L'onda lunga del 1989
di Stefano Magni
[25 nov 04]
Lech Walesa è arrivato a Kiev, accolto con un boato di acclamazioni
dalla folla riunita in Piazza dell’Indipendenza. La sua presenza non
solo rinforza il morale dei sostenitori di Yushchenko, leader
dell’opposizione, ma ricorda anche a tutti gli Europei che in Ucraina si
sta combattendo la stessa battaglia iniziata in Polonia nel giugno del
1989. Il 5 giugno di quindici anni fa, Solidarnosc, il
sindacato/movimento di Lech Walesa, aveva vinto le prime libere
elezioni, mandando a casa definitivamente il regime comunista. Il
risultato era giunto dopo una lotta quasi decennale combattuta prima
nella clandestinità, poi a una tavola rotonda per le riforme. Il regime
militare del generale Jaruzelski, imposto per volontà di Mosca nel
dicembre del 1981, si estinse senza ricorrere alla forza. Le elezioni in
Polonia diedero il via a una reazione a catena in tutta l’Europa
orientale e poi anche all’interno della stessa Unione Sovietica. Questo
vero e proprio effetto domino fu molto rapido e ormai è entrato nella
storia. È lecito, però, parlare di un processo che è finito con il
collasso dell’Unione Sovietica? O si è trattato solo di una prima
spallata, mentre poi la rivoluzione è proseguita più lentamente, a
singhiozzi e, di fatto, non è ancora finita? Nella prima fase, la più
rapida, sono rimasti coinvolti tutti i Paesi del Patto di Varsavia. La
Germania orientale, la DDR, fu la prima a scricchiolare: il 9 novembre
il Muro di Berlino fu abbattuto dalla folla e la polizia non intervenne.
Ci vollero ancora mesi, prima che il regime tedesco orientale finisse e
il paese si riunificasse, ma nel novembre del 1989 una pietra tombale
era stata posta sull’esperienza comunista in Germania. Il giorno
successivo all’abbattimento del Muro, che poi divenne il simbolo della
fine della divisione dell’Europa, l’ultimo stalinista ortodosso, Todor
Zhivkov che da 25 anni governava la Bulgaria con pugno di ferro, diede
le dimissioni. Il regime cecoslovacco si ritrovò, in questo modo,
circondato da rivoluzioni e non durò a lungo. Il 17 novembre una
manifestazione storica per ricordare l’occupazione nazista si trasformò
in una protesta generalizzata contro il regime di Praga. Si dice che i
primi scontri con la polizia fossero voluti dallo stesso Gorbaciov, che
intendeva sostituire il vetero-comunista Gustav Husak con un altro
comunista più morbido, ma che poi perse il controllo della situazione.
Questa tesi, sostenuta da dissidenti ben documentati quali Vladimir
Bukovskij, non è ancora stata corroborata da prove sufficienti. Fatto
sta che una piccola manifestazione dilagò fino a diventare quella che fu
battezzata Rivoluzione di Velluto (per il suo carattere incruento),
altro simbolo della liberazione dell’Est europeo. Mancava solo la
Romania, governata dal violentissimo dittatore Ceaucescu. A cavallo del
Natale del 1989, anche quest’ultimo regime fu travolto, questa volta da
un’insurrezione violenta in cui l’esercito si schierò dalla parte degli
insorti. Con la caduta di Ceaucescu e la sua fucilazione, si concluse la
prima fase di democratizzazione dell’Est comunista, ma già una seconda
fase rivoluzionaria covava sotto le ceneri.
