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        Il mondo è più libero di 15 anni fadi Stefano Magni
 [21 nov 05]
 
 A volte la realtà non è come appare. Questo motto, tanto caro ai 
        cospirazionisti di tutti i colori, attualmente si adatta bene alla 
        visione del mondo condivisa dalla maggioranza dell’opinione pubblica. 
        Proviamo a chiedere a un qualsiasi passante: “Il nostro mondo è pacifico 
        o violento?” e poi anche “Secondo te, il mondo è più violento adesso o 
        15 anni fa, quando c’era ancora l’Unione Sovietica?”. Provare per 
        credere. La stragrande maggioranza degli interpellati (da me), hanno 
        risposto che il mondo di oggi è violento e molto più violento di quello 
        di 15 anni fa. Più lo chiedi a persone colte e informate, più la 
        risposta è determinata. Ma è inevitabile: tutti i commentatori di 
        politica internazionale sono convinti che viviamo in un mondo, magari 
        meno rischioso (perché non c’è più il pericolo immediato di una guerra 
        nucleare globale), ma comunque più violento. Le immagini che vengono 
        evocate per dimostrare questa tesi sono sotto gli occhi di tutti: le 
        guerre nei Balcani, il genocidio in Rwanda, il genocidio in Bosnia e 
        Kosovo, la guerra in Cecenia, l’11 settembre e la guerra in Iraq.
 
 Però questa visione del mondo non è vera. Già il politologo Rudolph J. 
        Rummel aveva notato e scritto a chiare lettere che il mondo, dopo il 
        collasso dell’Unione Sovietica, era diventato un luogo più pacifico in 
        cui vivere. Lo scrisse l’anno scorso nel suo sito (www.hawaii.edu/powerkills) 
        e poi lo ribadì nella prefazione all’edizione italiana di “Stati 
        Assassini” uscito quest’anno per Rubbettino. Ma finché era Rummel 
        l’unica voce nel deserto, pochi se ne sono accorti. Così come pochi 
        hanno dato retta a Fukuyama, l’autore del celeberrimo “La fine della 
        storia”, il quale non ha affatto cambiato idea e continua ad affermare 
        che, crollato il più grande progetto alternativo al capitalismo, non ne 
        sarebbero sorti di nuovi. Venendo a mancare il grande conflitto di fondo 
        sul miglior ordine sociale possibile, viene a mancare anche la 
        principale causa di conflitto. Rummel faceva notare che nel 2002, dopo 
        la fine della Guerra Fredda, nel mondo c’erano 89 democrazie liberali. 
        All’inizio della stessa Guerra Fredda ce n’erano solo 20. I risultati 
        della diffusione della democrazia dovrebbero essere sotto gli occhi di 
        tutti.
 
 I dati presentati nel prestigioso Human Security Report alle Nazioni 
        Unite (l’ultimo di una serie di studi che dimostrano la stessa cosa) 
        vanno ben oltre l’ottimismo di Fukuyama: nonostante le guerre nei 
        Balcani, in Iraq e in Cecenia, il numero dei conflitti internazionali 
        dal 1991 (anno della caduta dell’Unione Sovietica) ad oggi è calato del 
        41%. Nonostante il Rwanda, la Bosnia e il Kosovo, nello stesso lasso di 
        tempo, il numero dei morti per violenza interna agli Stati (democidio) è 
        calato dell’80%. Il numero delle crisi internazionali è crollato del 
        70%. Il numero dei rifugiati del 42%. Il traffico internazionale di armi 
        è diminuito del 33%. Anche se non ce ne vogliamo rendere conto, noi 
        viviamo in un mondo più libero, più pacifico e più ordinato rispetto a 
        quello “bipolare” di 15 anni fa. Da quando è crollata l’Unione Sovietica 
        stiamo tutti meglio, sotto ogni punto di vista.
 
