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		Guida ragionata alla questione iranianadi Daniele Sfregola*
 [08 
		nov 05]
 
 La recente 
		fibrillazione diplomatica tra Teheran e Roma, seguita alle note 
		dichiarazioni bellicose del Presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad 
		sull'esistenza di Israele, ha riportato di colpo all'attenzione generale 
		del nostro Paese il "dilemma Iran". Per l'opinione pubblica italiana è 
		davvero inusuale interrogarsi su opzioni strategiche, schermaglie 
		verbali presenti che nascondono insoluti problemi lontani nel tempo e 
		preconizzano foschi scenari futuri. Ma è bene che ciò sia avvenuto. 
		L'Italia è il primo partner commerciale della Repubblica Islamica tra i 
		Paesi Ue e ambisce, da sempre, ad un ruolo di spessore nelle dinamiche 
		politiche di quella regione, in ossequio alla vocazione "mediterranea" 
		della tradizionale scuola diplomatica di Roma e agli importanti 
		interessi economici della propria classe imprenditoriale e di 
		approvvigionamento energetico dell'intera nazione.
 Risponde a questa 
		esigenza di fondo la presa di posizione del Ministro degli Esteri Fini, 
		il quale, nell'intervista rilasciata a Magdi Allam per il "Corriere 
		della Sera", sintetizza le complesse necessità che sottintendono al 
		ruolo italiano nel negoziato internazionale sul nucleare iraniano, 
		affermando che "è interesse della comunità internazionale non avere 
		Teheran isolata" e che "quanto più Teheran chiede di essere considerata 
		interlocutore dalla comunità internazionale tanto più deve avvertire il 
		senso di responsabilità di comportamenti che siano di stabilizzazione, 
		non di destabilizzazione". In altre parole, il governo italiano si 
		inserisce, pragmaticamente, nel solco della linea tracciata dal terzetto 
		che negozia con Teheran, il cosiddetto UE-3 composto da Francia, 
		Germania e Regno Unito, ma tenta, nei limiti del diplomaticamente 
		possibile, di evidenziare la fondata preoccupazione americana delle 
		pesanti ripercussioni anti-sistemiche che la dotazione nucleare 
		dell'Iran rivoluzionario comporterebbe. Si schiera per la linea 
		dell'engagement, insomma, pur lasciando intuire, con gli accenni sottili 
		del Ministro, che la porta dell'isolamento internazionale è aperta e 
		spetta all'Iran, e non al resto del mondo, decidere dove accomodarsi. La corretta 
		definizione dello scenario presente della Farnesina risponde al tema 
		corrente negli ambienti militari e diplomatici internazionali sulla 
		migliore strategia da adottare nei confronti della Repubblica Islamica: 
		engagement o isolamento? E ancora: quale futuro possibile tra un Iran 
		democratico, con o senza nucleare, e un Iran rivoluzionario, anch'esso 
		con o senza nucleare?E' su questi dilemmi che si gioca la partita in corso tra l'Occidente e 
		Teheran, ed è, quindi, in questi termini che gli ultimi avvenimenti e i 
		possibili scenari futuri vanno inquadrati, fermo restando che, ad oggi, 
		la crisi è aperta proprio perché complessa e, soprattutto, perché Stati 
		Uniti, Europa ed Israele non hanno ancora scelto l'opzione da seguire.
