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        La democrazia in Afghanistandi Alessandro Marrone
 [14 dic 05]
 
 Rispetto all’Iraq, presente ogni giorno sui nostri media coi suoi 
        kamikaze e le discusse operazioni antiguerriglia, l’Afghanistan è quasi 
        dimenticato, un lontano e vago ricordo. Eppure l’operazione condotta a 
        Kabul ha la stessa radice e lo stesso fine di quella in corso a Baghdad, 
        e sta avendo anche maggiore successo. Stessa radice in quanto la guerra 
        mossa dagli Usa nel dicembre 2001 contro i talebani fu la prima reazione 
        agli attentati dell’11 settembre, mentre la deposizione di Saddam 
        Hussein del marzo 2003 è stata la seconda. Stesso fine in quanto 
        l’obiettivo della politica americana in Medio Oriente non sono tanto le 
        risorse energetiche, le armi di distruzione di massa o i campi di 
        addestramento dei terroristi: la priorità è forzare i regimi dell’area 
        ad aprirsi alla democrazia politica ed alla globalizzazione economica.
 
 Nell’analisi americana tale duplice apertura permetterebbe alle classi 
        medie di accedere alle leve del potere politico ed economico, al momento 
        monopolizzate dalle dittature che governano dal Maghreb all’Asia 
        Centrale, e questo ricambio pacifico disinnescherebbe l’odio diffuso 
        verso tali regimi e verso il loro protettore americano, tra i principali 
        motivi del sostegno al terrorismo islamico. Inoltre, poiché finora le 
        autocrazie mediorientali hanno escluso volutamente le loro popolazioni 
        da democrazia e modernizzazione per mantenere il potere e gli introiti 
        del petrolio sono andati solo all’oligarchia al governo, tale 
        cambiamento permetterebbe alle masse islamiche di godere sia di nuovi 
        diritti civili sia di una maggiore distribuzione della ricchezza 
        prodotta. Tale integrazione delle masse comporta tre importanti effetti: 
        smorzare l’antioccidentalismo causato dalla frustrazione per uno 
        standard di vita inferiore a quello occidentale; indirizzare le energie 
        sociali verso la lotta politica nazionale piuttosto che verso il 
        terrorismo internazionale, cosa che in parte si sta già verificando; 
        togliere spazio di manovra ai fondamentalisti che sfruttano le 
        situazione attuale per i loro fini politici.
 
 In questa strategia il soft power costituito dalla penetrazione dei 
        media occidentali è uno strumento importante ma non sufficiente: occorre 
        rimuovere gli ostacoli strutturali a tale cambiamento dello stato e 
        della società. A livello pratico i cambi di regime in Afghanistan e Iraq 
        rappresentano la pietra di volta di questa strategia. Da un lato perché 
        due paesi che rappresentavano l’alternativa al modello occidentale, in 
        special modo l’Afghanistan, si stanno trasformando tra mille difficoltà 
        in esempi di democrazia islamica. Dall’altro perché diversi regimi medio 
        orientali, dall’Egitto al Libano, dal Kuwait all’Arabia Saudita, stanno 
        operando una cauta liberalizzazione politica sia per la pressione 
        militare ed economica degli Usa che hanno dimostrato di fare sul serio, 
        sia per la maggiore forza che l’opposizione nelle società civili trae 
        dal “contagio democratico” diffuso da Kabul e Baghdad.
 
 E’ perciò interessante vedere cosa sta succedendo in questi paesi in 
        trasformazione, specie nel dimenticato Afghanistan. Dopo la caduta dei 
        talebani, la sicurezza del paese si è retta finora sul compromesso tra 
        il potere centrale in via di consolidamento e i signori della guerra 
        delle varie etnie, che controllano ampie porzioni di territorio. Vero 
        garante della sicurezza è la forza di peace-keeping Isaaf guidata dalla 
        Nato sotto l’egida dell’Onu, mentre altre truppe angloamericane danno la 
        caccia alle sacche di resistenza talebane vicino al confine con il 
        Pakistan. Nel giugno del 2002 si è insediata la Loya Jirga, un’assemblea 
        dei capi tribù, tradizionale forma di consultazione politica afgana, con 
        l’innovativa presenza di 90 donne, che ha eletto un governo provvisorio 
        guidato da Hamid Karzai e comprendente tutte le maggiori etnie del 
        paese. Dopo un anno di discussioni in assemblee sempre più ampie e 
        rappresentative, il 4 gennaio 2004 è stata approvata una Costituzione 
        che conciliasse stato di diritto e istituzioni democratiche con 
        l’influenza della Sharia: il risultato è un testo ambiguo, non è certo 
        il modello Westminster, ma rappresenta un passo importante verso il 
        riconoscimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Il potere 
        esecutivo è affidato a un presidente eletto direttamente dal popolo, 
        mentre il potere legislativo è esercitato da due Camere, la Wolesi Jirga 
        e la Meshrano Jirga. La prima è eletta ogni 5 anni con suffragio 
        universale diretto e sistema proporzionale, la seconda è eletta per un 
        terzo dai consigli provinciali, per un terzo dai consigli comunali, e 
        per un terzo è nominata dal presidente. Apposite clausole garantiscono 
        una rappresentanza minima sia per le donne, 68 seggi su 249, che per le 
        etnie minori.
 
