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		Perché l’Onu 
		non funzionadi Rodolfo Bastianelli
 [12 apr 05]
 
        
		Si è molto discusso in questi ultimi 
		mesi della riforma delle Nazioni Unite e soprattutto del ruolo che 
		queste dovrebbero assumere nel mantenimento della sicurezza e della pace 
		nel mondo. Questa istituzione, che in Italia gode di un prestigio e di 
		una considerazione maggiore che altrove, continua da noi ad essere vista 
		come l’unica organizzazione in grado di assicurare la stabilità 
		internazionale ed a cui demandare ogni decisione in merito agli 
		interventi militari data la sua autorità morale e giuridica. Al 
		contrario invece, come si cercherà qui di seguito di analizzare, questa 
		istituzione versa oggi in una profonda crisi d’identità e non appare in 
		grado di poter assolvere i suoi compiti per una diversa serie di 
		ragioni.
 Il deficit democratico dell’Organizzazione
 
 Se osserviamo i 190 Stati che compongono le Nazioni Unite, una parte 
		significativa di questi manca del tutto o in parte dei requisiti per 
		poter essere definiti democratici ed Stati di diritto. Leggendo il 
		rapporto di “Freedom House”, un’organizzazione americana indipendente 
		incaricata di monitorare il grado di libertà esistente nei vari paesi, 
		emerge come un terzo dei suoi membri siano delle autentiche dittature e 
		per questo classificati come “non liberi” e privi quindi di qualunque 
		standard democratico, ed un altro terzo venga definito come 
		“parzialmente libero”, ovvero con istituzioni statali che garantiscono 
		solo in parte i diritti politici e le libertà fondamentali ai propri 
		cittadini. Ed è questo il punto che forse indebolisce in maniera 
		determinante la pretesa dell’Onu di assumere la funzione di garante 
		della pace e della stabilità nel pianeta. Perché il maggior paradosso 
		delle Nazioni Unite sta proprio nel fatto che Stati autoritari assai 
		poco rispettosi della democrazia entro i loro confini, all’interno 
		dell’Organizzazione si trasformano in severi censori delle azioni 
		altrui, soprattutto se vi sono coinvolti gli Stati Uniti o i loro 
		alleati. Emblematico in proposito è quanto accaduto nei confronti di 
		Israele negli anni Settanta e Ottanta, quando l’Assemblea Generale votò 
		una serie di mozioni in cui si condannava il comportamento del governo 
		di Gerusalemme per il mancato rispetto delle risoluzioni Onu ma senza 
		che fosse mai pronunciata una parola contro il terrorismo palestinese 
		per i suoi attacchi compiuti contro cittadini israeliani. La poca 
		democraticità di molti membri delle Nazioni Unite dovrebbe quindi far 
		riflettere chi ritiene l’Onu l’unica istituzione dotata di autorità per 
		decidere gli interventi militari.
 
 Ma aldilà del fatto che far dipendere una decisione dal voto di 
		dittature o regimi autoritari non è certo giustificabile da un punto di 
		visto etico, in un quadro simile affidare alle Nazioni Unite la gestione 
		della sicurezza internazionale pone anche delle implicazioni politiche e 
		giuridiche quanto mai rilevanti. Gli esempi seguenti, uno concreto e 
		l’altro teorico, illustrano bene questa eventualità. Durante la crisi 
		del Kosovo del 1999, il Consiglio di Sicurezza non riuscì a prendere 
		nessuna decisione nei confronti della Serbia, che stava portando avanti 
		nella regione un’operazione di “pulizia etnica” contro gli albanesi, per 
		la contrarietà della Russia ad ogni risoluzione che autorizzasse l’uso 
		della forza contro Belgrado. In quel caso se si fosse lasciata la 
		questione nelle mani delle Nazioni Unite, con ogni probabilità queste 
		sarebbero state impossibilitate a prendere una decisione e Milosevic 
		avrebbe continuato a portare avanti la sua politica repressiva nei 
		confronti della popolazione albanese. L’altro esempio invece è 
		ipotetico, ma si riallaccia comunque al discorso che era stato prima 
		introdotto. All’interno del Consiglio di Sicurezza è presente come 
		membro permanente - e quindi con diritto di veto - la Cina Popolare, che 
		non solo è stata da più parti fortemente criticata per la violazione dei 
		diritti umani, ma che ha un contenzioso aperto con Taiwan, considerata 
		da Pechino una sua provincia e contro la quale il governo cinese ha 
		sempre affermato di essere pronto ad usare la forza nel caso questa 
		dovesse proclamarsi indipendente. Cosa succederebbe allora se Pechino 
		effettuasse un attacco contro l’isola ? Se si volesse rimanere al 
		principio che solo l’ONU ha l’autorità per decidere, in questa 
		circostanza il Consiglio di Sicurezza vedrebbe bloccata la sua attività 
		dal veto imposto dalla Cina Popolare, con la conseguenza che 
		l’intervento, pur essendo contrario ai principi del diritto 
		internazionale, non darebbe luogo a nessuna risposta dell’Organizzazione 
		in quanto questa non sarebbe autorizzata ad intervenire data 
		l’impossibilità di approvare una risoluzione.
 