 Questi dati dovrebbero far riflettere e trarre le conclusioni su chi 
        sono i vincitori e chi gli sconfitti. Ovviamente quelli che escono 
        maggiormente con le ossa rotte sono i regimi comunisti, i quali non solo 
        non sono riusciti a creare un mondo migliore e più prospero rispetto a 
        quello capitalista, ma, con i 100 milioni di morti fatti all’interno dei 
        loro regimi sono al primo posto fra i maggiori assassini del XX secolo; 
        ma si sono rivelati anche i maggiori generatori di disordine 
        internazionale e di conflitto. Non hanno conseguito, insomma, nemmeno 
        quel ben misero risultato che molti politologi hanno attribuito loro: 
        quello di aver costretto il mondo alla pace con la minaccia dei missili 
        nucleari di Mosca. Ma fra gli sconfitti del XX secolo sono da annoverare 
        anche tutti quei politici e studiosi occidentali che avevano 
        riconosciuto un “ruolo” internazionale fondamentale all’Unione 
        Sovietica. I primi sono i “realisti”, con la loro teoria dell’equilibrio 
        del terrore. La minaccia reciproca fra Usa e Urss, evidentemente, non è 
        servita nemmeno a rendere il mondo più ordinato.
 
 Poi ci sono i politici fautori della Ostpolitik e della “distensione” 
        con l’Unione Sovietica. Accettando il regime comunista di Mosca e i suoi 
        satelliti come interlocutori legittimi, di fatto ne hanno prolungato 
        l’esistenza. Non hanno ottenuto alcun miglioramento nei diritti umani 
        dei cittadini che avevano la sventura di abitare al di là della Cortina 
        di Ferro e non hanno contribuito nemmeno alla pace nel mondo. La palma 
        dei vincitori, invece, va a chi non ha accettato la legittimità 
        dell’Unione Sovietica. Tra i politici è sicuramente Reagan il presidente 
        che ha maggiormente contribuito alla pace nel mondo, delegittimando 
        l’impero comunista e accettando un confronto duro con il Cremlino. Tra 
        gli studiosi, si notano dalla parte dei vincitori i sostenitori della 
        dottrina della pace democratica (“le democrazie non si fanno guerra tra 
        loro”) che hanno suggerito una politica di esportazione della democrazia 
        nel mondo per far diminuire la violenza interna e internazionale. Ed 
        anche i sostenitori della “pace capitalista”, secondo i quali 
        l’accelerazione del processo di globalizzazione, dovuta al crollo di 
        dittature impermeabili al mercato, ha favorito relazioni più pacifiche 
        fra gli Stati, per i quali occorrono maggiori privatizzazioni e maggior 
        libero mercato per ridurre la violenza internazionale.
 
 Entrambe queste spiegazioni sono logiche: cittadini liberi di esprimere 
        il loro parere sono maggiormente propensi a dirimere le questioni 
        parlandone e non combattendo; cittadini che si arricchiscono con lo 
        scambio e non con la conquista sono meno propensi a voler subire i costi 
        della guerra, se non proprio quando la reputano indispensabile. Sembra 
        strano che alla fine del secolo più sanguinoso della storia umana, i 
        dati rivelino che tutti coloro che erano stati bollati come “idealisti” 
        (Immanuel Kant, Benjamin Constant, Frederic Bastiat, Norman Angell, Ayn 
        Rand) erano più realisti di coloro che si dichiaravano tali. Però questa 
        realtà ci viene celata e viene da pensare che ci sia tutto l’interesse 
        nel farlo. Mettiamoci, per una volta, nei panni dei cospirazionisti e 
        domandiamoci: a chi giova? Possono essere in tanti che traggono 
        giovamento dal nostro pessimismo. Sono in tanti che ci vogliono far 
        credere che il mondo sia più violento che mai per farsi dare il potere 
        necessario a proteggerci. Sono sempre di più quei leader che vogliono 
        ereditare il ruolo che fu dell’Unione Sovietica e ricreare un mondo 
        bipolare. Per farci tornare in guerra sotto le loro bandiere?
 
		
        21 novembre 2005
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