| L’eredità di Yasser Arafat di Marta Brachini
 
 Yasser Arafat è stato e sarà a lungo ricordato come il simbolo della 
        lotta palestinese per uno Stato indipendente. Uomo di pace ma 
        soprattutto di guerra, ha voluto egli stesso rappresentarsi con una 
        pistola e un ramo d’ulivo in mano. Mohammed Abdel-Raouf ovvero Arafat 
        Qudwaal-Husseini, ha voluto dedicare la sua vita alla causa del popolo 
        palestinese. Il più popolare leader palestinese è in coma irreversibile 
        dal 4 novembre e già si rincorrono interrogativi sulla sua successione e 
        soprattutto sulle reazioni degli Stati arabi e d’Israele. E quindi sul 
        futuro del processo di pace arabo-israeliano. La speranza è che la Road 
        Map, il percorso per la creazione di uno Stato palestinese, inaugurato 
        ad Aqaba con la stretta di mano tra Abu Mazen e Ariel Sharon dopo la 
        caduta di Saddam Hussein, possa riprendere stavolta senza intoppi. La 
        prospettiva è quella di una nuova stagione di dialogo senza impedimenti. 
        Tuttavia non è possibile essere completamente ottimisti, soprattutto 
        perché la società e l’autorità palestinese sono un groviglio assai 
        complesso di equivoci e rivendicazioni storiche, nonché di evidenti 
        collusioni col terrorismo islamista. Vale la pena di interrogarsi dunque 
        sull’eredità che Arafat lascia al suo popolo, prima di azzardare 
        previsioni per il futuro.
 
 Come ha scritto Barry Rubin, coautore della biografia politica di Yasser 
        Arafat pubblicata dalla Oxford University Press, “è importante ricordare 
        che Arafat indossa(va) tre cappelli”. Nel 1958 egli fu tra i principali 
        membri di Al-Fatah, il movimento di lotta armata che si poneva 
        l’obiettivo della distruzione dello Stato d’Israele. Nel 1969, fondò 
        l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), inaugurando 
        una stagione di guerriglia e terrorismo che proseguì per tutti gli anni 
        Settanta. La sua vocazione di combattente si trasformò poi in vocazione 
        politica alla fine degli anni Ottanta quando decise di continuare a 
        combattere con armi diplomatiche. Barry Rubin, nella sua analisi 
        pubblicata nello speciale del Jerusalem Post il 29 ottobre, mette in 
        luce una serie di questioni decisive per il futuro post-Arafat. Rubin 
        non è ottimista: è convinto dell’impossibilità della formazione a breve 
        termine di una nuova leadership palestinese. A suo avviso “il problema 
        non è chi succederà ad Arafat ma che cosa succederà” all’interno di quel 
        groviglio di movimenti di cui è composta la società palestinese. Egli 
        considera innanzitutto l’interazione tra i movimenti orientati al 
        compromesso e quelli che sono, al contrario, per la rivoluzione a 
        oltranza, fino alla vittoria. E analizza il terreno su cui si troveranno 
        ad agire: un terreno avvelenato – scrive Barry Rubin – dove 
        “l’identificazione della moderazione col tradimento, col culto della 
        vittoria totale, e la promozione e l’incitamento all’odio più perverso, 
        sono difficilmente reversibili”.
 
 In effetti Arafat lascia in eredità al suo successore una situazione 
        veramente difficile da cambiare. La politica palestinese stenterà a 
        prendere provvedimenti decisivi per porre fine alla violenza e a 
        intraprendere seri negoziati di pace. Il pessimista Rubin scrive che 
        chiunque cercherà di far prevalere una linea di dialogo (si intende 
        ovviamente in accordo con Israele e le potenze occidentali) riceverà in 
        cambio “il bacio della morte”. Sembra forse un’opinione troppo negativa, 
        ma va comunque ricordata la forza e la ramificazione di 
        un’organizzazione politica e militare islamica come Hamas nei territori 
        palestinesi e lo stretto rapporto tra quest’ultima, i Tanzim e le 
        brigate Al-Aqsa. I membri senza leader di Al Fatah saranno o meno capaci 
        di superare la prima tappa prevista dalla Road Map, ossia combattere il 
        terrorismo? O dovremo aspettarci una sorta di guerra civile? Per 
        l’analista del Jerusalem Post non può esserci guerra civile tra dieci 
        differenti fazioni. Nessuna ha sufficiente potere per prevalere. Si 
        potrebbe creare, al contrario, una situazione di anarchia con divisioni 
        “tra i palestinesi nei territori e fuori dai territori, tra le stesse 
        fazioni di Al-Fatah, tra il West Bank e la Striscia di Gaza, tra 
        differenti città o tra nazionalisti e islamisti”. Ovviamente è 
        preferibile per tutti pensare a una pace possibile e imminente, ma non 
        possiamo non accogliere quello che c’è di estremamente razionalistico 
        nel pensiero di Barry Rubin e trarne dunque previsioni più realistiche.
 
        
        9 novembre 2004 
		m.brachini@libero.it   
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