissima ammirazione per il Pontefice e dispose affinché egli fosse 
        tenuto costantemente e pienamente al corrente delle informazioni 
        raccolte dai servizi segreti americani sull’Europa centro-orientale.
 
 Reagan compì un altro passo storico importante stabilendo piene 
        relazioni diplomatiche tra gli Stati Uniti e il Vaticano: Il 10 gennaio 
        del 1984, William Wilson diveniva il primo ambasciatore degli Stati 
        Uniti presso la Santa Sede. Avvenimento, ebbe a dire Reagan, che 
        correggeva finalmente un’anomalia della storia. Due decenni prima, nel 
        1963, il predecessore John F. Kennedy, primo presidente americano di 
        fede cattolica, si era rifiutato di farlo per codardia politica e forse 
        per un calcolo elettoralistico. Giulio Andreotti ricorda che, nel luglio 
        1963, quando venne a Roma in visita ufficiale il presidente Kennedy, 
        ebbe modo di chiedergli, in una colazione ristretta a Palazzo Taverna, 
        come mai non si concludesse l’allacciamento di relazioni diplomatiche 
        tra loro e il Vaticano. “Mi rispose senza equivoci – svela il senatore a 
        vita - che avrebbe potuto porre il problema se fosse stato rieletto. 
        Doveva essere molto attento a non creare una questione cattolica. 
        Purtroppo il nuovo quadriennio non fu suo”.
 
 Negli otto anni durante i quali hanno occupato insieme il proscenio 
        internazionale ci sono stati tanti altri segni di attenzione reciproca. 
        Ma Giovanni Paolo II, che una volta definì Reagan un “buon presidente”, 
        era comunque deciso a mantenere la propria libertà di analisi e di 
        azione: la Chiesa non avrebbe potuto trovarsi legata ai piani politici 
        di nessuno Stato. Giovanni Paolo II e Ronald Reagan erano entrambi 
        impegnati nella liberazione di quelle che la loro generazione chiamava 
        le “nazioni prigioniere”, e seguivano strade diverse per raggiungere lo 
        stesso scopo. Ma senza alcun complotto.
 
 Ronald Reagan e Karol Wojtyla - evidenzia l’ambasciatore Usa presso il 
        Vaticano, Jim Nicholson, nel suo recente volume "Usa e Santa Sede, la 
        lunga strada" - “ritenevano che se avessero potuto collaborare per far 
        crollare il regime comunista in Polonia, il resto dell’Europa dell’Est 
        avrebbe potuto seguire la stessa sorte. Secondo l’ex consigliere 
        nazionale alla sicurezza William Clark, Reagan e Giovanni Paolo II 
        condivisero un’unità di intenti spirituali e un’unità di vedute 
        sull’impero sovietico: diritto e giustizia avrebbero infine trionfato 
        nel piano divino”.
 
 Le polemiche, le accuse, le calunnie, gli attacchi con i quali sono 
        stati bersagliati, in buona o cattiva fede, nel corso della loro azione 
        non hanno lasciato traccia. La Storia ha dato loro ragione e li ha 
        premiati con una tale ampiezza di consenso, simpatia e affetto che ha 
        spiazzato e imbarazzato anche i loro più indefessi detrattori.
 
 6 giugno 2004
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