Sotto la maschera del capitalismo etico europeo
di Paolo della Sala
[25 gen 05]
Negli ultimi mesi l’intreccio tra capitalismo e stati nazionali è
cresciuto fino a diventare la dominante della politica mondiale. A
partire dalla Cina, dove migliaia di Presidenti e ministri sono accorsi
per “preparare il terreno” e “favorire” l’assetto delle “proprie”
aziende nazionali, si può rintracciare il percorso di quello che sembra
ormai essere il sostituto del liberalismo delle multinazionali fondato
sulla “Reaganomics”. Questo patto di partnership tra politica, finanza e
imprese per la conquista dei mercati internazionali garantisce buoni
successi sul piano politico, anche se nell’economia non può certo
competere con i modelli liberali. I principali interpreti del nuovo
modello sono Putin e Chirac. Ma, mentre la Russia sembra concentrare
direttamente in un unico reseau il potere politico e quello
economico-imprenditoriale, il modello francese prevede una interazione
paritaria tra aziende, banche e governo nazionale. Non siamo quindi di
fronte a una semplice riedizione del “capitalismo di Stato”. I benefici
della nuova metodologia, se applicati nei confronti di Stati deboli con
il supporto attivo di colossi finanziari come BNP Paribas e Deutsche
bank, sono notevoli e sembrano contrastare le politiche statunitensi con
una buona efficacia. Dunque tutto bene? No, perché la nuova politica
economica, se non è capitalismo di Stato, è tuttavia un colonialismo
economico le cui origini sono da rintracciare nella decennale esperienza
condotta dalla Francia nell’Africa occidentale dopo la fine delle sue
vecchie colonie. La politica di protezionismo agricolo condotta a
Bruxelles è servita a bloccare lo sviluppo dell’Africa nord occidentale.
Di conseguenza a Dakar, capitale del Senegal, una mucca allevata e
macellata in Francia costa meno di una mucca allevata e macellata
localmente: niente di meglio per costringere l’economia locale alla
dipendenza dall’estero, e niente di meglio per ottenere l’abbandono
delle campagne e l’emigrazione.
La Costa d’Avorio del presidente Laurent Gbagbo ha subito un trattamento
peggiore. All’indomani delle sue elezioni, il presidente ivoriano, al
governo di uno stato potenzialmente ricchissimo quanto inchiodato alla
Francia, dichiara che gli appalti pubblici della CdA non saranno più
assegnati automaticamente alle aziende francesi, ma verranno assegnati
in base a normali criteri di vantaggi ed economicità. La reazione non si
fa attendere. Tramite il governo amico del dittatore del Burkina Faso,
Compaoré, la Francia organizza ed arma un esercito ribelle musulmano che
invade la Costa d’Avorio da nord e tiene in scacco Gbagbo. L’esercito
regolare sembra però in grado di respingere e sconfiggere i ribelli
invasori. A quel punto la Francia dichiara di voler “pacificare” la
Costa d’Avorio, invia truppe di interposizione e così salva i ribelli e
sancisce la divisione di uno stato sovrano. Quando la situazione torna a
farsi pesante per i ribelli, interviene la crisi di novembre, col dubbio
(perché immotivato) bombardamento di soldati francesi, e la conseguente
reazione con ferimento e uccisione di civili ivoriani da parte delle
truppe Licorne (Onu-Francia), con la decisione di effettuare sanzioni
economiche alla CdA. Oltre all’azione politica e di intelligence,
l’Africa viene bloccata con l’azione delle leggi approvate a Bruxelles.
Contemporaneamente all’elezione di Gbagbo, l’Ue approva una legge sulla
fabbricazione del cacao, principale fonte di ricchezza per la Costa
d’Avorio che è il primo produttore mondiale. In effetti la legge
2000/36/CE sembra asettica, autorizzando l’aggiunta di materie grasse
sostitutive del burro di cacao per la fabbricazione del cioccolato.
