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        Meno dittature, meno guerredi Stefano Magni
 [09 feb 05]
 
 Un luogo comune vuole che, finita la Guerra Fredda, siano scoppiate più 
        guerre. Sembra un ossimoro, ma a guardare bene… è veramente un ossimoro. 
        L’argomento di chi sostiene che la situazione internazionale sia 
        precipitata dopo la fine dell’equilibrio del terrore è soprattutto 
        rivolto contro l’attuale politica americana. Si dice che l’esportazione 
        della democrazia, esplicitamente voluta da Bush, non possa produrre 
        altro che una catena di guerre e di instabilità. In effetti, i principi 
        alla base della nuova "dottrina Bush" vanno contro al principio di 
        “stabilità”, che è sempre stato la pietra angolare della politica estera 
        del Dipartimento di Stato e dei ministri degli Esteri americani fino a 
        Powell. La “stabilità” implica il mantenimento dello status quo, il 
        riconoscimento dei governi in carica per evitare sconvolgimenti 
        rivoluzionari, il negoziato per evitare la guerra, perché può sempre 
        causare escalation pericolose.
 
 Durante la Guerra Fredda, a causa della paura delle armi nucleari, la 
        “stabilità” era diventata un dogma, violato solo in pochi casi, 
        soprattutto durante l’amministrazione Reagan. All’inizio degli anni 
        2000, però, con la comparsa di un nemico non governativo, ma annidato 
        dentro Stati che sponsorizzano o tollerano il terrorismo, la “stabilità” 
        è diventata un principio obsoleto, come fa notare lo studioso delle 
        relazioni internazionali Rudolph J. Rummel, professore emerito 
        dell’Università delle Hawaii e candidato al premio Nobel per la Pace nel 
        1996. Raggiungere un accordo diplomatico con un governo, non vuol dire 
        avere trovato la formula giusta per essere più sicuri. Non è mai stato 
        così, ma adesso è ancor più evidente: delle dittature, in particolar 
        modo di quelle che si basano su ideologie rivoluzionarie o fanatiche, 
        non ci si può e non ci si deve fidare. Solo le democrazie sono partner 
        sufficientemente affidabili. Inoltre, stando alle statistiche effettuate 
        dal professor Rummel, il numero di conflitti, sia internazionali che 
        civili, si è visibilmente ridotto dopo la caduta dell’Unione Sovietica: 
        19 conflitti nel 2003, contro i più di 30 conflitti all’anno, di media, 
        all’epoca della “contrapposizione fra blocchi”. I morti in guerra, nel 
        2003, sono circa 20.000: il numero di caduti in battaglia più basso dal 
        1946 ad oggi. E il trend è negativo, nel senso che, di anno in anno, i 
        conflitti si riducono di numero e di intensità.
 
 Non solo: anche la violenza interna agli Stati è diminuita di intensità. 
        Nonostante genocidi di grandi dimensioni, come quello in Sudan o quello 
        in Rwanda siano avvenuti dopo la fine della Guerra Fredda, le politiche 
        di sterminio di massa dei propri cittadini sono state adottate molto 
        meno dagli altri dittatori. Prima della fine della Guerra Fredda, dentro 
        i confini delle dittature venivano assassinate, in media, quasi 2 
        milioni di persone ogni anno. Dopo la fine della Guerra Fredda, questa 
        media è calata a 400.000. E’ ancora un dato drammatico, ma un po’ meno 
        rispetto ai decenni passati. Finché c’erano superpotenze totalitarie, 
        prima fra tutte l’Urss, a garantire l’impunità ai dittattori, finché le 
        relazioni internazionali erano bloccate dal terrore continuo della 
        guerra nucleare, lo sterminio di intere classi o etnie era quasi 
        abituale in tutte le dittature. Adesso, circondati come sono da 
        democrazie, anche i dittatori più sanguinari si sentono, in qualche 
        modo, vincolati, costretti a rispondere ad un’opinione pubblica libera 
        sempre più vicina ai loro confini nazionali.
 
 Tutto ciò non lo si può spiegare con l’azione dell’Onu, che ha ammesso 
        più volte il fallimento delle sue missioni di peace keeping. Il fenomeno 
        della pace e della riduzione della violenza interna agli Stati 
        dittatoriali, si spiega solo con l’aumento delle democrazie e la 
        diminuzione delle dittature. Negli anni ‘50, in piena Guerra Fredda, 
        solo un terzo della popolazione mondiale viveva in Stati democratici, 
        mentre gli altri erano sudditi di dittature autoritarie o di regimi 
        totalitari comunisti. Nel 2003, comprendendo anche la fine dei regimi 
        totalitari in Iraq e in Afghanistan, più della metà della popolazione 
        mondiale vive in Stati democratici: ci sono 120 democrazie nel mondo, di 
        cui ben 89 sono stabili democrazie liberali.
 
 Questa realtà è stata ben compresa sia da Bush che dal nuovo segretario 
        di Stato Condoleezza Rice, almeno stando al discorso presidenziale dello 
        Stato dell’Unione: “L’attacco alla libertà nel nostro mondo ha 
        riaffermato la fiducia nel potere che la libertà ha di cambiare il 
        mondo. Siamo tutti coinvolti in una grande avventura: estendere la 
        promessa della libertà nel nostro Paese, riaffermare i valori che 
        sostengono la nostra libertà e diffondere (nel mondo, ndr) la pace che 
        la libertà porta con sé”.
 
 9 febbraio 2005
 
        
        stefano.magni@fastwebnet.it   |