| L’endorsement di Osama di Pierluigi Mennitti
 
 Meglio l’endorsement di Vladimir Putin o quello di Osama bin Laden? Se 
		lo chiedono con ansia incalzante i commentatori politici americani che, 
		a due giorni dal voto presidenziale, devono valutare l’impatto sugli 
		elettori del proclama politico di bin Laden, trasmesso per gentile 
		concessione della tv araba fiancheggiatrice Al Jazeera. Chi osservava 
		con ironia l’appoggio che il leader russo (che pure aveva osteggiato la 
		guerra in Iraq) aveva fornito a George W. Bush dovrà oggi rimpiangere 
		quelle note sarcastiche, dal momento che l’apparizione del Grande Nemico 
		con l’invito a cambiare voto per non incorrere in nuovi, sanguinosi 
		attentati, potrebbe giocare un brutto scherzo alle speranze dei 
		democratici.
 
 E non tanto perché insultare il presidente uscente non pare una bella 
		strategia se si ha in mente la famiglia media americana sperduta nelle 
		fattorie dell’Ohio o nei condomini terrazzati sul lungomare di Miami, 
		quanto perché una parte delle accuse che il capo di Al Qaeda ha 
		rovesciato su Bush e sugli Stati Uniti sembrano prese di sana pianta dai 
		filmetti e dai romanzetti di Michael Moore, il guitto che si è inventato 
		una carriera remunerativa solleticando le snobissime pance 
		dell’intellighentia liberal americana ed europea (e che in Italia viene 
		amabilmente pubblicato dalla berlusconissima Mondadori). Quel Moore che 
		i liberal hanno a lungo coccolato e vezzeggiato, fino a quando le sue 
		bugie sono diventate talmente evidenti e imbarazzanti, da richiedere un 
		graduale allontanamento dell’ingombrante guitto dalla scena elettorale. 
		E tuttavia nessuno sembra oggi in grado di dire se il tentativo di 
		intromissione di bin Laden nella campagna elettorale americana sortirà 
		un qualche effetto, in un senso o nell’altro.
 
 Due aspetti restano tuttavia da segnalare, oltre a quelli già 
		evidenziati dai commentatori. Primo: la strategia di bin Laden è sempre 
		orientata più verso il mondo islamico che verso quello occidentale. La 
		capacità di inserirsi mediaticamente nella fase finale delle elezioni 
		americane non è tanto un segnale agli Usa, quanto al mondo arabo. Con la 
		figura di Arafat al tramonto, le nuove citazioni sulla Palestina aprono 
		un nuovo fronte nell’offensiva del gruppo terrorista islamico. E 
		soprattutto si rinnova la credibilità di una leadership forte, 
		invincibile, capace di tener testa agli Usa e di indossare non solo i 
		panni del guerriero col kalashnikov ma anche quelli più “presidenziali” 
		del politico. I panni indossati nel video di venerdì. Secondo: se nelle 
		elezioni spagnole l’intromissione di Al Qaeda era avvenuta con le bombe 
		e i morti, in quelle americane arriva con un video trasmesso su una rete 
		compiacente. Segno che, almeno nella homeland defence, l’amministrazione 
		Bush ha fatto le cose per bene e che l’America non è così vulnerabile 
		come dopo otto anni di era Clinton.
 
 30 ottobre 2004
 
		
		pmennitti@ideazione.com 
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