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		Da Parigi a Berlino l’impasse europea di Pierluigi Mennitti
 da 
        Emporion n.54
 [22 set 05]
 
 Invece di indicare una strada nuova per uscire dall’impasse europea, le 
        elezioni tedesche hanno ancora una volta fotografato la crisi in cui si 
        dibattono i principali paesi dell’Unione. Molti commentatori avevano 
        puntato sulla vittoria di Angela Merkel e sulle opportunità di una 
        sterzata salutare, in economia come in politica estera, a prescindere 
        dal colore politico del nuovo governo tedesco. A destra come a sinistra, 
        gli osservatori erano convinti che, ripartita la Germania sarebbe 
        ripartita poi anche l’Europa, al seguito di quella che solo dieci anni 
        fa era ancora considerata la locomotiva del treno. Un treno appesantito 
        da venticinque vagoni, una locomotiva ingolfata da riforme troppo lente: 
        ma il tutto si sarebbe potuto rimettere in moto semplicemente muovendosi 
        per andare da qualche parte.
 
 Il movimento contro lo stallo, questa era la speranza dei politici di 
        Bruxelles. Dopo la primavera delle bocciature referendarie, in Francia e 
        in Olanda, dopo l’estate delle ferie infinite, la ripresa era avvenuta a 
        passi felpati. Nelle stanze della Commissione e nelle aule del 
        Parlamento tutto era fermo in attesa del soffio vitale da Berlino. E 
        invece l’annus horribilis dell’Europa continua e dalla Germania non è 
        arrivata la ventata benefica ma la bonaccia di un pareggio elettorale 
        che, appunto, perpetua lo stallo. E forse lo aggrava. Perché se il paese 
        centrale del continente (per estensione, per popolazione e per 
        ricchezza) fornisce lo spettacolo dell’incertezza, diventa difficile 
        riprendere la rotta. E si accentuano i timori che tutto potrebbe saltare 
        da un momento all’altro.
 
 Il lungo processo d’integrazione vive un momento storico delicato. E’ in 
        crisi il patto economico che aveva portato alla moneta comune. Il patto 
        era questo: mettiamo insieme le economie nazionali affidando alla 
        Germania il compito di crescere e trascinare gli altri Stati; e in 
        cambio gli altri Stati assicureranno alla Germania la stabilità dei 
        propri bilanci. Crescita economica più gestioni virtuose, questo era lo 
        scambio che diede vita all’euro. Ma la Germania non cresce e dunque non 
        cresce neppure l’Europa: l’aumento del prodotto lordo è quasi a zero, la 
        disoccupazione raggiunge l'11,6 per cento, 18,7 nei nuovi Länder, in 
        termini assoluti si è superata la soglia dei 5 milioni di senza lavoro. 
        In più gli altri Stati non sono virtuosi, anzi derogano alle regole che 
        essi stessi si erano dati: in tanti hanno sforato i parametri di 
        Maastricht, a partire proprio dai paesi più grandi, Francia, Germania, 
        Italia. Il patto politico non era neppure nato ma è naufragato anche 
        quello, sepolto da politiche estere divise su quasi tutto, dalle 
        relazioni transatlantiche ai rapporti con gli Stati Uniti, dalla guerra 
        al terrorismo islamista alla guerra in Iraq, dai rapporti con la Russia 
        alle misure da adottare in campo militare e commerciale con il gigante 
        emergente cinese. Fino al caso eclatante della riforma dell’Onu, con la 
        disputa fra Germania e Italia sul seggio nel Consiglio di sicurezza.
 
 Anche il patto di solidarietà è andato a ramengo. La riunificazione del 
        continente, cui era stato dato il burocratico appellativo di 
        allargamento, si è celebrata un anno fa con pochi fuochi d’artificio. 
        Nulla più dell’antico pathos che gli europei avevano dimostrato la notte 
        di sedici anni fa sotto le macerie del Muro di Berlino. Anzi, dal giorno 
        dopo l’ingresso di quelli che con enfasi avevamo chiamato “fratelli 
        separati” sono cominciate le ripicche in occidente, sui sussidi 
        all’agricoltura, sui seggi nella Commissione, sull’ammontare degli 
        aiuti, sui meccanismi di votazione all’interno delle istituzioni, sulla 
        politica estera. In Francia, con sprezzo del ridicolo, la paura della 
        concorrenza dell’idraulico polacco ha segnato tutta la campagna 
        referendaria per il Trattato costituzionale. Oggi l’Europa è atterrita 
        di fronte alle nuove sfide che aveva già impostato: l’ingresso di 
        Romania e Bulgaria, l’allargamento all’area balcanica, i negoziati con 
        la Turchia. Sul piano economico è ormai dimenticato il piano varato nel 
        2000 a Lisbona, un poderoso ricostituente riformista che avrebbe dovuto 
        rendere in dieci l’economia continentale adatta a competere sui mercati 
        globali con Stati Uniti, Cina, Giappone, India e Russia: ne sono passati 
        cinque e l’unico pezzo d’Europa che cresce è quello dell’Est, che ancora 
        beneficia dell’onda lunga delle riforme per passare dall’economia 
        collettivista a quella di mercato.
 
 Da maggio a settembre, dal “no” referendario dei francesi alle elezioni 
        senza esito dei tedeschi, l’Europa sta dunque vivendo la sua crisi lungo 
        quell’asse Parigi-Berlino che un tempo era stata la direttrice portante 
        dello sviluppo continentale. Ci aveva provato Blair, all’inizio di 
        questo semestre di presidenza britannica, a segnare una nuova strada per 
        la ripresa. Ma il suo impeto europeista è finito sotto i colpi del 
        terrorismo, quindi seppellito dal voto tedesco che non ha premiato 
        quell’Angela Merkel che su quella strada voleva portare il paese. Su 
        questi punti si incentra l’analisi di Emporion, nel numero che chiude la 
        pausa estiva. Ma non è una ripresa a suon di fanfara, semmai è un 
        viaggio all’interno della crisi europea che coinvolge anche noi.
 
 22 settembre 2005
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