| Quando il liberal vuole uccidere Bush (per finta?) di Cristina Missiroli
 
 “Basta demonizzare il rivale” ovvero l’Ulivo va a lezione da John F. 
        Kerry. Così scrivono in questi giorni i giornali italiani, tutti, 
        indistintamente. In effetti il candidato democratico alla presidenza Usa 
        ha fatto, recentemente, un grande sforzo. Di comportamento su se stesso 
        e (sforzo ancor maggiore) di convincimento nei confronti dei sui 
        supporter.
 
        
        Nelle ultime settimane, insomma, ha scelto di aderire in pieno alla 
        linea che – dicono – gli ha consigliato Bill Clinton: smettere di 
        demonizzare l’avversario, perché non solo è inutile, ma persino 
        contro-producente. Dicono che Kerry abbia persino chiesto ad Al Gore il 
        sacrificio di una parte del discorso pronunciato alla convention di 
        Boston. La versione originale suonava troppo rancorosa e violenta nei 
        confronti di George W. Bush: cancellata. Un atteggiamento che paga. 
        Kerry non ha ancora pronunciato il suo intervento di fronte ai delegati, 
        ma la sua linea di riconoscimento dell’avversario ha già riscosso buona 
        stampa. Peccato che i suoi fan non abbiano nessuna intenzione di seguire 
        l’esempio. Anzi. 
        Man mano che le elezioni di novembre si avvicinano e la tensione 
        elettorale sale, l’intero circo artistico-mediatico della galassia 
        liberal sembra impazzire alla sola idea che Bush conquisti un altro 
        mandato presidenziale. I sondaggi attuali continuano a delineare un 
        testa a testa tra i due contendenti alla Casa Bianca. Malgrado una 
        ripresa economica più lenta del previsto, malgrado i sanguinosi attacchi 
        irakeni, malgrado una stampa che ormai dichiara apertamente (cosa senza 
        precedenti) la sua identificazione con la sinistra. Secondo un nuovo 
        studio del Pew Research Center, la proporzione dei giornalisti americani 
        che si dichiara apertamente di sinistra, è cresciuta del 50 per cento 
        dal 1995. Oggi il 34 per cento dei giornalisti si dichiara liberal, il 
        sette per cento si dice conservatore. 
        Ma, evidentemente, il pregiudizio dei media non è sufficiente ad 
        invertire la marea. Così la pensano almeno alcuni artisti americani che 
        si stanno dedicando anima e corpo ad impedire un’altra vittoria di Bush. 
        Hollywood non ha aspettato la convention democratica di Boston: è scesa 
        in campo da tempo. 
        Prima c’è stato il film di Michael Moore, “Fahrenheit 9/11”, una cruda 
        mistificazione semi-marxista che si è però guadagnata applausi a scena 
        aperta. In principio dalla critica politically correct in Europa e in 
        seguito anche negli Usa. C’è stata poi la raccolta di fondi per Kerry a 
        New York, durante la quale Whoopy Goldberg ha dato il meglio di sé 
        infilando una serie di volgari giochi di parole sull’assonanza in ligua 
        inglese tra il nome di Bush e gli organi genitali femminili. Infine 
        l’invettiva di Paul Newman contro il taglio delle tasse di Bush definito 
        “al limite del criminale”. Tanto per fare alcuni esempi. 
        Ma il bello deve ancora venire. Arriverà il 10 agosto quando Alfred D. 
        Knopf, uno dei più autorevoli editori americani, comincerà a distribuire 
        nelle librerie americane il nuovo romanzo di Nicholson Baker. L’autore 
        passato alle cronache per aver scritto “Vox”, il libro sul sesso orale 
        che Monica Lewisky regalò a Bill Clinton nel 1998. Baker, scrittore 
        coccolatissimo dall’intellighenzia newyorkese, ha abbandonato il sesso 
        eccentrico dei due yuppie protagonisti di “Vox” ed ha trasferito la sua 
        creatività sull’assassinio politico. Il suo nuovo libro, dal titolo “Checkpoint”, infatti non è altro che un 
        lungo dialogo tra due uomini a proposito dell’assassinio del presidente 
        Bush. Oltre ad una serie volgarissima di insulti, i due amici nel libro 
        esaminano tutti i metodi possibili e fantastici per eliminare 
        fisicamente il presidente.
 
        Nel presentare il libro, l’editore Knopf, ha spiegato che Baker lo ha 
        scritto di getto “in risposta al senso di rabbia impotente che colse 
        molti americani quando il presidente Bush decise di portare la nazione 
        in guerra”. Poco importa infatti se nell’ottobre 2002 il voto 
        sull’autorizzazione del presidente ad usare la forza in Iraq sia passato 
        al Senato con 77 voti contro 23 e alla Camera con 296 contro 133. 
        “Ho voluto cogliere – ha detto Baker – la particolarità di questa 
        rabbia. Come si reagisce a qualcosa che si pensa assolutamente 
        sbagliato? Come si fa ad evitare che ti porti a uscire totalmente dai 
        gangheri?”. Per la verità di possibili risposte alle domande di Baker ce 
        ne possono essere diverse. Una risposta potrebbe essere quella di fare 
        campagna elettorale dalla parte dei candidati che vogliono la fine della 
        guerra, come Ralph Nader. Un’altra risposta potrebbe essere quella di 
        scrivere un saggio convincente e razionale. Baker ha scelto una via 
        diversa: quella di scrivere un libro sull’assassinio di Bush. L’editore 
        (che si aspetta un bel boom iniziale delle vendite) è sulla difensiva. 
        Si affretta a ricordare in ogni occasione che il libro di Baker non vuol 
        dire che la violenza sia una risposta appropriata. Ma ne è davvero 
        convinto? Molti lettori potrebbero non essere affatto d’accordo con lui. 
        Potrebbero ritrovarsi assolutamente dalla parte di Jay, il protagonista 
        più arrabbiato del libro di Baker, che a proposito del suo piano dice: 
        “un omicidio che cambierà il corso della storia”. 
        Certo, John Kerry non può essere considerato responsabile di posizioni 
        come quelle di Moore, Golberg e Baker. Ma potrebbe spezzare una lancia a 
        favore di un dibattito più decente e denunciare con forza quest’aria di 
        isteria assassina che spira a Hollywood e a Manhattan. Farebbe anche un 
        favore a se stesso. Eppure non lo farà. Perché per opporsi a questo 
        delirio “artistico” occorre una dose di coraggio non indifferente. 
         
        
        3 agosto 2004
 missiroli@opinione.it
 
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