Nonostante la crisi politico-militare dovuta ai ribelli, le esportazioni
dalla CdA nel 2002 sono passate da 803,2 miliardi di franchi CFA (la
moneta delle nazioni dell’Africa centro-occidentale è gestita da Parigi)
a 1678,3 miliardi. L’ipotesi di un abbassamento della domanda da parte
dell’Europa ipotecherebbe l’intera economia ivoriana, che esporta in
Europa il 49,6% della produzione. Il cacao rappresenta da solo il 35%
dell’export ivoriano, e Francia, Germania e Regno Unito rappresentano il
65% della fabbricazione del cioccolato nella UE (l’Italia è ferma al
5%). Naturalmente tra i succedanei del cacao vi sarebbe il burro di
karité prodotto in massima parte in Mali, stato più amico della Francia
e della UE della Costa d’Avorio.
Al di là delle operazioni condotte in Africa, i percorsi sono infiniti:
russi e francesi hanno un carnet di appuntamenti internazionali che
prevede una visita di stato al giorno per 365 giorni all’anno. In questo
nuovo assetto rientrano anche operazioni come lo smantellamento della
Yukos col conseguente passaggio della Yuganskneftegaz (all'80% della
Yukos) al gruppo sconosciuto Baikal per 9,35 miliardi di dollari
(dicembre 2004). L’interazione tra Russia e Francia riguarda in primis
il Regional Jet Project (RRJ), per la realizzazione di un jet civile
destinato ai voli nazionali da vendere alle aviazioni civili di mezzo
mondo. Il progetto vede come capofila la russa Sukhoi in partnership con
molte altre aziende di diversi paesi, inclusi gli USA.
L’internazionalizzazione dei partecipanti è una finzione utile a ridurre
ostilità e opposizioni: in effetti la maggior parte del businness sarà
francese. Il fatto è che il nuovo jet Regionale sarà strategico per la
conquista del mercato globale dell'aviazione, anche perchè la Sukhoi
fabbrica i migliori bombardieri di medio livello, e a Parigi se ne sono
accorti. Il segmento di mercato del RRJ non ha competitori di livello,
il che assicura guadagni certi. Gli altri competitors internazionali
sono infatti il russo Tu-334, il russo-ucraino An-148, il brasiliano
Embraer, il canadese Bombardier e il cinese ERJ... Molto poco davvero.
L'orizzonte russo
La recente visita di Hugo Chavez a Mosca sembra un déja vu degli anni
’60, quando i protagonisti dei businness erano l’Urss e Cuba. Del resto
il Venezuela è gravemente impoverito e ha bisogno di aiuti economici, di
forniture di grano e carne a prezzi agevolati. Di cosa si occupa un buon
politico leftist, da che mondo è mondo? Il fatto è che Chavez non si è
recato in Russia per occuparsi di grano o di carne, e nemmeno di pace:
ha deciso di sostituire gli F16 americani con i Mig-29. Siccome gli
americani non hanno buone relazioni con Chavez, la scelta dei Mig appare
obbligata, anche se questi (a differenza dei Sukhoi) non sono
competitivi. In compenso il Venezuela può garantirsi alleanze
internazionali. Così, nonostante le recenti défaillances in Ucraina,
Putin vende molto bene ai leader vogliosi di tuffarsi nel great jungle
boogie internazionale. A fine 2004 Putin e il ministro della Difesa
Serghei Ivanov sono stati in visita ufficiale in India e Turchia, due
stati che non sono arabe fenici come Hugo Chavez, ma rappresentano per
la Russia "strategic partners in the military and technological area".