Nel gennaio del 1991 la rivoluzione scoppiò in Lituania, ma fu repressa
con la forza da Gorbaciov. Nel giugno dello stesso anno, Slovenia e
Croazia dichiararono l’indipendenza e il regime comunista jugoslavo
reagì con la forza. Dopo il fallito tentativo di golpe dei “falchi”
comunisti a Mosca nell’agosto del 1991, la stessa Unione Sovietica
cessava di esistere alla fine dello stesso anno. Nel 1992, dopo un anno
di guerra in Croazia, si scioglieva anche l’altra federazione comunista,
quella jugoslava. Nel 1992 la carta geografica dell’Europa era stata
completamente ridisegnata. Da allora i riflettori dei grandi media si
spensero sull’Est, limitandosi ad illuminare singoli episodi: il tentato
golpe nazional-comunista in Russia nel 1993, la guerra tra i
serbo-bosniaci e i bosniaci musulmani, la pulizia etnica in Kosovo e il
conseguente intervento della Nato contro la Serbia… Tuttavia il
comunismo europeo non è morto nel 1992, ma continua a vivere con governi
autoritari post-comunisti. Anche se in questi giorni, in seguito agli
eventi in Ucraina, si parla con stupore di “echi di Guerra Fredda”, la
Cortina di Ferro non è mai del tutto caduta. Le dittature sopravvissute
alle rivoluzioni e alle secessioni del 1989-1992, sono regimi tesi a
cercare una nuova legittimazione usando i simboli del nazionalismo, sono
fermi alla politica di repressione e controllo statale dell’economia
tipica dei vecchi regimi comunisti, il più delle volte sono dominati
anche dagli stessi uomini che facevano parte dell’apparato comunista e
sono coperti dalla foglia di fico di elezioni democratiche fortemente
pilotate.
Il politologo Zbigniew Brzezinski, per descrivere questo tipo di governo
usò una metafora storica: “Era come se la Germania postnazista avesse
continuato ad essere governata da Gauleiter, ovvero da gerarchi di
livello intermedio, che declamavano slogan democratici, mentre al centro
di Berlino continuava a esistere un mausoleo dedicato a Hitler”. La
popolazione, però, non ha mai accettato questi nuovi/vecchi dittatori.
Il primo regime post-comunista a cadere fu il più violento e isolato:
quello di Milosevic, il dirigente comunista serbo che comandava sui
resti della Federazione Jugoslava. Dopo due guerre perdute, in Bosnia
(1992-1995) e in Kossovo (1998-1999), dopo aver subito i bombardamenti
della Nato nel 1999 e anni di crisi economica, la “piazza” serba
rovesciò Milosevic nell’ottobre del 2000, quando il dittatore cercava
ancora di essere riconfermato presidente in seguito ad elezioni
truccate. Tre anni dopo, nel novembre del 2003 fu la volta del regime
post-sovietico georgiano di Shevardnadze, ex ministro degli esteri
dell’Unione Sovietica. Anch’egli fu travolto dalla protesta di piazza
dopo che cercava di essere riconfermato presidente con elezioni
truccate.
La Bielorussia, la più occidentale delle Repubbliche ex sovietiche, non
è riuscita a ribellarsi e pare essersi rassegnata alla dittatura di
Lukashenko, ex dirigente del Partito Comunista Sovietico, commissario
politico e direttore di fattorie collettive: lo scorso ottobre, con un
referendum dai risultati plebiscitari, il presidente si è reso
perennemente rieleggibile. Prima e durante quelle elezioni il clima di
intimidazione, creato per ottenere il risultato desiderato dal
presidente, fu molto forte e i sospetti di brogli sono più che fondati.
La popolazione ucraina, invece, pare non rassegnarsi così facilmente.
Per anni gli ucraini hanno subito un presidente quale Kuchma,
autoritario, post-comunista, ambiguo nella sua politica estera (a volte
filo-occidentale, a volte anti-occidentale), violento con le
opposizioni. In questo novembre del 2004, buona parte degli Ucraini non
accetta il risultato di elezioni (che gli stessi osservatori dell’Osce
considerano pesantemente pilotate) che hanno sancito la vittoria del
successore di Kuchma, l’ex primo ministro Yanukovic. I manifestanti
ucraini che tuttora sono radunati in Piazza dell’Indipendenza non
vogliono far altro che completare l’opera iniziata da Lech Walesa
quindici anni fa.
25 novembre 2004
stefano.magni@fastwebnet.it
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