 L'Iran è già sotto 
		sanzioni economiche da parte statunitense. Il problema è quello di 
		comprendere se e come eventuali sanzioni economiche imposte dal 
		Consiglio di Sicurezza Onu, a seguito del rinvio del'Aiea a quest'ultimo 
		del dossier nucleare iraniano, possano indebolire il regime o riportarlo 
		a più miti contegni. C'è di sicuro l'ambizione storica, precedente alla 
		salita al potere di Khomeini, di dotarsi del nucleare in una regione 
		che, per storia, peso politico e influenza religiosa, ha da sempre 
		visto l'Iran sciita nel novero delle potenze principali. Israele ha 
		circa duecento testate nucleari ed è il nemico ideologico del 
		regime khomeinista. E' impensabile ritenere che l'Iran stia sviluppando, 
		come si ostina a ribadire, la tecnologia nucleare per meri fini 
		civili. Tale motivazione serviva ad evitare i controlli degli ispettori 
		dell'Aiea, ma quando questi, sotto la pressione diplomatica dei Paesi 
		occidentali, sono stati comunque inviati in territorio iraniano, il 
		governo di Teheran ha ostacolato pesantemente il loro lavoro sino ad 
		allontanare gli stessi dai propri siti in nome del segreto di Stato.Secondo Manouchehr Takin, analista del Centre for Global Energy Studies 
		ed esperto di questioni iraniane, è "improbabile che l'Onu vieti di 
		acquistare petrolio iraniano, come hanno fatto gli Usa". Il motivo 
		risiederebbe nel potenziale enorme di greggio che l'Iran possiede: 125 
		miliardi di barili al giorno, seconda riserva mondiale. Così come è 
		seconda a livello mondiale nelle riserve di gas. Le sanzioni Onu, 
		quindi, per Takin "potrebbero essere un embargo sulla fornitura di armi, 
		equipaggiamenti elettronici, tecnologia". In realtà, anche questa via 
		appare impraticabile. Cina e Russia riforniscono Teheran di armi e 
		tecnologia per le telecomunicazioni e, cosa fondamentale, sono titolari 
		del diritto di veto in seno al Consiglio di Sicurezza. Ma anche dal 
		punto di vista degli interessi iraniani, le sanzioni sarebbero del tutto 
		inefficaci, poiché, comunque, difficilmente l'Iran revocherebbe i 
		contratti petroliferi con le major occidentali: la sua economia è 
		petrolio-dipendente, che rappresenta circa l'80-90% dell'export in 
		valore. Ugualmente, pare davvero difficile che gli Stati occidentali 
		possano accettare un ridimensionamento repentino del business con 
		Teheran, favorendo, in tal caso, le compagnie di Paesi non ostili, in 
		primis quelle cinesi. Ciò, tra l'altro, "sta già accadendo", ammonisce 
		Takin. Le sanzioni economiche o sugli armamenti, quindi, rimarrebbero, 
		nei risultati pratici, lettera morta, pur comportando effetti comunque 
		indesiderati: l'escalation della retorica di regime di Ahmadinejad e dei 
		suoi contro gli Stati Uniti e l'Occidente in genere e il consolidamento, 
		probabilmente, del consenso popolare, che la storia recente dimostra 
		crescente in modo proporzionale rispetto al crescere della percezione 
		interna di isolamento.
