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		Kirghizistan: il popolo insorge, Akayev in fugadi Stefano Magni
 [24 mar 05]
 
 In Kirghizistan è scoppiata una rivoluzione tutt’altro che di velluto. 
		Lo schema degli eventi è analogo a quello già visto in Georgia e poi in 
		Ucraina: elezioni palesemente e pesantemente truccate, che confermano la 
		vittoria dei partiti di governo, a cui però gli elettori si ribellano. 
		In questo caso, però, non si assiste a manifestazioni pacifiche, ad 
		occupazioni di spazi pubblici da parte di disciplinate folle mobilitate 
		dall’opposizione, ma a scontri violenti con la polizia. Sembra, insomma, 
		che l’ala nonviolenta dell’opposizione, rappresentata soprattutto dal 
		movimento giovanile KelKel e da quello dell’ex ministro degli Esteri 
		Roza Otunbaeva, non abbia prevalso. Già prima del secondo turno 
		elettorale per le elezioni parlamentari, il 4 marzo, la folla si era 
		impossessata con la forza degli edifici amministrativi della città di 
		Osh, nel Sud del paese. Il 18 marzo, poco dopo le elezioni, era 
		scoppiata un’insurrezione analoga a Jalal Abad (sempre nel Sud). Il 
		giorno successivo, Osh si era data una nuova amministrazione, capitanata 
		dall’uzbeko Anvar Artykov, eletto “governatore del popolo” dalla piazza.
 
 La polizia è intervenuta ad Osh e a Jalal Abad, ma la folla ha risposto 
		incendiando la stazione di polizia a Jalal Abad, bersagliando i 
		poliziotti con pietre e bombe molotov, bloccando le autostrade e 
		l’aeroporto locale per impedire l’afflusso dei rinforzi. Non è un caso 
		che l’insurrezione sia scoppiata nel Sud. Dall’indipendenza in poi, il 
		paese è sempre stato governato, da una classe politica (prevalentemente 
		post-comunista) proveniente dalle regioni più industrializzate del Nord. 
		Lo stesso Askar Akayev proviene dalle file di quella classe dirigente. Il 
		Sud, agricolo e molto tradizionalista, si è sempre visto escludere dalle 
		stanze dei bottoni: una condizione che è diventata sempre più sentita 
		dalla popolazione locale, man mano che aumentava il potere nelle mani 
		del governo centrale e il controllo statale sull’economia, il trend che 
		ha caratterizzato la politica di Akayev dal 1995 ad oggi. A questo 
		problema, prevalentemente economico, se ne aggiunge un altro etnico: nel 
		Sud c’è una forte minoranza uzbeca che non ha mai visto di buon occhio 
		il governo di Akayev e il suo nazionalismo kirghiso.
 
 Questo cocktail di frustrazioni, tensioni a lungo trattenute e 
		insoddisfazione, è scoppiato. La scintilla che l’ha fatto scoppiare sono 
		state le elezioni. Una volta partito, il movimento insurrezionale si è 
		esteso anche nella capitale, fino all’occupazione violenta del palazzo 
		del governo a Bishkek il 24 marzo da parte di una folla di 10mila 
		manifestanti. Akayev è costretto alla fuga alla volta del Kazakhstan, 
		dove pare abbia chiesto asilo politico al presidente Nazarbaev, suo 
		parente. L’idea che l’opposizione democratica non-violenta abbia perso 
		il controllo della situazione, per lo meno nella prima settimana di 
		scontri, non è del tutto fuori luogo. Emir Aliev, il leader del 
		movimento di opposizione Ar Namys (Dignità), ha rilasciato un’intervista 
		a Radio Free Europe in cui tradiva un certo imbarazzo: “Non appena 
		abbiamo incominciato a ricevere i primi rapporti, non ancora confermati, 
		di saccheggi e violenze, abbiamo inviato ordini in tutte le regioni. 
		Abbiamo parlato con i nostri attivisti e fatto appello alla gente per 
		farli astenere dal compiere atti di violenza”.
 
 Il movimento giovanile KelKel e la Otunbaeva stavano preparando sì 
		un’opposizione determinata e un movimento non-violento sul modello di 
		quello ucraino, ma la macchina doveva essere pronta ad entrare in gioco 
		solo in occasione delle prossime elezioni presidenziali, previste per 
		l’autunno del 2005. Quando l’insurrezione spontanea si è estesa fino a 
		Bishkek, però, corrispondenti riferiscono che Roza Otunbaieva e un altro 
		leader dell’opposizione, Kurnmanbek Bakiev, sono entrati nel palazzo 
		occupato, accolti trionfalmente dagli insorti. I due leader non-violenti 
		hanno deciso di cavalcare l’onda di una rivolta che non avevano 
		previsto? È ancora troppo presto per poterlo affermare. Comunque sembra 
		proprio che la presa di tutti i punti chiave della capitale kirghisa e 
		la fuga del presidente abbiano posto fine al regime di Akayev senza 
		ulteriori spargimenti di sangue. In questo caso la rivoluzione si 
		sarebbe conclusa in modo molto rapido e al prezzo di pochi feriti.
 
 Il rischio aperto da un’insurrezione così imprevedibile era soprattutto 
		quello di un intervento russo. Mosca, dopo la sconfitta subita in 
		seguito alla Rivoluzione Arancione, si era mostrata molto più riluttante 
		ad un intervento. Le autorità russe avevano avviato anche un certo 
		dialogo con l’opposizione, accettando un incontro con Roza Otunbaeva 
		prima delle elezioni. Ma il Cremlino e la Duma avevano cambiato 
		atteggiamento dopo i disordini scoppiati ad Osh e a Jalal Abad. Il 
		portavoce del partito nazionalista Rodina, alla Duma, Dimitri Rogozin, 
		aveva chiesto un intervento “di forza fisica”, paradossalmente per 
		“evitare un bagno di sangue”. Anche il ministro degli Esteri russo, nel 
		suo sito web, il 21 marzo aveva invitato gli osservatori dell’Osce a 
		“non fornire giustificazioni legali ad azioni illecite di elementi 
		distruttivi”. L’analista Stanislav Belkovskij, direttore dell’Istituto 
		Nazionale di Strategia, parlava chiaramente di decadenza del ruolo russo 
		nella Csi e sosteneva che quest’ultima avrebbe dovuto essere sciolta nel 
		caso di una vittoria della rivoluzione in Kirghizistan. L’analista 
		concludeva: “Se la Russia vuole avere nel Kirghizistan un partner di 
		lungo periodo, il Cremlino deve stare decisamente dalla parte del 
		presidente Akayev”. Ma adesso che Akayev è fuggito i giochi cambiano, 
		perché un intervento russo non sarebbe più un sostegno ad un governo 
		riconosciuto legalmente, ma una vera e propria invasione.
 
		
        24 marzo 2005
 stefano.magni@fastwebnet.it
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