| East Side Story. Viaggio nella Nuova Europa di Pierluigi Mennitti
 da 
        Ideazione, luglio-agosto 2004
 
 “Avete una bella lingua suadente, peccato non parlarne neppure un po’”. 
        Il tassista polacco, cui faccio questa confidenza in inglese, all’una di 
        notte, nel gelo di una Stettino buia come la pece, sembra avere 
        afferrato il mio mistero. “Lingua? Ragazze? Conosco un pub dove 
        incontrare tante ragazze. Vuole?”. Ecco: uno si arma di taccuino e 
        macchina fotografica e percorre in treno, automobile, bus le strade 
        sconosciute della Nuova Europa, per raccontarne la vita fuori dai soliti 
        cliché e, alla fine di tutto, si ritrova al punto di partenza. Il luogo 
        comune delle ragazze dell’Est disponibili a spolpare uno straniero in un 
        pub torna per bocca di un assonnato tassista, al quale avrei fatto 
        meglio a mettere in mano gli zloty indicati dal tassametro per chiudere 
        una banale conversazione in monosillabi protrattasi sino al cono di luce 
        del mio albergo.
 
 Stettino sarà pure famosa per un pugno di ragazze che sbarcano il 
        lunario in un pub. Ma il mistero per cui un giornalista italiano 
        abbandona i tepori di una Berlino ancora ubriaca dalle bollicine di 
        capodanno e si spinge fino ai meno dodici gradi dell’inverno baltico, è 
        tutto in una frase pronunciata da Sir Winston Churchill, poco dopo la 
        seconda guerra mondiale, nel marzo del 1946 a Fulton, in Missuri. “Da 
        Stettino nel Mar Baltico a Trieste nell’Adriatico una cortina di ferro è 
        scesa sul Continente”. Quella cortina di ferro, fatta di filo spinato, 
        vite spezzate, amori divisi, passioni separate, ha segnato la vita della 
        nostra gioventù fino al giorno in cui, il 9 novembre 1989, tutto finì 
        d’un colpo: giù il Muro a Berlino, giù il filo spinato lungo i confini 
        tra le due Europe della Guerra Fredda. Quindici anni dopo si aprono 
        anche le ultime frontiere e l’altra metà del Continente si unisce alla 
        nostra in un abbraccio politico denso di retorica e foriero a un tempo 
        di speranze e preoccupazioni.
 
 Viaggiando senza confini
 
 Per questo si è deciso di far partire il viaggio nella Nuova Europa da 
        Stettino e l’assenza del filo spinato è il viatico migliore per 
        addentrarsi nelle terre dei vicini ritrovati. Ogni qual volta le durezze 
        della transizione metteranno in dubbio il processo politico avviato nel 
        1989, basterà ricordare ai lettori l’atmosfera da prigione che si viveva 
        di fronte ad ogni confine della Guerra Fredda: le tre ore passate in 
        angoscioso silenzio sul treno nella terra di nessuno tra Berlino Est e 
        Berlino Ovest, nel 1986, con i Vopos che smontavano pezzi di vagone per 
        snidare improbabili fuggitivi; i militari con cani lupo al guinzaglio 
        che, sulle piattaforme ferroviarie della Germania Est, controllavano i 
        passeggeri scesi dai treni giunti dall’Ovest; lo sguardo perduto di un 
        ungherese, compagno occasionale di viaggio, bloccato nel 1987 al confine 
        tra Ungheria e Austria per “ulteriori accertamenti”. E poi la notte 
        trascorsa nel 1988 sul treno Praga-Copenaghen, assieme a una squadra di 
        giovanissimi calciatori cecoslovacchi diretti in Germania Est per 
        partecipare a un “torneo della fratellanza”. Parlammo di auto, moto, 
        musica e moda e di quanto guadagnasse il calciatore che a quei tempi 
        accendeva i sogni di tutti, Maradona: un mondo di balocchi che svanì 
        appena l’allenatore indicò il cartello della stazione di Rostock, la 
        città sede del torneo. Scesero mesti, mentre il loro affabulatore 
        occidentale proseguiva oltrecortina portandosi nello zaino sogni, 
        balocchi e la maglia azzurra di Dieguito.
 
