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        I tempi della politicadi Mario Seminerio*
 [22 set 05]
 
 Le elezioni tedesche consegnano all’Europa un paese bloccato a metà del 
        guado, timoroso di abbandonare gli antichi e non più sostenibili 
        privilegi di welfare, ma assediato dalla concorrenza fiscale dei paesi 
        di nuovo ingresso nell’Unione Europea. Quello che è evidente è che la 
        Germania non potrà permettersi una stagnazione in stile italiano ma, 
        soprattutto, questo esito elettorale certifica che la politica tende a 
        subire gli eventi, anziché guidarli e determinarli. Alcuni dati 
        economici sono piuttosto illuminanti: secondo un report pubblicato il 9 
        agosto dall’istituto di ricerca economica IW, con un costo medio del 
        lavoro di 27,60 euro l’ora il lavoratore tedesco costa almeno sei volte 
        quello ungherese o polacco, e 22 volte più di quello cinese, senza che 
        la sua produttività sia proporzionalmente più elevata.
 
 Merkel proponeva di tagliare i contributi sociali obbligatori da parte 
        dei datori di lavoro per ridurre il costo del lavoro, finanziando la 
        misura con un incremento di due punti percentuali dell’Iva. Schröder ha 
        risposto che tali misure sono “inumane”, ma al contempo ha pesantemente 
        tagliato la spesa sociale. Ad esempio, chi è disoccupato da oltre un 
        anno è oggi costretto a ricorrere ai propri risparmi (previdenziali e 
        liberi), ammesso di averne, per supplire ai tagli di welfare: una coppia 
        sposata, che si trovi in tale condizione, è passata da erogazioni 
        mensili di circa 2.000 euro a circa la metà di quell’importo. Ciò è meno 
        “inumano” di una manovra sulle imposte indirette?
 
 Ma le aziende tedesche hanno ormai da tempo deciso di non sottomettersi 
        ai tempi della politica, ed hanno avviato massicci programmi di 
        delocalizzazione dei propri impianti produttivi, ottenendo come effetto 
        collaterale l’avvio di negoziati con i sindacati per tagliare le 
        retribuzioni nominali delle strutture che restano sul suolo tedesco. In 
        questo modo, la Germania ha goduto nell’ultimo anno di un significativo 
        recupero di competitività internazionale: il costo orario del lavoro, 
        dal 1999, è sceso del 9 per cento rispetto alla media dell’Unione 
        Europea, a fronte di un calo di solo il 3 per cento in Francia. Per 
        essere impietosi, lo stesso costo è cresciuto in Italia del 6 per cento, 
        per effetto di rigidità anacronistiche quali la contrattazione 
        collettiva su base nazionale. Anche grazie a questo recupero di 
        competitività l’export tedesco è cresciuto nel 2004 del 22 per cento, 
        facendo della Germania il secondo esportatore mondiale, secondo i dati 
        della World Trade Organization.
 
 Le aziende tedesche non hanno tempo per elucubrazioni su 
        governi-semaforo o Grosse Koalition: il 5 settembre Volkswagen ha 
        annunciato l’intenzione di tagliare l’eccesso di manodopera per ottenere 
        risparmi annui di almeno 1 miliardo di euro mentre MAN, terzo produttore 
        europeo di camion, ha comunicato il mese scorso la volontà di creare di 
        un impianto di assemblaggio in Polonia, che darà lavoro a 650 persone. 
        Come è facile constatare, l’obiettivo è lievemente più ambizioso del 
        taglio dell’1 per cento del costo del lavoro, sul quale Merkel ha 
        giocato il proprio avvenire politico, perdendo.
 
 I politici italiani perdono l’ennesima occasione per tacere: Bertinotti 
        si felicita con il partito della sinistra onirico-antagonista di Gysi e 
        Lafontaine, dimenticando che quello è un partito di paria della 
        politica, composto da “quitters” incapaci di reggere il confronto con la 
        dura realtà di governo; il diessino Bersani vede nel mancato successo di 
        Merkel la sconfitta della deregulation: “Lo Stato sociale è stato 
        ridimensionato, non smantellato. Davanti alle tensioni della 
        globalizzazione, si vince armonizzando le politiche economiche e quelle 
        sociali. Non credo proprio che Schröder chiederà aiuto al nuovo partito 
        della sinistra di Lafontaine”. Frasi che rappresentano un misto di 
        propaganda e ignoranza, proprio per i motivi sopra elencati. Vorremmo 
        chiedere a Bersani se i diesse sono pronti a compiere le stesse scelte 
        di Schröder in materia di welfare, oltre a rammentargli che mentre il 
        Cancelliere ha posto il veto ad un’alleanza con la sinistra radicale, 
        qui da noi il candidato premier dei Ds si è legato mani e piedi al 
        sodale dei comunisti tedeschi. Ma sarebbe tempo perso. Il tempo e la 
        legge finanziaria del 2006 ci spiegheranno che significa “armonizzare” 
        politiche economiche e sociali. Ammesso e non concesso che per quella 
        data sia rimasto qualcosa da armonizzare.
 
 22 settembre 2005
 
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        Mario Seminerio è il titolare del blog 
		
        Phastidio.net
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