Il 9 novembre 1989 quel muro venne giù 
			portandosi ben presto dietro quel che rimaneva dell'Impero del Male. 
			Ma non è stato un caso fortuito a deviare il corso della storia dei 
			paesi dell'Europa orientale dalla tirannia rendendo finalmente 
			possibile la riunificazione dell'Europa nella dignità e nella pace. 
			E' stata l'aspirazione alla libertà di milioni di uomini e donne a 
			non deflettere mai. E' stata la determinazione del presidente 
			americano Ronald Reagan, che ha sconfitto politicamente e 
			strategicamente l'Unione Sovietica. Fin da quando pronunciò
			
			queste storiche parole nel lontano 
			giugno del 1987: 
			«General Secretary Gorbachev, if 
			you seek peace, if you seek prosperity for the Soviet Union and 
			Eastern Europe, if you seek liberalization: Come here to this gate! 
			Mr. Gorbachev, open this gate! Mr. Gorbachev, tear down this wall!»
			Una vera e propria sconfitta di 
			sistema e non una sincera apertura decisa dai vertici del regime. 
			Oggi Gorbachev è l'uomo che chiunque vorrebbe avere al proprio 
			convegno o al proprio talk show, ma aver vinto il premio Nobel per 
			la pace non fa di lui qualcosa di diverso. Ho sempre ritenuto che il 
			suo fosse un falso mito. Fu l'ultimo dei sovietici, non il primo dei 
			democratici, o dei post-comunisti. Non fu, insieme a Reagan, 
			l'artefice della pace e della fine della Guerra Fredda, ma fu lo 
			sconfitto di quella guerra. Non si deve scambiare quella che fu una 
			capitolazione obbligata con una scelta di pace.
			Chi l'avrebbe mai detto, vent'anni 
			fa, che sarebbe bastata una spallata? «Quanti negli Stati Uniti 
			pensano che l'Unione Sovietica sia sull'orlo del collasso economico 
			e sociale, pronta a precipitare alla prima lieve spinta, sono 
			semplici sognatori, si ingannano». Questa frase di Arthur 
			Schlesinger jr. riassume bene le analisi ufficiali dell'epoca e ci 
			ricorda quanto in modo del tutto inatteso giunsero la caduta del 
			muro di Berlino e il dissolvimento del blocco sovietico. L'ipotesi 
			della ineluttabilità, e dell'imminenza, del collasso era 
			inimmaginabile e fino a tutti gli anni '70 e i primi anni '80 si 
			pensava addirittura che l'Urss stesse prevalendo nel confronto 
			strategico con gli Usa.
			
			«Come ha fatto un dissidente sovietico - si chiede oggi Natan 
			Sharansky nell’introduzione al suo "The Case for Democracy" - a 
			vedere da solo quello che legioni di analisti e di policymaker in 
			Occidente non vedevano?». Eppure «non era né meglio informato né più 
			intelligente di chi non ha saputo prevedere il trapasso dell'Urss. È 
			che diversamente da loro, capiva il potere grandioso della libertà». 
			Sharansky si riferisce al dissidente Andrei Amalrik, che nel 1969 
			scrisse un libro intitolato "L'Unione Sovietica sopravviverà fino al 
			1984?" e le cui tesi («Uno Stato costretto a destinare tanta 
			parte delle proprie energie al controllo fisico e psicologico di 
			milioni di persone non può sopravvivere all'infinito») venivano 
			liquidate in Occidente, ma prese sul serio a Mosca, sapendo che 
			toccavano i nervi scoperti del regime: «La più piccola scintilla 
			di libertà avrebbe appiccato l'incendio all'intero sistema 
			totalitario».
			
			«Paura e profondo desiderio di essere liberi non si escludono a 
			vicenda. In questa situazione, la politica di accomodamento messa in 
			atto da molti leader occidentali - indipendentemente dalle 
			intenzioni - aveva l'effetto di rafforzare il regime sovietico». A 
			comprendere «la debolezza di uno Stato che nega la libertà ai propri 
			cittadini» furono il senatore Henry Jackson e il presidente Reagan. 
			La logica era semplice; in cambio della legittimazione, dei vantaggi 
			economici, della tecnologia di cui i sovietici avevano bisogno, 
			Reagan chiedeva che il regime cambiasse atteggiamento verso il 
			popolo. Una rivoluzione in politica estera: prima legata alla 
			condotta internazionale di un regime antagonista, poi legata alla 
			sua condotta interna. Pressati dall'interno e dall'esterno per il 
			rispetto degli impegni presi, cedettero, e una «scintilla» bruciò 
			l'impero di fronte all'Occidente «ammutolito».
			
			Oggi la «lezione sovietica» rischia di essere completamente 
			dimenticata proprio dall'Europa, avverte Sharansky: «Anziché riporre 
			la propria fiducia nel potere della libertà per trasformare 
			rapidamente gli stati totalitari, sono di nuovo impazienti di 
			arrivare alla coesistenza pacifica e alla distensione con i regimi 
			dittatoriali». La «fiducia nel potere della libertà» è un merito che 
			al presidente Bush e a Blair va riconosciuto, ma gli «scettici della 
			libertà» sono tornati e i loro argomenti suonano tremendamente 
			familiari: «C'è una cosa che unisce tutte queste argomentazioni: la 
			negazione che il potere della libertà trasformi il Medio Oriente. Io 
			sono invece convinto che la libertà in qualsiasi luogo renderà il 
			mondo più sicuro in ogni luogo. E sono convinto che le nazioni 
			democratiche, guidate dagli Stati Uniti, abbiamo un ruolo cruciale 
			da svolgere nell'estendere la libertà sul pianeta. Perseguendo 
			politiche chiare e coerenti che legano le relazioni con i regimi non 
			democratici al livello di libertà di cui godono i sudditi di quei 
			regimi, il mondo libero può trasformare qualsiasi società sulla 
			Terra, comprese quelle che dominano il paesaggio attuale del Medio 
			Oriente. Così facendo, la tirannia può diventare, come la schiavitù, 
			un male senza futuro».