 Si ritorna al 
		quesito d'origine, perciò, e cioè: isolare comunque l'Iran, anche senza 
		percorrere la via delle sanzioni Onu, per fermarlo sul tema nucleare, o 
		collaborare in termini di soft power, con gli strumenti del commercio, 
		degli aiuti, e della cooperazione culturale, per sgretolare le 
		fondamenta del potere degli ayatollah nel Paese, a costo di veder 
		completare rapidamente il processo di acquisizione della tecnologia 
		nucleare? Philip H. Gordon della Brookings Institution pone, in chiave 
		liberal, tale quesito, optando per la seconda opzione: esclusione di 
		sanzioni o interventi armati di qualsiasi tipo, accettazione del "danno" 
		odierno, rappresentato dal nucleare, per puntare al dialogo col regime 
		e, in special modo, alla democratizzazione per via diplomatica, il 
		"beneficio" futuro, tramite gli strumenti di soft power poc'anzi 
		richiamati. Secondo Gordon, insomma, occorrerebbe mirare ai varchi della 
		società iraniana, sensibile più di altre, nella regione, ai modelli 
		culturali occidentali, nonostante il rigore ideologico degli ayatollah 
		al potere. Lucio Caracciolo, su 
		"La Repubblica" del 4 novembre, tenta di tranquillizzare asserendo che, 
		in realtà, il know-how completo per la dotazione di armi nucleari sarà 
		in mano iraniana in cinque anni. C'è chi sostiene, al contrario, che gli 
		iraniani siano ben più vicini all’obiettivo. Forse, suggerisce Charles 
		V. Peña del Cato Institute, l'Iran avrà l'atomica in un anno. Entrambi, 
		però, concludono che, escluso l'attacco preventivo in stile Iraq, per 
		via dell'insufficienza di forze militari Usa, impegnate in troppi fronti 
		al momento, l'ipotesi di un'operazione mirata israelo-americana volta al 
		bombardamento delle centrali di arricchimento in territorio iraniano sia 
		pericolosa oltre che inutile. Si tratterebbe di una riedizione della 
		cosiddetta "Osirak option", dal nome del sito nucleare iracheno sul 
		quale, nel 1981, Israele intervenne preventivamente al fine di 
		scongiurare la dotazione di bombe nucleari da parte di Saddam Hussein. 
		Ci sarebbe, lamenta Peña, una difficoltà oggettiva nell'individuazione 
		dei siti e, addirittura, nella determinazione del loro numero. 
		L'intelligence americana, insomma, brancolerebbe nel buio su questo 
		punto. E entrambi finiscono per optare, scartate le alternative, per il 
		negoziato sine die, lo stesso, per intendersi, che ha implicato 
		l'attuale situazione di stallo e che, presumibilmente, va a genio 
		all'attuale dirigenza politica iraniana per completare il cambio di 
		status: da potenza regionale non nucleare a potenza nucleare. E' questa la 
		preoccupazione del vicepresidente dell'American Foreign Policy, Ilan 
		Bergman, il quale, nel suo ultimo libro dal titolo "Teheran Rising: 
		Iran's Challenge to the United States", mette in guardia americani ed 
		europei dal perseverare con l'attuale, confusionaria politica 
		decoordinata. "I segnali che fino adesso abbiamo inviato all'Iran sono 
		molto pericolosi. Dimostrano che il pessimo comportamento di Teheran, in 
		politica interna e nel sostegno al terrorismo, non è tema di attenzione 
		internazionale", ha detto Bergman a "Il Foglio".  In senso analogo, 
		Michael Eisenstadt del Washington Institute for Near East Policy 
		rammenta che l'Iran acquista tecnologia e know-how nucleare in giro per 
		il mondo da ben vent'anni, non da ieri, e, nonostante ciò, il mondo è 
		ancora paralizzato tra chi chiede dialogo e chi fa notare che il tempo è 
		scaduto da tempo. E, in tal senso, dando per scontata l'acquisizione 
		della tessera del club nucleare da parte di Teheran, suggerisce 
		all'Amministrazione americana, nel medio-periodo, di adottare una 
		strategia duale in funzione anti-iraniana, deterrenza e contenimento, 
		per preservare l'interesse americano a continuare a configurarsi come 
		"nazione indispensabile" la cui presenza, nell'intera 
		regione, significhi garanzia di sicurezza e stabilità, e così 
		depotenziando de facto le mire geopolitiche di un Iran 