 Era qui la cortina di ferro
 
 Accadevano anche cose ben più gravi, lungo quei confini, nei decenni 
        precedenti: tanti tentativi di fuga verso la libertà finiti tragicamente 
        tra manette e pallottole. Oggi, invece, sulla piccola littorina che 
        parte da Agermünde, nel Nord-est della Germania, in direzione Stettino 
        la frontiera quasi non si avverte. Il controllo di polizia è divenuto 
        poco più che una formalità: un’occhiata distratta al passaporto sul lato 
        tedesco, un controllo elettronico con tanto di scanner portatile sul 
        lato polacco. Ci scappa pure un timbro per la vanità del viaggiatore: è 
        ormai raro che alle frontiere degli Stati dell’ex Europa dell’Est i 
        poliziotti si attardino con i timbri. Guardo fuori dal finestrino: era 
        qui la cortina di ferro. Oggi non v’è più traccia di barriere, né di 
        casematte o torri di frontiera o vedette. Tornano in mente le immagini 
        troppo presto ingiallite dei doganieri ungheresi, che nell’estate del 
        1989 tranciavano con le cesoie chilometri e chilometri di filo spinato, 
        raccolto in rotoli aggrovigliati simili a covoni di ferro. Adesso 
        l’occhio si perde all’orizzonte tra campi gelati di cereali e 
        coltivazioni di barbabietole ricoperte da un sottile strato di brina, 
        senza più capire se quello spaventapasseri che si scorge in lontananza è 
        in territorio tedesco o polacco.
 
 La dogana più ridicola d’Europa
 
 Confini e frontiere, limes di lacrime e dolore ai tempi della Guerra 
        Fredda, possono diventare anche luoghi comici, quindici anni dopo. 
        Capita in Slovacchia, percorrendo la strada statale che da Povazska 
        Bystrica conduce al confine con la Repubblica Ceca. Pochi chilometri di 
        curve sull’altopiano che a nord s’inerpica sulla catena dei Monti Tatra, 
        cari a Papa Wojtyla, e a ovest degrada verso le dolci colline di 
        Moravia. Ad un certo punto una fila di auto e camion ci obbliga a 
        rallentare, quindi a fermarci. Il cartello indica duemila metri alla 
        frontiera. Oltre i Tir s’indovina la lunga barriera degli uffici 
        doganali, con tanto di soldatini compiti che controllano passaporti, 
        patenti, carte verdi e bagagliai. In questo luogo, quindici anni fa non 
        c’era nulla e tra qualche anno, quando l’approdo a Schengen completerà 
        il processo di integrazione dei nuovi membri nella Ue, non ci sarà più 
        nulla. E’ la barriera doganale più ridicola che si possa incontrare in 
        tutto il Continente: otto gabbiotti freschi di vernice sormontati da 
        tetti in lamiera, fari per la notte, casette per l’accoglienza di 
        doganieri e cambiavalute. Le hanno tirate su in fretta e furia nel 1993, 
        quando la Cecoslovacchia cessò di esistere, germinando due Stati 
        gemelli, la ricca Repubblica Ceca e la irrequieta Slovacchia. L’orgoglio 
        nazionalista lo misuri attraversando questo casello: sguardi accigliati, 
        controlli ruvidi, mostrine in vista per i poliziotti di frontiera 
        slovacchi; sorrisi, scambio d’auguri in inglese e certificazione 
        d’italianità sulla fiducia per i poliziotti cechi. Chi sta meglio, 
        evidentemente, non ha bisogno di mostrare la faccia feroce.
 
 L’orgoglio baltico
 
 Stettino è l’anticamera del ritrovato orgoglio baltico. Dalla Polonia 
        alla Lettonia e all’Estonia, da Danzica a Riga e a Tallin(che ogni tanto 
        rispolvera l’antico nome di Reval), il Mar Baltico ritrova il suo 
        braccio orientale. Il miracolo ha risvegliato l’attivismo un po’ sopito 
        di Svezia e Finlandia e ha rimesso in moto l’economia dei porti 
        tedeschi, da Amburgo a Lubecca, da Rostock a Stralsund. La modernità, in 
        Europa, si nutre di passato e nelle librerie antiquarie dei porti 
        polacchi e lettoni è tutto un rifiorire di pubblicazioni sulla Lega 
        anseatica, di mappe d’epoca o di riproduzioni che testimoniano la 
        ricchezza dei commerci baltici e la gelosa autonomia delle sue città. 
        Più ti avvicini alla Russia e più il passato torna prepotentemente a 
        ricostruire scenari, appartenenze, identità. L’Unione Europea e la Nato 
        sono oggi per le Repubbliche baltiche quello che fu nel Trecento la Lega 
        anseatica: la casa comune dell’Occidente, alla quale questi popoli 
        sentono di appartenere.
 
