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		Perché una guerra all’Iran non è possibiledi Andrea Gilli*
 [01 set 05]
 
 A fine agosto le autorità iraniane hanno deciso di rimuovere i sigilli 
		dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica dalla centrale 
		nucleare di Isfahan, interrompendo così le trattative con l’Unione 
		Europea e quindi con la comunità internazionale. La svolta ha fatto 
		salire immediatamente la tensione: da una parte si è alzata la fazione 
		del pacifismo preventivo (il cui unico e incontrastato esponente sembra 
		ormai essere il cancelliere tedesco Gerhard Schroeder), dall’altra 
		quella dei fautori di un nuovo attacco, anch’esso preventivo, volto ad 
		impedire all’Iran di dotarsi di armi nucleari. I primi non vanno neanche 
		presi in considerazione. I secondi, invece, per quanto affrontino la 
		questione, non considerano i problemi che scaturirebbero da un 
		intervento militare. La storia ci insegna che non è mai stato possibile 
		impedire ad un paese di entrare in possesso di armi nucleari attraverso 
		l’uso della forza: lo stesso attacco al reattore nucleare iracheno di 
		Osirak (effettuato nel 1981 dall’IAF israeliana) interruppe ma non 
		bloccò i piani del regime di Saddam Hussein.
 
 Tant’è che ancora nel 2003, alla vigilia della guerra, si temeva 
		l’esistenza di un programma nucleare segreto. La soluzione del problema 
		venne quindi semplicemente rimandata. Come scrivono due insigni 
		studiosi, l’unico modo per imporre ad un paese l’abbandono dei suoi 
		progetti nucleari è l’occupazione militare: un’alternativa che però è 
		costosa e non perpetrabile all’infinito. (S. Sagan and K. Waltz, The 
		Spread of Nuclear Weapons, 1995/n.e. 2002). Dall’altra parte, 
		invece, la storia ci dice che se solo un mezzo ha funzionato contro la 
		proliferazione nucleare: la diplomazia (K. Campbell, R. Einhorn e M. 
		Reiss, (eds.), The Nuclear Tipping Point, 2004). Che infatti ha 
		ottenuto numerosi successi: Taiwan, Corea del Sud, Giappone, Germania, 
		Turchia, Arabia Saudita, ed Egitto, solo per citarne alcuni.
 
 Perché non possiamo attaccare
 
 Se la storia suggerisce cautela, la realtà dell’Iran la invoca. L’Iran 
		ha 15 basi nucleari conosciute e sparse su tutto il territorio nazionale 
		(guardare la cartina). Al di là della tattica da seguire (ricorso ad una 
		sola base ovvero sfruttamento della decina di basi militari americane 
		situate nei paesi circostanti per portare a termine l’operazione 
		militare), è impossibile pensare di poter attaccare simultaneamente 
		tutti i siti nucleari. Ciò significa, in altre parole, che un attacco 
		aereo non garantisce assolutamente il successo dell’operazione (e di ciò 
		ne sono ovviamente ben consapevoli al Pentagono). L’unica alternativa 
		per interrompere il programma nucleare iraniano consisterebbe dunque in 
		quella indicata (ma vivamente sconsigliata) da Waltz e da Sagan: 
		l’occupazione militare. Si invade il paese, si distruggono le sue basi 
		nucleari e lo si occupa per evitare che il programma nucleare continui. 
		Bisogna chiedersi se tale ipotesi sia fattibile.
 
 L’Iran ha una superficie terrestre di 1.648 milioni di km quadrati e una 
		popolazione di 70 milioni di abitanti. L’Iraq è un quarto dell’Iran, e 
		la sua popolazione si ferma a 26 milioni di persone. Il più grande paese 
		europeo, la Germania, ha una superficie di 357.021 km quadrati. Per 
		pareggiare la superficie iraniana sono necessarie invece Germania, 
		Francia, Spagna e Polonia insieme (cioè i quattro più grandi paesi 
		dell’Europa continentale). Questi dati indicano chiaramente quanto 
		pesante sarebbe lo sforzo militare: in Iraq ci sono 160.000 soldati 
		americani, e le province ribelli sono soltanto tre. Pensiamo a quanti ne 
		servirebbero in un territorio quattro volte più vasto e con una 
		popolazione tre volte superiore. Senza contare che con gli attuali 
		impegni in Iraq e in Afghanistan, gli Stati Uniti non possono impegnarsi 
		ulteriormente.
 
