Libano. La rivoluzione dei cedri
di Federico Punzi*
[01 mar 05]
Omar Karami, il capo del governo libanese filo-siriano, si è dimesso.
Durante il dibattito in Parlamento sull'assassinio, due settimane fa,
dell'ex premier Hariri, migliaia di manifestanti hanno occupato la
piazza antistante chiedendo libertà, sovranità e indipendenza dalla
Siria, che occupa il Libano con migliaia di soldati e con la mano
pesante dei servizi segreti, i «Syrial Killer». Il commento di Damasco
alle dimissioni (definite «un affare interno») è già una vittoria per i
dimostranti. «Il governo avrebbe superato il voto di fiducia, non era
quello che temevano - spiega Jihad al Khazen, professore di Scienze
politiche all'American University di Beirut - ma hanno perso la fiducia
nelle strade, quello è l'imbarazzo. Hanno perso la legittimità e la
credibilità». Le prospettive che si aprono ora, con la Siria che sembra
non reagire, sono estremamente favorevoli. Un nuovo governo che goda
della fiducia delle opposizioni guiderà il Paese alle urne, e questo fa
sperare che saranno elezioni democratiche dalle quali potrà scaturire un
Libano libero, sovrano e democratico (ai confini con Israele!).
Nel frattempo, gli Stati Uniti non perderanno l'occasione per esigere
dalla Siria un ritiro completo. Questo si aspetta la Casa Bianca:
un'occasione perché i libanesi si dotino di un nuovo governo che
rispecchi le diversità nel Paese e organizzi elezioni «libere ed eque» e
prive «di qualsiasi ingerenza straniera». La pressione di Washington su
Damasco in questi giorni è fortissima, perché cessi di appoggiare il
terrorismo internazionale e di fomentare, dal suo territorio, quello in
Iraq, e perché ritiri le proprie truppe dal Libano, in esecuzione della
risoluzione 1559 del Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Nel frattempo,
Bush dall'ufficio ovale si gode l'"effetto domino" innescato in Medio
Oriente dalla guerra contro il terrorismo. Le tessere non fanno che
cadere: dopo le elezioni in Afghanistan, in Palestina e in Iraq, ora
Libano ed Egitto preparano il loro futuro democratico.
L'evidenza delle armi nonviolente
Ma la vera sorpresa dei fatti di ieri è che all'occidente è bastato
sostenere politicamente il popolo libanese per ottenere un risultato
insperato. Ciò che può un popolo che reclama la propria libertà non
possono anni di appeasement e guerre. Sempre tenendo bene a mente che
senza la guerra a Saddam tutto questo non sarebbe mai stato possibile e
che probabilmente quella guerra ne eviterà un'altra, contro il regime
siriano di Assad. Come non ricordare la fede incrollabile espressa dal
presidente Bush, solo poche settimane fa, nella forza dell'universale
desiderio di libertà di tutti i popoli? Come non accorgersi che la
politica estera di questa amministrazione è antimperialista e
anticolonialista? Ancora più sorprendente è il fatto che finora la
«rivoluzione dei cedri» abbia assunto i connotati della nonviolenza,
sebbene sia difficile ipotizzare un'influenza diretta del "modello"
georgiano-ucraino.
Ai soldati che vigilavano la piazza di fronte al Parlamento, e che non
hanno impedito l'ingresso ai manifestanti, sono stati donati fasci di
rose. I leader dell'opposizione hanno fatto appello alla mobilitazione
perpetua. Con al collo una sciarpa rossa e bianca (i colori nazionali
già divenuti simbolo della rivoluzione) i libanesi cantavano, gridavano,
fissavano le tende per la notte. Elias Atallah, dirigente di "Sinistra
democratica", ha annunciato: «Resteremo qui fino al ritiro completo e
immediato dell'esercito e dei servizi segreati siriani». «E' solo il
primo passo verso la libertà, la sovranità e l'indipendenza», si è
sgolato dal palco il deputato di opposizione Ahmed Fat-Fat, membro del
gruppo parlamentare dello scomparso Hariri: «I prossimi tre mesi saranno
cruciali, dovete essere molto vigilanti, gli agenti dei servizi segreti
sono già tra di voi in questa piazza, che non dovrà rimanere mai vuota».
I pre-commenti illustri
In Medio Oriente oggi, secondo quanto scriveva domenica
Thomas Friedman sul New York Times,
«stiamo assistendo a tre momenti di svolta». Le elezioni irachene hanno
trasformato quella storia nella storia di un popolo che lotta per un
futuro democratico, con l'aiuto americano, contro i fascisti baathisti e
i jihadisti. L'attentato per mano siriana che a Beirut ha ucciso l'ex
primo ministro Rafik Hariri ha trasformato quella del Libano nella
storia di un'ampia maggioranza di libanesi, cristiani, musulmani, drusi,
che grida forte alla Siria e ai suoi fantocci "go home!". La storia per
i palestinesi non è più una questione di resistenza all'occupazione, ma
di riuscire a costruire un proprio Stato. Bisogna però lavorare, e
sperare, perché questi tre «punti di svolta» diventino «irreversibili».
Sarebbe «incredibile».
L'ormai ex premier Ayad Allawi scrive sul Wall Street Journal che ora
ciò di cui ha bisogno l'Iraq è l'aiuto dei media affinché il dibattito
sulla nuova Costituzione sia il più pubblico possibile, in Iraq e
nell'intero mondo arabo. Sul neocon Weekly Standard è intervenuto il
direttore-editore Bill Kristol. Mentre
molti opinionisti, anche in Europa e a New York, si stanno chiedendo se
forse Bush e i neocon non abbiano ragione, non è questo il momento di
fermarsi a incassare, ma di andare avanti. E ricorda le parole del
leader dell'opposizione libanese Walid Jumblatt, non certo
filoamericano, al Washington Post: «Se Bush sarà capace di riuscire in
Iraq, cacciare la Siria dal Libano, minare il regime dei mullah in Iran,
allora gli storici diranno: Bush aveva voluto combattere - e Bush ha
avuto ragione... Nella nuova era nella quale viviamo, il 30 gennaio
scorso potrebbe essere un momento chiave - forse il momento chiave
finora - nel giustificare la dottrina Bush come la giusta risposta
all'11 settembre. E ora c'è la prospettiva di un progresso ulteriore e
in accelerazione».
L'editoriale
di Jackson Diehl sul Washington Post è anche emblematico:
«Come migliaia di arabi hanno manifestato per la libertà e la democrazia
a Beirut e al Cairo la scorsa settimana, e i dittatori disperati di
Siria ed Egitto si sono dimenati sotto le pressioni interne e
internazionali, è difficile non credere che quella trasformazione
regionale, che l'amministrazione Bush sperava che si avviasse
dall'invasione dell'Iraq, sia cominciata».
Da 40 o 50 anni questi due regimi, Siria ed Egitto, vivevano
indisturbati, mentre ora, dopo le elezioni irachene tremano e non
possono neanche osare la via della repressione, che avrebbe il solo
risultato di accelerare la loro caduta. Come se lo spiegano quanti hanno
gridato alla catastrofe imminente per la guerra in Iraq o considerato
folle l'idea di democratizzare il Medio Oriente? Quei regimi «potrebbero
ancora sopravvivere, ma chiaramente, gli autocrati arabi non guardano al
sogno di Bush del domino democratico come un'illusione».
01 marzo 2005
f.punzi@radioradicale.it
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Federico Punzi è il titolare del blog
JimMomo
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