 Il 18 ottobre si è votato proprio per l’elezione della Wolesi Jirga e 
        dei consigli provinciali, sotto la supervisione del Joint Electoral 
        Management Body, un’autorità composta in parte da funzionari statali 
        afgani in parte da osservatori internazionali nominati dall’Onu. La 
        partecipazione ha sfiorato il 60%, 6,8 milioni su 12 aventi diritto, un 
        risultato eccellente date le difficoltà geografiche e logistiche, data 
        l’assenza di un apparato statale degno di questo nome nei precedenti 10 
        anni, e dato il fatto che era la prima vera elezione democratica nel 
        paese. Gli episodi di violenza sono stati sporadici e poco rilevanti, 
        grazie al lavoro svolto dalla missione Nato guidata in quei mesi proprio 
        dal contingente italiano, e grazie probabilmente alla decisione delle 
        varie etnie di decidere chi avrebbe comandato con le schede elettorali e 
        non più con i kalashnikov. Le elezioni insomma sono state un grande 
        successo, eppure i media italiani ne hanno parlato poco e male: forse 
        perché nel mercato dell’informazione fanno più audience dieci corpi 
        mutilati da un’autobomba piuttosto che una fila di donne al seggio, 
        forse perché il diffuso pregiudizio antiamericano porta alcuni giornali 
        a non informare dei successi occidentali raggiunti.
 
 Il 13 novembre sono stati diffusi i risultati: tra gli eletti della 
        Wolesi Jirga figurano attivisti per i diritti civili, ex guerriglieri 
        del nord, ex esponenti talebani, ex comunisti, sostenitori del 
        presidente Karzai e suoi oppositori, e non c’è una chiara maggioranza 
        partitica anche perché il sistema elettorale prevedeva solo candidature 
        a titolo personale. Se ciò a prima vista può sembrare un insuccesso, è 
        invece la prova che il processo di democratizzazione sta funzionando: 
        tutte le vecchie elite dirigenti o di opposizione e le nuove che stanno 
        nascendo sono rappresentate, e quindi la Wolesi Jirga ha buone 
        possibilità di diventare il luogo di confronto e sintesi delle varie 
        anime etniche e politiche del paese. Forse proprio questo coinvolgimento 
        è mancato nel primo anno del dopoguerra iracheno, durante il quale gli 
        americani hanno imposto un’epurazione completa dallo Stato dei baathisti 
        sunniti che ha ingrossato le fila della guerriglia: ed infatti 
        nell’ultimo anno si sono conseguiti i due successi più importanti, le 
        elezioni legislative di febbraio e il recente referendum costituzionale, 
        anche perché si è puntato sul loro coinvolgimento.
 
 Sia in Afghanistan che in Iraq probabilmente saranno due i fattori 
        esterni determinanti per la riuscita della strategia di 
        democratizzazione. In primo luogo la tenacia degli Stati Uniti e dei 
        loro alleati nel mantenere una forza militare che assicuri la sicurezza, 
        continuando a sopportare le perdite di vite umane: senza l’hard power 
        americano non ci può essere il cambio di regime, con tutti gli effetti 
        descritti. In secondo luogo il sostegno, economico ma non solo, di tutta 
        la comunità internazionale alla società civile ed a un governo 
        ragionevolmente democratico. Se questa spinta esterna verrà meno troppo 
        presto ci ritroveremo con l’ennesima guerra civile, o con una brutta 
        copia del Baathismo, oppure con una nuova versione del Khomeinismo: in 
        ogni caso con un Medio Oriente in balia del sottosviluppo e delle 
        dittature, ottimo terreno di coltura per il fondamentalismo ed il 
        terrorismo.
 
 14 dicembre 2005
 
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