Scopo del viaggio è migliorare la cooperazione militare e lo sviluppo di
tecnologie con questi paesi. In particolare Ivanov ha siglato in Turchia
un contratto per la fornitura di 145 elicotteri da combattimento Ka-50-2
basati sui famosi Black Sharks di Kamov. Tra un break e una firma Ivanov
e il suo collega turco discuteranno anche delle restrizioni imposte al
transito di petroliere attraverso il Bosforo e lo stretto dei
Dardanelli, le quali costano alla Russia 400 milioni di dollari
all'anno. Di conseguenza la russa
Transneft offrirebbe alla Turchia la
costruzione di una pipeline di 193 chilometri, con un impegno di $900
milioni per collegare la cittadina di Kyyikey, sul Mar Nero, a
Ibrikkhaba sul mare Egeo. In Algeria l’esercito ha appena acquistato 50
Mig "29s" dotati di armamenti sofisticati al costo di 1,8 miliardi di
dollari, nonché 22 cacciabombardieri Sukhoï e 42 elicotteri MI-8hip. Nel
corso del 2005 l’Algeria prevede di comprare altri 80 Mig 29s
equipaggiati di radar con largo raggio di azione. La notizia proviene da
fonti informate come l'inglese
Jane’s e il quotidiano russo
Kommersant. In tutto ben 50 paesi di
tutto il mondo si armano con forniture russe.
La via francese
Come si fa a
essere contrari alle privatizzazioni? Il capitalismo di Stato è uno dei
fallimenti più macroscopici visti nella storia. Basti pensare al
Montenegro dove la Kombinat Aluminijuma Podgorica (KAP) produce da sola
metà del PIL del paese. Ma prima di infervorarsi per la
denazionalizzazione della KAP, bisogna leggere i dati oscuri
dell’operazione in corso. Come ricorda la rivista Monitor, la azienda
montenegrina "è in crisi da anni e piano piano il 65% di proprietà
statale è passato nelle mani dei creditori esteri. Chi erano i creditori
dai quali dipende il futuro del paese? Si tratta di due società: Vektra
(nazionale) e Glencore (Svizzera), e della Standard Bank. Gli enormi
debiti accumulati - si parla di 130 milioni di dollari - spingono gli
eventuali acquirenti a chiedere sovvenzioni statali per la fornitura di
elettricità, la riduzione delle imposte, agevolazioni con la mano
d'opera locale" [Link]
[Link].
Si tratta di condizioni gravose per un paese già profondamente turbato
dallo stato equivoco dei rapporti con Belgrado (di recente il presidente
montenegrino Vujanovic ha parlato di "separazione" dalla Serbia). La
compagnia russa Sual ha rinunciato all’acquisto della KAP a causa dei
costi molto elevati. Quanto alla Glencore, vuole tutto: elettricità,
tasse, mano d’opera col minore investimento possibile. Non si parla poi
dell’offerta della compagnia indiana Vedante. Le autorità montenegrine
ignorano quasi tutto di questa compagnia, benché essa sia in espansione.
Restano favorite Glencore e Paribas, ed è inutile ricordare che si
tratta di politica. Tra l’altro la banca parigina sembra una vera e
propria associata alla multinazionale svizzera, e inoltre ha gestito
flussi di capitale notevoli, come i 20 (o 40) miliardi di dollari di Oil
for Food (Irak-ONU-Francia connection). Non a caso BNP Paribas ha
erogato a Glencore un credito di ben 3 miliardi di dollari...
Inoltre proprio in questi giorni BNP-Paribas e Glencore cercano di
regolare i problemi finanziari della Rusal (altro potenziale investitore
russo del KAP), alla quale la stessa Glencore, beneficiaria della
fideiussione francese avrebbe accordato un prestito di 150 milioni di
dollari, nel dicembre 2002. È vero che la Rusal è uno dei più grandi
produttori d’alluminio del mondo. Il suo volume d’affari ammonta a
miliardi di dollari. Ma il proprietario della Rusal, Oleg Deripaska, è
rimasto senza liquidi dopo aver acquistato il 25% delle azioni del suo
socio Roman Abramovic. Deripaska detiene il 75% della compagnia, ma la
Rusal ha crescenti debiti nei confronti, tra gli altri, del consigliere
del governo montenegrino, che è proprio la BNP-Paribas. Insomma, siamo
di fronte a ben più di un conflitto di interessi: la Francia, attraverso
la sua banca d'affari più politicizzata, "consiglierà" il governo
montenegrino su scelte nelle quali essa stessa gioca su più tavoli,
essendo appunto finanziatrice e compartecipe di Glencore e di Rusal.