 La mancanza di una forza militare
 
 Priva di una forza militare autonoma utilizzabile in caso d’intervento, 
		l’Onu deve fare affidamento sul contributo dei diversi Stati membri, tra 
		i quali, però, ben pochi dispongono di eserciti qualitativamente e 
		quantitativamente capaci di impegnarsi in missioni al di fuori dei loro 
		confini. E questo ci riporta a quanto detto prima riguardo agli standard 
		democratici degli Stati che compongono le Nazioni Unite. Gran parte dei 
		membri dell’Organizzazione dispone di forze armate la cui affidabilità 
		per partecipare ad operazioni internazionali è quanto mai dubbia, visto 
		che queste spesso sono o delle “gendarmerie interne” utilizzate nel 
		proprio paese in compiti di polizia e repressione della dissidenza, 
		oppure costituiscono solo uno strumento del partito o del gruppo etnico 
		al potere. Un’altra questione riguarda poi il sistema di comando delle 
		operazioni militari decise dalle Nazioni Unite. E qui va fatta una 
		distinzione tra missioni di peace-keeping ed operazioni che implicano 
		l’uso della forza attuate in risposta ad un’aggressione subita da uno 
		dei membri dell’Organizzazione o a gravi violazioni dei principi del 
		diritto internazionale. Nelle operazioni di questo tipo fin qui decise, 
		il sistema adottato è stato quello di far assumere direttamente il 
		comando all’Onu, come fu nel caso della missione “Restore Hope” in 
		Somalia, oppure di istituire un contingente militare internazionale 
		ponendolo però sotto la responsabilità di un’organizzazione per la 
		sicurezza regionale come la Nato, soluzione questa adottata con la Kfor 
		in Kosovo, la Sfor e l’Ifor in Bosnia e l’Isaf in Afghanistan, o di uno 
		degli Stati membri, come avvenne con gli Stati Uniti in occasione 
		dell’intervento attuato contro l’Iraq nel 1991.
 