 Il miracolo di Tallin
 
 Le torri di Tallin raccontano questa storia e guardano fiduciose verso 
        nord e verso ovest, in direzione di Finlandia, Svezia e Germania. Dalla 
        Scandinavia è arrivata la cambiale in bianco che i dirigenti estoni 
        hanno saputo incassare: in pochi anni hanno rimesso in moto la piccola 
        repubblica, curando la malata economia statalizzata con dosi da cavallo 
        di libero mercato. Nessun altro paese del vecchio blocco orientale ha 
        riformato così in fretta e così in profondità: e nessun paese è 
        cresciuto tanto rapidamente. L’Estonia avrebbe avuto le carte in regola 
        per entrare in Europa già anni fa: l’apertura del mercato ha attirato 
        l’interesse degli investitori stranieri, il sostenuto livello di 
        crescita quello degli economisti. Svedesi e finlandesi hanno allungato 
        le loro reti digitali, i tedeschi le rotte commerciali. L’Estonia ha 
        rafforzato la propria leadership all’interno delle tre Repubbliche 
        post-sovietiche trainando l’intera area verso Bruxelles. Orgoglio, 
        indipendenza, attivismo, modernità sembrano essere i marchi storici 
        dell’impresa baltica: la Lega anseatica del Ventunesimo secolo è 
        salpata, spostando verso nord-est il baricentro dell’Europa, quella 
        Nuova e quella Vecchia.
 
 Sulle strade della Mitteleuropa
 
 Più a sud non stanno proprio a guardare. Se il Baltico rinasce sulla 
        memoria dell’epopea anseatica, l’Europa di mezzo risorge su quella della 
        Mitteleuropa. Spazi austeri, case linde, odore di pulito, vociare 
        sommesso: benvenuti a Veszprem, nel cuore della Pannonia. A una manciata 
        di chilometri dal carnaio del lago Balaton, la Rimini ungherese dove le 
        famiglie tedesche dell’Est e dell’Ovest s’incontravano d’estate 
        approfittando del più tollerante comunismo kadariano, una collina si 
        staglia netta dal mare di spighe di grano. Lassù, isolata e algida, s’è 
        arroccata Veszprem, cittadina medievale che un recente restauro ha 
        restituito all’ammirazione dei visitatori. Stradine acciottolate, torri 
        panoramiche, palazzi imbiancati e chiese barocche fanno di questo 
        centro, ancora poco battuto dal turismo di massa, una vera e propria 
        perla che simboleggia la laboriosità del popolo ungherese. Gente solida 
        che non perde occasione per rimarcare l’antica appartenenza a uno spazio 
        geopolitico e culturale: l’Europa, loro, ce l’hanno nel sangue da 
        sempre.
 
 La memoria di Budapest
 
 Provare per credere: Budapest, l’impero austro-ungarico, la grande 
        tradizione ebraica, la musica etnica con artisti che hanno segnato la 
        scena folk continentale, Irén Lovász, Ferenc Sánta, Márta Sebestyén, 
        Ferenc Tobak e le sonorità gioiose o malinconiche della musica gitana. 
        Il 1956, la rivolta di Budapest, il popolo in armi sceso per le strade a 
        combattere il comunismo in nome di un Occidente che non arrivò mai. Il 
        ricordo di quei morti e di quelle giornate è sobrio, senza eccessi: 
        qualche lapide nel centro commerciale, lumini accesi nei giorni 
        dell’anniversario, memoriali e bandiere nei pressi del bel palazzo del 
        Parlamento, che si specchia bianco e merlato nelle acque placide del 
        Danubio.
 
 Il padre di tutti i fiumi
 
 Il fiume d’Europa accompagna l’ascesa di Budapest al rango delle grandi 
        capitali del Continente. Il ponte delle catene, che lo solca con solida 
        eleganza, legando la metà storica di Buda con quella più moderna e 
        commerciale di Pest, osserva sfilare i bateau mouche illuminati, 
        traboccanti di turisti sognanti. L’Ungheria era già pronta a cavalcare 
        il mercato prima che il comunismo al goulash inventato da queste parti 
        implodesse senza lasciare rimpianti. Oggi Budapest offre il volto chic 
        di una sontuosa capitale d’Occidente: gli alberghi lussuosi hanno 
        occupato i più bei palazzi del lungofiume e le catene multinazionali del 
        Four Season o del Marriott gareggiano con hotel di charme come lo 
        storico Geller, che per reggere il passo ha da poco restaurato a suon di 
        miliardi la storica sala da bagno termale. I prezzi sono alle stelle, lo 
        shopping nelle eleganti vie del centro prosciuga le carte di credito. 
        Per trovare il benessere diffuso alla classe media, però, bisogna uscire 
        dalla cerchia dorata del centro storico e imboccare una di quelle 
        autostrade che portano alle città satellite. La tangenziale è un 
        susseguirsi di centri commerciali e shopping mall delle più grandi 
        catene francesi, tedesche, svedesi e americane. Vestiti, arredamento, 
        alimentari, computer, elettrodomestici, tutto è in vendita per la gioia 
        degli ungheresi che accorrono a frotte per partecipare alla grande sagra 
        del consumo. Non c’è nulla da spiegare a questa gente, il capitalismo lo 
        hanno nel dna, ancora pochi anni e da queste parti cominceranno a 
        guardare tutti dall’alto in basso.
 