 La lezione irachena
 
 La guerra in Iraq, e soprattutto i suoi errori, possono risultare molto 
		utili per capire come affrontare l’Iran. In Iraq gli Stati Uniti si sono 
		assicurati l’appoggio più o meno diretto di sciiti e curdi (l’80 per 
		cento della popolazione). In Iran le minoranze etniche e religiose (che 
		comunque sono numericamente insignificanti) hanno invece già dato prova 
		della loro fedeltà al regime (è il caso, per esempio, della regione 
		araba del Khuzekistan durante la guerra contro l’Iraq). A differenza 
		dell’Iraq, dove il sostegno al regime proveniva da legami etnici 
		tribali, in Iran il sostegno al regime proviene è di tipo 
		socio-religioso e di natura economica: tramite il welfare islamico (uno 
		dei pochi casi di efficienza iraniana), lo Stato riesce infatti a 
		raccogliere le simpatie di una parte non indifferente della popolazione 
		(soprattutto nei quartieri più poveri delle città e nelle campagne).
 
 Basti, infine, quest’ultimo dato: le forze militari iraniane contano 
		350.000 effettivi, alle quali vanno aggiunti 120.000 pasdaran, 90.000 
		basij e 5.000 uomini delle Forze Quds (per lo più addestrati come agenti 
		dei servizi segreti) (Anthony H. Cordesman, The Military Balance in 
		The Middle East, 2004, e The Iranian Military Capabilities, 2005). 
		E’ evidente che costoro non scenderanno in campo aperto contro gli 
		americani, ma, in caso di guerra, replicheranno la tattica adottata in 
		Iraq: la guerriglia. Se è vero che l’esercito iracheno aveva dimensioni 
		analoghe, è anche vero che la sua disorganizzazione e l’assenza di 
		fedeltà verso il governo centrale hanno evitato che la gran parte degli 
		ufficiali si andasse a riversare nelle file degli insorti. In Iran è 
		molto probabile che accada invece il contrario.
 
 Perché non attaccheremo
 
 La storia ci dice chiaramente che un attacco militare non è lo strumento 
		più efficace per impedire ad un paese di entrare in possesso di armi 
		nucleari. Il caso dell’Iran conferma questa evidenza (e non abbiamo 
		considerato gli effetti di un tale attacco, per esempio sul prezzo del 
		petrolio: va infatti ricordato che il 50 per cento del petrolio mondiale 
		passa per lo stretto di Hormuz, nel Golfo Persico, controllato proprio 
		dall’Iran). Ciò non significa, ovviamente, escludere l’uso della forza 
		(this is demented, direbbero gli strateghi americani), soprattutto 
		mentre le trattative sono ancora in corso. Significa semplicemente 
		essere consci della sua inefficacia. Ciò che serve è quindi la 
		diplomazia: Richard Haas, per esempio, suggerisce di fornire a Tehran il 
		combustibile nucleare che gli ayatollah reclamano, ma solo a patto che 
		esso rimanga sotto il controllo internazionale. L’Iran avrebbe così ciò 
		che chiede ma non potrebbe trattarlo direttamente (The OpportUnity, 
		2005). Secondo Fareed Zakaria (Washington Post, 16 agosto) è 
		necessario invece riallacciare le relazioni con gli Stati Uniti. Molti 
		si oppongono, perché con le dittature “non si tratta”, dicono. Forse 
		hanno ragione. Kissinger però, sporcandosi le mani con l’URSS (Helsinki 
		1975), riuscì ad infierire il secondo colpo mortale al gigante sovietico 
		(il primo fu il riallacciamento delle relazioni con Pechino). 
		Rifiutandosi di trattare con Castro, gli Stati Uniti permettono invece 
		ad una brutale dittatura di continuare ad esistere. Tanto per dire the 
		evidence of history. Come scrive Zakaria: e se le trattative con l’Iran 
		dovessero fallire, dove ci troveremmo? Esattamente al punto dove siamo 
		ora. Tanto vale trattare, allora, soprattutto se a proporre le 
		trattative (che possono assumere anche la veste di pressioni 
		diplomatiche) non sono solo realisti liberal come Zakaria, ma anche 
		studiosi “falchi” come Patrick Clawson (The New Republic, 16 agosto). 
		Nella newsletter settimanale di fine agosto pubblicata dall’agenzia di 
		intelligence privata Stratfor viene ricordato quanto instabile sia il 
		Pakistan: proprio per questo motivo, secondo gli analisti della 
		compagnia, gli Stati Uniti starebbero cercando di riallacciare le 
		relazioni con Tehran. Se all’opzione militare non ci credono gli Stati 
		Uniti, non si capisce proprio come possano crederci altri.
 
 01 settembre 2005
 
        * 
		Andrea Gilli è uno dei titolari del blog 
        
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