		nucleare. Bergman appare più 
		possibilista sull'evitabilità di un Iran nucleare, pur partendo da un 
		background strategico analogo a quello di Eisenstadt, ovvero di 
		contrapposizione al regime iraniano e di contemporaneo sostegno 
		all'ipotesi della democratizzazione del Paese. Spiega Bergman: "Il 
		regime iraniano si è guardato attorno e si è reso conto che per ottenere 
		un posto al tavolo delle grandi potenze e diventare "l'erede naturale" 
		del Golfo Persico deve sviluppare una capacità nucleare. Se gli 
		permetteremo di farlo, non soltanto pianteremo l'ultimo chiodo nella 
		bara dell'opposizione iraniana, ma saremo anche costretti ad avere a che 
		fare con questo regime per un periodo molto più lungo di quanto potrebbe 
		essere se non glielo permettessimo". Al di là delle 
		differenze di vedute, spesso profonde, tutti i maggiori esperti 
		concordano su un punto: sino a quando Stati Uniti ed Europa saranno 
		divisi sulla tattica da utilizzare per democratizzare l'Iran e, 
		possibilmente, evitare la sua entrata nel club del nucleare, almeno sino 
		a quando a Teheran governeranno gli ayatollah, l'Iran rivoluzionario 
		raggiungerà i suoi scopi indisturbato, con tutto ciò che questo comporta 
		in termini di sicurezza regionale, difesa di Israele, processo di 
		democratizzazione in Medio Oriente e terrorismo internazionale, stanti i 
		comprovati rapporti strutturali tra Teheran e le varie organizzazioni 
		islamiste, regionali e globali. La posizione 
		dell'Unione Europea sarà nel frattempo ribadita in un prossimo incontro 
		dei 25 Ministri degli Esteri. Questi non minacceranno sanzioni e si 
		limiteranno ad avvertire Teheran che "la politica Ue di dialogo con 
		l'Iran verrà sottoposta a revisione alla luce dei progressi sul dossier 
		nucleare e su altri temi". Tra quest'ultimi, vi sono le recenti sanzioni 
		che l'Iran ha comminato al Regno Unito a causa dell'opposizione di 
		Londra alle attività nucleari iraniane. "Discriminazioni fra Stati 
		membri dell'Ue da parte dell'Iran in ogni campo sono inaccettabili", 
		dichiara la bozza di documento presentata da Bruxelles in vista 
		dell'incontro dei 25. Ha ragione Berman ad 
		essere scettico sui quanto mai necessari raccordi strategici fra le due 
		sponde dell'Atlantico. Il Presidente americano Bush sostiene da 
		tempo che i terroristi sono "fuorilegge" e che non tollererà "un Iran 
		nucleare sotto la guida del presente regime". La soglia di 
		sopportazione, sottolinea il vicepresidente dell'American Foreign Policy 
		Council, è drammaticamente differente: per gli europei è molto elevata, 
		sia sul terrorismo che sulle armi di distruzione di massa. Eppure la 
		carta del dialogo e dell'appeasement continua a dare risultati 
		paradossalmente contrari agli intenti pacifici europei: Ahmadinejad alza 
		i toni e aggredisce Israele, la Guida della Rivoluzione Ali Khamenei 
		ribadisce che il nucleare è prossimo ed è diritto ineliminabile del 
		Paese. Il problema 
		cruciale, di quasi impossibile soluzione, è il seguente: gli Usa non 
		hanno strumenti di pressione economico-commerciale contro Teheran, ma 
		soltanto militari; l'Europa ha potenti strumenti diplomatici ed 
		economico-commerciali per attenuare i pericoli derivanti da un Iran 
		nucleare ma non agisce, escluse le frasi di circostanza e l'assioma del 
		"diplomacy and business first", costi quel che costi. E nel frattempo, 
		la compagnia tedesca Siemens aiuta il governo di Teheran nei suoi 
		progetti nucleari, evitandogli uno stop di otto-dodici mesi nel processo 
		di sviluppo nucleare.  Dato tale scenario, 
		è davvero controproducente agire ora con la "Osirak option", prima che i 
		due obiettivi perseguiti dall'Occidente, democrazia e lotta al 
		terrorismo in Medio Oriente, vengano spazzati via a tempo indefinito, 
		sull'esempio nordcoreano? 
		
		8 novembre 2005
 * Daniele Sfregola è il titolare del blog 
		
		
		Semplicemente Liberale
 
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