Terrorismo, il nemico senza volto
di Stefano Magni
Nella guerra al terrorismo, non solo non si sa che cosa pensa il nemico,
ma nemmeno si sa bene chi si sta combattendo. E se si sta combattendo.
Perché le opinioni pubbliche europee, quando interpellate sulla guerra
al terrorismo, dimostrano di non sapere nemmeno che c’è un conflitto in
corso. Lo si può intuire da una serie di manifestazioni pubbliche, quali
il risultato delle elezioni in Spagna, i sondaggi sulla guerra in Iraq,
lo scetticismo con cui i servizi segreti europei (e le opinioni
pubbliche) accolgono gli allarmi terrorismo lanciati dalla Cia,
l’ostilità dimostrata nei confronti di Israele ogni qual volta vi sia un
sondaggio d’opinione sul conflitto mediorientale. Ogni volta che si
tasta il polso agli Europei, si notano sempre alcune idee di fondo: non
c’è un unico conflitto scatenato dall’Islamismo contro tutti i suoi
nemici, ma tante guerre distinte (Cecenia, Medio Oriente, Iraq, Sudan,
più altri conflitti di cui non ci si occupa mai); in tutte queste guerre
la responsabilità è attribuita in tutto o in parte a chi combatte contro
l’Islamismo; il problema della rabbia islamica, dunque, si può risolvere
dopo aver risolto i singoli conflitti regionali, soprattutto facendo
concessioni territoriali: fine dell’occupazione in Iraq, ritiro dei
Russi dalla Cecenia, indipendenza della Palestina sono le soluzioni più
frequentemente proposte da politici, opinion-maker e mass media.
I fatti dell’ultima settimana sono la negazione di tutti questi luoghi
comuni. Prima di tutto, gli atti di terrorismo si sono susseguiti in
rapida successione in Iraq, in Russia e in Israele, mentre l’allarme
terrorismo rimane alto in Europa. Non c’è un unico cervello, né un unico
coordinamento, dato che le rivendicazioni degli attentati provengono da
gruppi distinti: dall’Esercito Islamico dell’Iraq, dagli islamici ceceni
e dagli integralisti di Hamas. Come non vedere, però, che lo scopo è lo
stesso? Che l’ideologia che spinge i terroristi a colpire è la stessa?
Che i metodi (colpire nel mucchio) sono gli stessi? Il fatto che non ci
sia un “grande vecchio” non rende migliore lo scenario, semmai lo
peggiora, perché a questo punto vuol dire che un attentato in un luogo
del mondo ne chiama altri, preparati da gruppi che condividono la stessa
ideologia di fondo e che si sentono spinti a non essere da meno.
Credere che la “rabbia islamica” si possa placare con concessioni
territoriali è ancor meno realistico. Nessuno dei gruppi che ha colpito
in quest’ultima settimana dimostra di avere a cuore rivendicazioni
territoriali o indipendentiste. La rivendicazione per l’abbattimento dei
due Tupolev sui cieli della Russia e per la bomba nella fermata di
Rizhkaya a Mosca, viene da un gruppo islamico, le Brigate Islambuli, che
prende il nome dall’assassino del presidente egiziano Sadat e si
dichiara affiliato ad Al Qaeda. Il commando che ha assaltato una scuola
russa non era costituito solo da Ceceni, ma da terroristi musulmani
provenienti da varie repubbliche dell’ex Unione Sovietica e da almeno
nove arabi, stando a fonti russe. Hamas, che ha colpito civili
israeliani a Beersheva, non fa mistero di volere la distruzione dello
Stato di Israele. A meno di non entrare nella logica dei radicali
islamici, secondo cui uno Stato non islamico in terra islamica è esso
stesso un atto di invasione, la loro non è una rivendicazione
territoriale, ma un atto di aggressione puro e semplice.
In Iraq i segnali lanciati dai terroristi sono ancora più chiari:
rapendo e uccidendo un pacifista italiano che si dichiarava amico del
popolo iracheno, che era in Iraq per aiutare il popolo iracheno e che
era contrario all’intervento statunitense fino a provare simpatie per la
“resistenza” irachena (quella stessa “resistenza” che lo ha eliminato
fisicamente), dimostrano di non combattere per il popolo iracheno e per
la sua libertà, ma di voler aggredire gli Occidentali, indipendentemente
dalle loro idee e dai loro progretti. Trucidando semplici lavoratori
nepalesi, cittadini di una piccola e lontana Nazione che non ha
partecipato alla guerra in Iraq e che si trovavano sul posto per
ricostruire il Paese, dimostrano che a loro, dell’Iraq e dei suoi
abitanti, non importa nulla. Ma soprattutto, rapendo giornalisti
francesi, cioè cittadini di un Paese che si è sempre opposto alla guerra
in Iraq, per chiedere di abrogare una legge in Francia, dimostrano che i
loro fini vanno ben oltre il conflitto che si sta combattendo in
Mesopotamia e mirano più in alto: mirano a realizzare un progetto
ideologico universale, in cui nessuna parte del mondo può osare
contrastare la legge prescritta dall’Islam.
Questo è il nemico che ci troviamo a combattere: una potenza che non ha
capitale, non ha un governo, non ha un’unica mente, ma ha scopi analoghi
a quelli di qualsiasi regime totalitario rivoluzionario. Una potenza che
mira ad espandere la sua rivoluzione ovunque nel mondo, a imporre la
propria legge ovunque nel mondo, per cui qualsiasi patto di
non-aggressione non serve (se non come espediente provvisorio per
prendere tempo), per cui pacifisti e neutrali non esistono, mentre
esistono solo coloro che rientrano direttamente nel loro progetto e
coloro che, ideologicamente, sono considerarati a priori come dei
nemici.
4 settembre 2004
stefano.magni@fastwebnet.it
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