 Queste ultime due soluzioni appaiono oggi le sole praticabili, in quanto 
		è del tutto irrealistico pensare che Washington accetterebbe di porre le 
		proprie truppe sotto il comando di un altro paese, indipendentemente 
		dall’orientamento politico di qualsiasi Presidente americano. Riguardo 
		invece alle missioni di interposizione va detto come la loro efficienza 
		risulti indebolita dalla limitatezza dei compiti assegnatigli, visto che 
		il mandato attribuisce alle forze dell’Onu esclusivamente funzioni di 
		osservazione non disponendo queste né del potere di imporre alle parti 
		l’applicazione di quanto contenuto nelle risoluzioni, né di usare la 
		forza al di fuori dei casi di autodifesa. Questi limiti sono apparsi 
		evidenti soprattutto nel caso delle missioni in Ruanda e Bosnia, 
		entrambe fallite nei loro scopi proprio per il fatto che i reparti 
		dell’Onu si sono limitati al ruolo di osservatori non avendo l’autorità 
		per svolgere un ruolo attivo nelle crisi. La stessa affermazione secondo 
		cui i reparti delle Nazioni Unite sarebbero meglio accettati di altre 
		forze militari va poi decisamente ridimensionata. Emblematico in 
		proposito è quanto accaduto in Bosnia, dove l’Unprofor è stata spesso 
		accusata da croati e musulmani di inefficienza e parzialità verso i 
		serbi e per questo guardata con sfiducia dalle popolazioni locali. Nel 
		caso bosniaco inoltre si è aggiunto il vergognoso comportamento tenuto 
		dai caschi blu al momento dell’eccidio di Srebrenica, una delle pagine 
		più nere nella storia dell’Organizzazione. Sempre sul piano 
		dell’immagine, la credibilità delle Nazioni Unite è stata ulteriormente 
		offuscata anche dagli scandali nei quali in questi ultimi anni sono 
		rimasti coinvolti diversi suoi funzionari, primo fra tutti quello 
		relativo alla gestione dei fondi del programma “Oil for Food” per 
		l’Iraq.
 
 La lentezza nei processi decisionali
 
 Ad indebolire l’efficienza delle Nazioni Unite contribuiscono però non 
		solo i bassi standard democratici di molti suoi membri e la mancanza di 
		una forza militare d’intervento, ma anche ragioni esclusivamente 
		politiche come l’estrema lentezza che caratterizza i processi 
		decisionali all’interno del Consiglio di Sicurezza. Come sono 
		attualmente strutturate, le Nazioni Unite possono disporre solo di 
		un’azione d’intervento successivo e di una funzione di assistenza civile 
		nella ricostruzione delle istituzioni politiche di quei paesi dove sono 
		chiamate ad intervenire, ma non di un potere di risoluzione preventivo 
		delle situazioni potenzialmente pericolose per la sicurezza 
		internazionale. La procedura di voto all’interno del Consiglio di 
		Sicurezza, che attribuisce a Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Russia 
		e Cina Popolare il diritto di veto sulle risoluzioni presentate, 
		costringe, infatti, a laboriosi negoziati e discussioni per rendere i 
		testi accettabili ai cinque membri permanenti, cosa che non solo 
		comporta un ritardo nei tempi d’approvazione ma anche il rischio di 
		ammorbidire i toni delle risoluzioni, privandole di qualsiasi misura 
		coercitiva qualora non venissero rispettate dalle parti o, peggio 
		ancora, di non riuscire a raggiungere nessun accordo sul testo da 
		presentare davanti al Consiglio di Sicurezza. Il recente caso della 
		crisi nel Darfur, in Sudan, è in proposito altamente significativo.
 
 Pur essendo evidenti le responsabilità del governo sudanese, i testi 
		delle risoluzioni hanno dovuto essere più volte riscritti, sfumando il 
		riferimento ad eventuali interventi internazionali proprio per evitare 
		che la Cina Popolare, principale partner petrolifero di Khartoum, 
		ponesse il suo veto all’interno del Consiglio di Sicurezza. E questo 
		mentre gli eccidi delle popolazioni locali da parte delle milizie 
		sudanesi continuavano indisturbati. I difetti delle Nazioni Unite sono 
		quindi strutturali e non risolvibili attraverso una riforma del 
		Consiglio di Sicurezza che, includendo nuovi Stati membri con diritto di 
		veto, finirebbe solo per complicare ulteriormente il varo di ogni 
		decisione. Terminata la Guerra Fredda, l’ONU forse non ha saputo 
		comprendere appieno che le nuove minacce alla sicurezza internazionale 
		come il terrorismo globale andavano affrontati con mezzi e mentalità 
		diverse. Perché senza una forza militare di deterrenza e con processi 
		decisionali lenti e privi di quella rapidità oggi necessaria per far 
		fronte alle continue emergenze, le Nazioni Unite non possono avere un 
		ruolo determinante nella gestione delle crisi internazionali.
 
		
		12 aprile 2005 
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