 Quanto è trendy Praga
 
 La vulgata radical-chic ci ha raccontato in questi anni una Praga 
        devastata dall’orda capitalistica che l’avrebbe trasformata in una 
        Disneyland a cielo aperto, a uso e consumo del turismo di massa. Non ci 
        sarebbe più quella dolce e malinconica atmosfera dei tempi andati, 
        salvaguardata dalla glaciazione dell’era comunista una volta tanto 
        benefica, soppiantata dalla frenesia dei grupponi di viaggiatori mordi e 
        fuggi, dei fast food e dei negozi di souvenir, così uguali a quelli di 
        tante altre città. E invece le uniche devastazioni sono quelle lasciate 
        dalla spaventosa alluvione dell’estate 2002, quando l’acqua tracimò dai 
        timidi argini della Moldava e invase strade, piazze e palazzi. In un 
        anno, però, la città è risorta: i carpentieri hanno rimesso in piedi le 
        mura, gli imbianchini hanno restituito colore e lucentezza alle facciate 
        scrostate dall’umidità e Praga ha ripreso il suo volto elegante di 
        sempre come una dama vestita a festa nel giorno del suo matrimonio. 
        Altro che malinconia perduta, Praga ha ritrovato il suo posto nel cuore 
        dell’Europa. Non assomiglia più a quella cartolina falsa e ingiallita di 
        capitale degli anni Quaranta: in verità il comunismo, lungi dal 
        preservarne la vera anima, aveva soltando depositato un velo spesso di 
        polvere sulla sua vita e sulla sua vitalità.
 
 Le migliaia di giovani europei, che l’hanno eletta a nuova capitale 
        trendy del Continente, ciabattano su e giù per gli stradoni di Piazza 
        San Venceslao, sfiorando la lapide che commemora l’altro Sessantotto, 
        quello di Jan Palach e del suo martirio contro i carri armati che 
        soffocarono la Primavera di Praga. è qui la nuova movida d’Europa, zaino 
        in spalla e capelli lunghi, come detta la moda un po’ retrò di questo 
        inizio secolo, musica rock e concerti sinfonici, birra in piazza e caffè 
        nei bistro. Tutto e il suo contrario, senz’altra ideologia che quella di 
        vivere il presente e goderselo fino all’ultimo secondo e anche un po’ 
        oltre. Le casette con le prostitute sono scomparse, al loro posto bed 
        and breakfast a prezzi da capogiro, trovare una stanza a buon mercato è 
        un’impresa mentre le ragazze ti guardano con quell’aria un po’ altezzosa 
        di chi la sa ormai lunga e ha capito che il mondo gira dalla loro parte. 
        Un’esplosione vitale che investe anche altre capitali vicine. Bratislava 
        è invasa dai giovani che d’estate prendono d’assalto fino a notte fonda 
        i caffè all’aperto sui viali principali. Resta l’aria indolente di una 
        piccola capitale della provincia meridionale dell’impero, accarezzata 
        dal Danubio solcato dalle navi da crociera tedesche, ma l’atmosfera è 
        frizzante, il vociare incalzante, la chiacchiera coinvolgente. Nelle 
        piazze del centro le gru meccaniche celebrano la ricostruzione 
        urbanistica del distretto commerciale: banche, istituti finanziari, 
        catene alberghiere internazionali innalzano i loro templi immobiliari 
        scommettendo sul successo di questa città adagiata sulla rotta fluviale 
        Vienna-Budapest.
 
 La ricostruzione di Varsavia
 
 Mille chilometri più a nord, nella steppa polacca, stesse gru, stesse 
        impalcature, stessa frenetica attività per la rinascita di Varsavia. Il 
        centro storico strappato all’oblio voluto dai nazisti, ricostruito pezzo 
        per pezzo dalla rinomata maestria polacca seguendo la traccia fornita da 
        foto d’epoca, mattone su mattone. Il quartiere universitario, brulicante 
        di librerie taverne e caffè a basso prezzo, battuto da alternativi e 
        intellettuali finalmente liberi di dire la loro. O il nuovo salotto 
        commerciale, Novi Swiat, la via dello shopping elegante con i negozi 
        alla moda frequentati dalle dame della società affluente, nuovi ricchi e 
        vecchi boiardi sopravvissuti all’impatto con il capitalismo. Per ora 
        l’Est si gode la festa, snobba il vicino Occidente, corre senza freni 
        verso una modernità a lungo desiderata. Bruxelles è lontana, con le sue 
        supponenze e la sua prosopopea. Questa parte d’Europa chiede a gran voce 
        di essere conosciuta. Frequentata. Vissuta. E giudicata senza più 
        pregiudizi.
 
 24 agosto 2004
 
 pmennitti@ideazione.com
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