Il vento dell’89 soffia anche sul Kirghizistan
di Stefano Magni
[04 mar 05]
Il Kirghizistan, il più orientale dei Paesi ex sovietici, era
considerato un’isola di democrazia in un mare di dittature, stretto
com’è fra la Cina comunista, due regimi totalitari dell’Asia Centrale
(Uzbekistan e Tagikistan) e un Kazakhstan perennemente in bilico fra
democrazia e dittatura. Il presidente Askar Akayev aveva vinto le prime
libere elezioni dopo la secessione dall’Unione Sovietica nel 1991,
battendo clamorosamente il candidato comunista. Ingegnere, ex membro del
Comitato Centrale del Partito Comunista locale e poi deputato popolare
del Soviet Supremo sovietico, Akayev si era presentato da subito come un
leader riformatore, liberale e filo-occidentale. Nel 2001 il
Kirghizistan era anche entrato a far parte della coalizione contro il
terrorismo, garantendo alla Nato l’uso della base aerea di Ganci, nei
pressi della capitale Bishkek. Adesso, tuttavia, lo scenario che si
presenta agli occhi dell’opinione pubblica mondiale, è molto lontano da
quello di una democrazia: il presidente è riluttante a cedere il potere,
l’opposizione viene intimidita, una rivoluzione cova sotto le ceneri.
Gli argomenti usati da Akayev contro la sua opposizione sono tipicamente
russi e anti-occidentali: “Dobbiamo respingere quelle forze politiche
che vogliono replicare le rivoluzioni scoppiate in Georgia e in Ucraina,
alimentate da gruppi finanziari occidentali”. Per insultare i membri dei
partiti e dei movimenti anti-presidenziali, i sostenitori dell’esecutivo
dipingono dei dollari arancioni sui muri delle loro case: il simbolo
dispregiativo di una rivoluzione che, secondo loro, è alimentata da
mercenari al soldo dell’Occidente. Stessa ostilità è riservata agli
osservatori dell’Osce: “Non vogliamo che gli osservatori stranieri si
trasformino in supervisori.” – aveva dichiarato Akaev poco prima delle
elezioni – “In Ucraina abbiamo visto che sono diventati gli
organizzatori della Rivoluzione Arancione. Non possiamo permettere che
ciò avvenga anche nella nostra Repubblica”. Il 27 febbraio scorso si è
votato per il primo turno delle elezioni parlamentari. Il secondo turno
è previsto per il prossimo 13 marzo e già sono in corso repressioni,
praticamente in tutto il Paese. Una granata è stata lanciata
nell’appartamento (vuoto) della leader più popolare dei partiti di
opposizione, Roza Otunbaeva, ex ministro degli esteri e vice-presidente
del partito Ata-Jurt (Patria): un gesto che è stato interpretato come
una chiara intimidazione governativa.
Già nei giorni precedenti il primo turno elettorale, la pressione delle
autorità kirghise sull’opposizione era stata molto forte: la Media
Support Center Foundation, che fungeva da editore per quotidiani
indipendenti e prodotti commerciali, è stata letteralmente oscurata (nel
senso che è stata staccata la corrente ai suoi locali) per volontà delle
autorità. L’emittente locale di Radio Free Europe, Azattyk, è stata
anch’essa chiusa tre giorni prima delle elezioni. Immediatamente dopo la
tornata elettorale, sono stati chiusi anche vari siti dell’opposizione.
Dall’altra parte, l’opposizione ha adottato metodi nonviolenti e
democratici. Sembra di assistere, insomma, ai prodromi di una
rivoluzione di velluto, sul modello di quelle che hanno rovesciato i
regimi di altre due ex repubbliche sovietiche: la “Rivoluzione rosa”
scoppiata in Georgia nel novembre del 2003 e la “Rivoluzione arancione”
del novembre 2004 in Ucraina. Quella che potrebbe iniziare nel
Kirgizistan da un momento all’altro, è una rivoluzione che ha già il suo
colore: il giallo, che caratterizza l’uniforme e le bandiere della nuova
opposizione. L’anima di questa protesta è costituita dal movimento
giovanile KelKel, che si richiama a valori liberali, per una maggior
garanzia dei diritti individuali. Il movimento ha contatti informali con
il movimento democratico Pora in Ucraina e intende esportare la
rivoluzione democratica anche in Kazakhstan. Volontari ucraini stanno
spiegando ai giovani oppositori locali come curare e proteggere i loro
siti Internet, come trattare con le autorità, come organizzare la
sicurezza, come apparire nei media. A loro volta, i giovani militanti
kirghisi terranno corsi estivi per sensibilizzare altri giovani meno
impegnati. Quando la leader di Ata-Jurt, Roza Otunbaeva, venne esclusa
dalla competizione elettorale, KelKel aveva manifestato pacificamente
offrendo dei limoni ai passanti. La risposta delle organizzazioni
giovanili filo-presidenziali era stata molto violenta: “Ci sfidano con i
limoni, noi li spremeremo”.
Ma come mai un presidente che è sempre stato considerato democratico e
liberale (sia pure con un passato comunista) rischia di fare la stessa
fine di leader post-comunisti, come Shevardnadze in Georgia e Kuchma in
Ucraina? Nell’ultimo decennio, a partire dalla riconferma di Akayev alla
carica presidenziale nel 1995, è incominciata una lenta trasformazione
del paese da democrazia ad regime autoritario. La costituzione rimane
liberale e garante dei diritti individuali, ma l’esecutivo pesa sempre
di più sulle altre istituzioni, sui media e sulla società civile in
generale. La struttura della società tradizionale kirghisa, fondata su
clan familiari, ha evidentemente influito anche sul governo. Secondo
fonti vicine all’opposizione, le privatizzazioni, di fatto si sono
trasformate in concessioni di aziende statali a parenti e clienti della
famiglia presidenziale.
La stessa figlia del presidente, Bermet Akaeva, è candidata alle
elezioni parlamentari nel suo distretto universitario e testimonianze
raccolte dai reporter di Radio Free Europe riferiscono che gli studenti
sono costretti a votarla con pressioni e minacce da parte di polizia e
insegnanti. I tratti caratteristici asiatici del paese sono diventati
una sorta di vanto e minaccia nella propaganda presidenziale: “La gente
che pensa di organizzare una rivoluzione di velluto nel nostro paese” –
aveva dichiarato il presidente Akaev in un’intervista rilasciata alla
Nezavisimaia Gazeta – “deve tener conto del tratto distintivo della
regione centro-asiatica. Quei movimenti che vogliono cambiare il
governo, qui possono provocare una guerra civile. Una rivoluzione in
Asia Centrale non sarà così incruenta come in Georgia o in Ucraina. Quei
Paesi hanno una cultura europea. Noi Kirghisi siamo nomadi”.
04 marzo 2005
stefano.magni@fastwebnet.it |