Cina: lo spettro del nazionalismo comunista
di Enzo Reale*
[10 apr 05]
Una
petizione online riunisce ventidue milioni di firme contro la
prospettiva di un seggio permanente per il Giappone nel Consiglio di
Sicurezza ONU; manifestazioni in diverse città si concludono con
l'assalto ai negozi che distribuiscono prodotti giapponesi; si comincia
a parlare con insistenza di boicottaggio; e sabato a Pechino erano in
migliaia a marciare sull'ambasciata. Il tutto negli ultimi quindici
giorni e sotto gli occhi di un regime che anche quest'anno Freedom
House ha inserito nella graduatoria dei più repressivi del pianeta:
quello cinese. In un paese in cui non si muove foglia che il Partito non
voglia, è lecito chiedersi: cosa succede tra Pechino e Tokyo?
Succede che il
governo cinese, preoccupato per la crisi delle vocazioni ideologiche, ha
preso a soffiare sul fuoco già acceso del nazionalismo e a farne le
spese è stato il nemico storico.
Non è un caso che
i protagonisti di questa ondata di risentimento siano soprattutto i
giovani, quelli che dell'espansionismo nipponico e dell'invasione del
loro paese hanno letto solo sui libri della propaganda e che nelle nuove
tecnologie, seppur tra divieti e censure, hanno trovato un'inattesa
opportunità di espressione. Tre portali molto popolari in Cina - Sohu,
Sina e Netease - hanno coordinato la raccolta firme senza che, per una
volta, la cyber-polizia intervenisse: agli internauti non è
sembrato vero di poter aderire a un documento di carattere politico al
riparo da ritorsioni. E anche i disordini di Chengdu, Shenzhen e
Shenyang - così come la protesta nella capitale - sono stati organizzati
da quella che il giapponese Daily Yomiuri ha definito "la
generazione patriottica", formata da ragazzi tra i venti e i trent'anni
educati secondo i dettami dell'ideologia nazionalista che da Tiananmen
in poi il regime ha deciso di promuovere.
Alla base dell'odio
anti-giapponese (espressione molto diffusa tra i giovani cinesi) c'è
la radicata - e in larga misura errata - convinzione secondo la quale il
Giappone non avrebbe mai chiesto scusa per la sua aggressione del 1937 e
per i crimini di guerra perpetrati. Ma ad alimentare la tensione ha
contribuito anche la recente pubblicazione dei nuovi libri di testo per
le scuole del Sol Levante che dipingono la Cina come responsabile della
prima guerra scoppiata tra le due nazioni (1894-95) e che definiscono le
prove sul massacro di Nanchino (1937) come "inconcludenti" e ancora
"oggetto di dibattito". La visita del premier Koizumi al tempio di
Yasukuni - per i giapponesi un omaggio ai caduti, per i cinesi un
simbolo di imperialismo - e le rivendicazioni del governo di Tokyo sulle
isole Senkaku hanno fornito ulteriori pretesti per accendere gli animi.
Ma segnali che la
situazione si è spinta oltre i limiti del consentito sono arrivati negli
ultimi giorni dallo stesso Partito Comunista Cinese che, dopo un lungo
silenzio ufficiale da interpretarsi come tacita approvazione, ha
ordinato ai mezzi di comunicazione di cessare la copertura delle
manifestazioni e ai giornalisti di non intervistare i partecipanti.
Pechino si trova di fronte a un triplice rischio: il Giappone è il
quarto paese per investimenti in terra cinese con un volume complessivo
superiore ai 350 miliardi di yen e una crisi nelle relazioni commerciali
avrebbe conseguenze enormi; il ruolo della Cina come attore sullo
scenario internazionale risulterebbe alla lunga profondamente
pregiudicato da una contesa particolaristica e dal sapore provinciale
come quella in atto; infine, ma forse il fattore più importante di
tutti, nessuno è in grado di garantire che le proteste popolari -
permesse o addirittura incoraggiate se anti-giapponesi - non sfuggano al
controllo e si traducano in una minaccia per il potere costituito.
Allo stesso tempo
la cupola comunista di Zhongnanhai ha necessità di continuare a giocare
la carta del nazionalismo per due ragioni principali: aumentare la
coesione intorno al Partito (e quindi allo Stato) di una popolazione
immensa sempre più difficile da controllare e definire a proprio favore
gli equilibri geo-strategici dell'area. Impedire al Giappone di contare
di più in sede ONU è fondamentale per garantire alla Cina un ruolo
politico dominante e potenzialmente esclusivo nel contesto asiatico ma
risponde anche all'esigenza di canalizzare le crescenti tensioni interne
dirigendole altrove.
Ufficialmente la
Cina non ha ancora espresso la sua opposizione al seggio giapponese,
sponsorizzato da Washington. ll suo rappresentante alle Nazioni Unite,
Wang Guangya, si è limitato a far sapere che preferirebbe un modello
alternativo per l'allargamento del Consiglio di Sicurezza e che, in ogni
caso, ogni proposta di cambiamento dovrebbe essere approvata
all'unanimità da tutti i paesi membri. Un modo elegante per paralizzare
ogni riforma.
Sarà interessante
osservare come il regime giocherà la doppia partita sul fronte
internazionale e su quello interno. Intanto, per non sbagliarsi, le
autorità hanno fatto ritirare dalla circolazione due libri dello storico
Yu Jie che negli ultimi quattro mesi avevano venduto cinquantamila
copie: parlavano delle relazioni sino-giapponesi e invitavano i cinesi a
conoscere il Giappone moderno prima di odiarlo. Propaganda
controrivoluzionaria.
10 aprile 2005
enzreale@gmail.com
* Enzo
Reale è il titolare del blog
1972 |