Simile discorso per la privatizzazione della Telekom montenegrina. Si
parla della ungherese Matav, che ha già comprato la Telekom macedone. Ma
c'è da notare che il proprietario della compagnia ungherese Matav è la
multinazionale tedesca Deutsche Telekom, la quale possiede già le
aziende di telecomunicazioni della Croazia e della Slovacchia. Oltre a
questo la Deutsche Telekom possiede anche il 25% della compagnia russa
Sisteme. Francesi e tedeschi potrebbero dunque essere i partner
strategici del Montenegro. Il quadro uscito dalla liquidazione della
Yugoslavia è chiuso: tedeschi i primi passi per la "secessione" della
Croazia, e francesi le mosse in "difesa" dei serbi, dai tempi di
Sebrenica fino ai bombardamenti dalemiano-clintoniani...
L'orizzonte statunitense
Negli anni ’90 l’Europa (soprattutto Spagna e Francia) ha largamente
colonizzato le economie deboli dell’America latina, dove le politiche
nazionali si sono emancipate dalla dottrina Monroe, e dove governano le
sinistre. Il fatto che non si trattava di semplici operazioni condotte
da multinazionali, ma di una penetrazione economica globale mascherata
da un liberismo di facciata, è dimostrato dalla crisi vissuta
dall’Argentina negli anni scorsi. Invece di piangere per le
privatizzazioni, i sindacati locali dovevano spingere perché si creasse
un’economia capace di combattere il parassitismo di chi gestiva la
vendita delle imprese nazionalizzate da Peron e dalle giunte militari.
L’economia liberale non produce immiserimento: in Cile l’economia si
sviluppa al 6% all’anno, e non vi sono mai stati momenti critici, se non
sotto il governo di Allende. Nella stessa Argentina le politiche di
sviluppo successive alla crisi hanno prodotto un incremento del PIL
dell’8%, con un’inflazione al 3%, disoccupazione al 12%, produzione
industriale a +35% e una bilancia commerciale tornata in attivo
(Corriere della Sera). Anche in Brasile, nonostante il socialismo di
facciata, lo sviluppo economico avviato da Lula si basa su solide
politiche liberali.
Nonostante questi rinnovati successi, il modello economico
“multinazionalista” sviluppato da Reagan e dalla Tatcher ha bisogno di
rinnovamenti, per non perdere terreno nei confronti del nuovo e
aggressivo nazionalismo europeo, il quale crea miseria e deserti nel
Terzo mondo, ma segna successi politici con la sua disinvolta strategia
di alleanze iniziata al tempo della crisi petrolifera del 1973.
Anche gli Stati Uniti si stanno adattando alla nuova chiraconomics? La
risposta a quest’ultima domanda non è semplice: da un lato c'è da
considerare la tradizionale autonomia delle multinazionali USA.
Operazioni come quelle condotte dalla United Fruit in Centro america
oggi sono tramontate e considerate politicamente perdenti. D'altra parte
non si può considerare l'Irak come banco di prova valido: a Bagdad gli
appalti vengono assegnati alle aziende dei paesi che hanno partecipato
alla liberazione dalla dittatura... Tuttavia è difficile pensare che gli
stessi potessero essere assegnati allo Chirac alleato di Saddam Hussein
o gestiti dall’Onu di Oil for Food. Di conseguenza, il giudizio sui
nuovi possibili modelli di espansione politico-economica degli USA è
sospeso e affidato al dopo Irak. Comunque sia, il capitalismo etico
praticato da alcuni governi europei non sembra una valida alternativa al
liberalismo classico. Di sicuro, infine, l’ etica predicata funziona
solo in favore delle proprie risorse, ma agisce contro quelle delle
nazioni che subiscono questa forma invasiva di fariseismo.
25 gennaio 2005
|