| Darfur, la parola genocidio fa paura di Marta Brachini
 
 In Darfour è in atto un genocidio e il governo sudanese ne è 
        responsabile. L’accusa arriva dal Congresso degli Stati Uniti ed è stata 
        ribadita dal segretario di Stato Colin Powell. Al momento queste sono le 
        uniche voci autorevoli ad aver parlato di “genocidio” in merito alla 
        regione occidentale del Sudan. Le Nazioni Unite parlano di immensa 
        catastrofe umanitaria e l’UE di situazione estremamente seria evitando 
        di descrivere i massacri della popolazione nera sudanese come genocidio. 
        Che cosa si nasconde dietro questo tipo di reticenza? Sembra essere un 
        vero e proprio tabù definire genocidio le atrocità che dovrebbero essere 
        denunciate con forza. Sappiamo, infatti, che sarebbe inutile replicare 
        gli aiuti umanitari per i 200mila rifugiati in Ciad, come inutili sono 
        già per le 50mila vittime della persecuzione delle milizie arabe. A oggi 
        si parla di 10 mila morti al mese. Perché dunque non parlare di 
        genocidio quando migliaia di persone sono state incatenate e bruciate 
        vive insieme ai loro villaggi, scacciate dalle loro case, insultate con 
        odio razziale, private delle loro proprietà e averi personali?
 
 Basta leggere l’ultimo rapporto sull’attuale situazione del Darfour 
        stilato dal Dipartimento di Stato americano per capire che non è 
        esagerato parlare di genocidio. Ma a quanto pare le cancellerie europee 
        come il Consiglio di Sicurezza dell’Onu temono che l’uso di questa 
        parola possa obbligarli a pensare a un intervento militare nella regione 
        o quanto meno alla possibilità di inviare una presenza militare di una 
        forza multinazionale di pacificazione. E quindi aggirano l’ostacolo 
        cercando di coinvolgere l’Unione Africana nella crisi, di sollecitare la 
        condanna del governo sudanese, quando sanno benissimo che in passato la 
        detta Unione degli stati africani non è stata capace nemmeno di 
        condannare l’azione del governo Mugabe in Zimbawe. Non è efficace 
        neanche la risoluzione 1556 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che 
        intima al governo sudanese di fermare gli attacchi contro i civili e 
        assicurare la loro protezione. Poiché è lo stesso governo sudanese ad 
        armare i Janjaweed, gli uomini del terrore a cavallo, e a spianargli la 
        strada con bombardamenti delle aree da depredare e incendiare e da cui 
        scacciare la popolazione. Da un tale governo non ci si può certo 
        aspettare un cambio di rotta, tanto più perché la “pulizia” della 
        regione occidentale del Sudan risponde a precisi obiettivi politici del 
        governo.
 
 Se il caso Sudan non rientra legalmente nella definizione di genocidio 
        stilata dalla convenzione delle Nazioni Unite del 1949 non importa 
        molto. Quello che è importante è mettere di fronte alla comunità 
        internazionale un fatto terribile e concreto e indurla a prendere una 
        posizione unanime e forte contro chi perpetua crimini contro l’umanità. 
        Far ciò significa non monumentalizzare la storia ma fare della memoria 
        uno scudo per impedire che la dignità umana stessa possa di nuovo essere 
        ferita. Quella del Sudan è un’emergenza internazionale quanto quella 
        dell’ultima guerra mondiale, che nessuno vide o volle vedere fino al suo 
        atroce compimento. Non va dimenticato, infatti, che anche in questo caso 
        la violenza e il terrore si rivolgono contro civili, agendo contro delle 
        persone “con l’intento di distruggere, totalmente o in parte, un gruppo 
        nazionale, etnico, razziale o religioso”, come recita un articolo della 
        suddetta Convenzione, e mirando alla loro distruzione. Non per nulla, 
        dunque, il Congresso americano ha condannato la violenza in Sudan usando 
        parole forti. E non andrebbe biasimato chi proponga un accostamento del 
        termine “genocidio” anche al terrorismo suicida di matrice islamica che 
        si rivolge contro civili inermi e innocenti. Non sono forse crimini 
        contro l’umanità le stragi dell’11 settembre, di tre anni d’Intifada 
        suicida in Israele, l’11 marzo di Madrid, gli sgozzamenti dei 
        giustizieri jihadisti e i sequestri di interi teatri e scuole russi?
 
        
        28 settembre 2004
 m.brachini@libero.it
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