| Andata e ritorno nell’incubo dei Khmer Rossi intervista di Stefano Magni a Ong Thong Hoeung
 
 Ong Thong Hoeung aveva creduto nei Khmer Rossi. Fino a che non li vide 
        direttamente. Viveva a Parigi, ma decise di ritornare in Cambogia, nella 
        sua terra natia, subito dopo la vittoria dei Khmer Rossi, all’inizio 
        della rivoluzione più radicale del XX secolo. Si rese conto delle 
        conseguenze della sua scelta non appena arrivò al suo campo (tutti i 
        Cambogiani, non solo i prigionieri, vivevano nei campi) e riconobbe i 
        suoi amici di Parigi che lo avevano preceduto: “Come sono cambiati! È 
        inimmaginabile”. – scrive nel suo “Ho creduto nei Khmer Rossi” – “Sono 
        magri come chiodi, scheletrici. E ci siamo separati solo tre mesi fa. 
        Sono tutti vestiti di nero, come le persone che abbiamo visto a 
        Pochetong (l’aeroporto, ndr). La differenza è che i vestiti sono ancora 
        quelli che portavano in Francia, ma inzuppati di fango, così ora sono 
        del colore giusto. E non solo sono magri, sono anche sporchi, coperti di 
        piaghe e bolle. Quando sorridono si vedono i denti neri. Qualcuno ne è 
        addirittura rimasto senza. Si direbbe che siano usciti dall’inferno 
        buddista o dai campi nazisti. E il sorriso… Sorridono ma non è più il 
        sorriso spontaneo. È un sorriso strano, enigmatico, sconcertante, che 
        esprime allo stesso tempo tristezza e qualcosa d’altro che non sono in 
        grado di spiegare. Non riesco a guardarli a lungo. Come possono essere 
        ridotti in questo stato? Non ho mai visto niente di simile, nemmeno tra 
        i contadini poveri delle campagne. Ma il dolore più forte lo provo 
        riconoscendo Bounnie, da lontano. Sembra ignorarmi del tutto. Non 
        capisco perché. Il suo comportamento mi ferisce. Prendiamo le valige in 
        silenzio. Quando siamo scesi tutti il camioncino riparte. Il cancello si 
        richiude dietro di noi. È finita”.
 
 Ong è riuscito a sopravvivere, anche se non sa ancora capacitarsi del 
        perché: “È solo il caso” risponde a chi gli chiede come abbia fatto ad 
        uscire da quell’inferno. Lo abbiamo incontrato a Milano, alla Casa della 
        Cultura, in occasione della presentazione delle sue memorie: magro, la 
        pelle scura, con una capigliatura bianchissima, ha uno sguardo sereno, 
        di chi non potrebbe mai fare del male a nessuno È accompagnato anche 
        dalla moglie Bounnie, che Ong ringrazia in pubblico per avergli dato uno 
        scopo nella vita e un sostegno indispensabile alla sua sopravvivenza nei 
        campi cambogiani. Gli abbiamo chiesto come mai ha deciso, al sicuro a 
        Parigi, di ritornare nell’inferno Khmer. “Ho sempre creduto nelle tesi 
        di giustizia ed uguaglianza. Sono sempre stato appassionato di Rousseau. 
        I Khmer Rossi, in Francia, ci avevano fatto credere di aver realizzato 
        questi ideali in Cambogia. Naturalmente era solo propaganda, la realtà 
        era ben diversa”.
 
 I Khmer Rossi avevano proibito il denaro. Ma 
        allora, come era possibile procurarsi da vivere, scambiare…
 
 Qualsiasi tipo di lavoro era proibito tranne la coltivazione intensiva 
        dei campi nel proprio villaggio. Dovevamo lavorare manualmente, tutto il 
        giorno, facendo pausa solo per le sessioni di rieducazione politica, per 
        coltivare il nostro stesso cibo.
 
 Non era possibile mangiare direttamente quello che 
        si coltivava?
 
 No, era proibito. Tutto veniva sequestrato dall’Angkor (i quadri locali 
        dei Khmer Rossi, ndr) e stivato in magazzini comuni. Il cibo veniva 
        redistribuito in mense comuni.
 
 Se una persona decideva di mangiare da sola?
 
 Era severamente proibito, così come era proibita qualsiasi attività 
        svolta individualmente. La pena era la morte.
 
 C’erano almeno dei momenti di intimità? Nel senso: 
        si poteva dormire da soli o con i propri familiari?
 
 Dipendeva dai periodi e dalle scelte dei capi del campo. Non c’erano 
        delle regole precise al riguardo. In alcuni periodi non si poteva 
        dormire da soli, ma in dormitori comuni. Qualsiasi forma di intimità era 
        impossibile. In altri periodi più “morbidi” si poteva anche dormire da 
        soli.
 
 Ma c’era qualche attività che si potesse svolgere 
        individualmente?
 
 No, anche l’“io” era abolito. Dovevamo parlare al plurale, con il “noi” 
        ed era proibito parlare di argomenti personali.
 
 Si poteva lasciare il proprio villaggio?
 
 No, se non con permessi speciali che venivano concessi raramente.
 
 Chi veniva scoperto fuori dal proprio villaggio?
 
 La pena era la morte.
 
 Pensa che l’incubo dei Khmer Rossi possa 
        realizzarsi di nuovo?
 
 Credo di sì, perché la storia si ripete. Inoltre, in Cambogia giustizia 
        non è stata fatta e i carnefici girano liberamente in mezzo alle 
        vittime. Tutti i responsabili hanno sempre chiesto scusa per le loro 
        colpe. Anche la Germania ha riconosciuto le sue colpe nei confronti 
        della Polonia e il Giappone sta iniziando a riconoscere i suoi crimini 
        nei confronti della Cina. In Cambogia non c’è niente di tutto questo e i 
        carnefici di ieri, oggi chiedono di seppellire il passato.
 
 Da cosa crede sia motivato tutto ciò?
 
 Credo che sia tipico dell’Asia. Si tende sempre a dimenticare il passato 
        e a non imparare dagli errori che si sono commessi.
 
 Una via d’uscita?
 
 L’unica via d’uscita è la democrazia e soprattutto la libertà di far 
        circolare le idee. I regimi come quello dei Khmer Rossi non fanno altro 
        che chiudere la società che dominano: la isolano dal mondo esterno e 
        perseguitano tutto ciò che è considerato un corpo estraneo. In questo 
        tutti i regimi totalitari si assomigliano. Per evitare che l’incubo si 
        ripeta, l’unica soluzione è far circolare liberamente le idee, le 
        persone. Come stiamo facendo noi in questo momento: ci si arricchisce a 
        vicenda.
 
        
        14 luglio 2004
 stefano.magni@fastwebnet.it
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