| 4 luglio, ritorno all’individuo di Stefano Magni
 
 Il 4 luglio è il giorno dell’indipendenza. Ma di quale indipendenza? Gli 
        oggettivisti, i seguaci della filosofa russa Ayn Rand, una delle madri 
        del pensiero individualista contemporaneo, sono sicuri nel dare una loro 
        originale risposta: si deve festeggiare l’indipendenza dell’individuo. 
        “La Dichiarazione di Indipendenza fu una dichiarazione contro la 
        servitù” – scrive Michael Berliner, dell’Ayn Rand Institute – “Non solo 
        la servitù alla Corona, ma la servitù a chiunque”. Non è tanto una 
        provocazione e non è nemmeno solo un’affermazione filosofica, ma anche 
        storica. I padri fondatori degli Stati Uniti hanno dichiarato 
        l’indipendenza dall’Impero Britannico, non per costituire una nuova 
        Nazione a immagine e somiglianza della monarchia contro cui si stavano 
        ribellando, né per conquistare il loro, personale, potere assoluto su 
        quel fazzoletto di terra sull’Atlantico, quale erano gli Stati Uniti di 
        allora. I padri fondatori intendevano far nascere una Nazione di tipo 
        nuovo, fondata su principi morali illuministici: la vita, la libertà e 
        la possibilità di perseguire la propria felicità individuale. “Per i 
        padri fondatori” – prosegue Berliner – “non c’era alcuna autorità più 
        alta della mente dell’individuo, non Re Giorgio, né Dio, né la società. 
        La ragione, come scrive Ethan Allen, è il solo oracolo dell’uomo. E 
        Thomas Jefferson consigliò di ‘porre la ragione sul suo trono e 
        sottoporre al suo giudizio ogni fatto, ogni opinione. Valutate con 
        prudenza ogni questione, si tratti anche dell’esistenza di Dio’. Questo 
        è il significato dell’indipendenza: fidati del tuo stesso giudizio, 
        della tua ragione; non sacrificare la tua mente allo Stato, alla Chiesa, 
        alla razza, alla Nazione, al prossimo”.
 
 I tre diritti fondamentali dell’individuo devono essere intesi ancora 
        come diritti negativi, così come erano stati scoperti da John Locke alla 
        fine del XVII secolo: un diritto di vivere la propria vita senza subire 
        violenza da parte di altri; diritto di essere liberi di scegliere in 
        base al proprio giudizio e non per imposizione altrui; diritto 
        dell’individuo a possedere le cose che ha creato o che ha ottenuto 
        grazie a uno scambio pacifico, a utilizzarle in base alla propria 
        volontà e a non cederle ad altri se non volontariamente. Nel corso dei 
        secoli, questi diritti si sono annacquati, hanno perso valore, anche 
        nella terra in cui sono stati riconosciuti per la prima volta. Più di un 
        secolo di filosofie relativiste hanno fatto sì che in sede accademica e 
        nel sentir comune della gente, venisse disconosciuta l’esistenza di 
        diritti naturali, universali e inviolabili. Un secolo e mezzo di 
        successi del socialismo hanno fatto sì che gli stessi diritti 
        fondamentali venissero interpretati in chiave positiva: il diritto alla 
        vita si è trasformato nel diritto di vivere al meglio, anche grazie a 
        spese sociali e sanitarie; il diritto di ampliare la propria sfera di 
        scelte tramite aiuti statali; il diritto a possedere beni e servizi 
        ritenuti utili e forniti dallo Stato… il tutto pagato obbligatoriamente 
        “dalla società”, cioé da individui non consenzienti.
 
 Il governo statunitense, che per i Padri Fondatori, non avrebbe nemmeno 
        dovuto interferire con le scelte individuali, con le relazioni private 
        fra cittadini, con la volontà stessa dei singoli Americani, limitandosi 
        a garantire il rispetto dei diritti di tutti impedendo il manifestarsi 
        di atti di violenza, ora si è trasformato in uno Stato che in molti casi 
        decide e agisce al posto degli individui. Questa metamorfosi, come 
        spiega bene Edward Hudgins del The Objectivist Center, non fa altro che 
        approfondire le divisioni nella società americana, fenomeno che diventa 
        sempre più evidente all’aumentare della ferocia delle polemiche fra 
        liberals e conservatori. I primi sostengono che la spaccatura della 
        società americana contemporanea sia dovuta all’approfondirsi delle 
        ineguaglianze sociali, per cui vogliono più interventi dello Stato per 
        redistribuire la ricchezza e fornire servizi ai più poveri. I 
        conservatori, invece, sono convinti che il conflitto interno alla 
        società americana sia dovuto soprattutto al relativismo culturale e 
        all’affermarsi di controculture anti-patriottiche, di conseguenza 
        chiedono più interventi dello Stato per censurare e proibire tutto ciò 
        che può creare disordine nella società. Entrambe queste formule sono 
        controproducenti: “Ogni tentativo di unificarci che implichi un ruolo 
        del governo per sottrarre salute e libertà ad alcuni per darle ad altri” 
        – spiega Hudgins – “è la formula migliore per renderci ancora più 
        disuniti”. Bisogna ritornare all’individualismo, dunque. Un 
        individualismo puro e senza compromessi, in cui “possiamo e dobbiamo 
        vivere seguendo il nostro giudizio su ciò che è giusto per noi come 
        individui. Nessun individuo in grado di intendere e di volere – nessuno! 
        – è così debole o stupido da non riuscire a badare a sé stesso o a sé 
        stessa. Suggerire altrimenti dividerebbe inevitabilmente il nostro Paese 
        in schiavi e padroni”.
 
 8 luglio 2004
 
        
        stefano.magni@fastwebnet.it   |