Dobbiamo veramente aver paura?
di Stefano Magni
[08 feb 06]

La crisi scoppiata per le “vignette sataniche” è un test, sia per noi che per il mondo arabo e musulmano. Dal 2001 noi occidentali ci dibattiamo nel cercare la risposta alla domanda “chi ci odia?”. Le risposte possibili sono tre: i musulmani, i regimi dei Paesi a maggioranza musulmana, i paesi poveri e oppressi dal colonialismo e dal neocolonialismo. La risposta a questa domanda è di fondamentale importanza per determinare la politica dei nostri governi. Se il nemico fossero “i musulmani” in senso lato, se non dovessero esserci distinzioni tra musulmani moderati e musulmani radicali, ma solo un unico Islam nemico dell’Occidente da millequattrocento anni, la risposta politica più appropriata implicherebbe una separazione netta tra le nostre due civiltà: fuori i musulmani dall’Europa e fuori tutti gli interessi europei e occidentali dal Medio Oriente. Israele rimarrebbe un corpo estraneo e isolato e gli ebrei sarebbero probabilmente costretti a lasciare la loro terra o a barricarcisi dentro permanentemente. Se il nemico fosse “i regimi dei paesi arabi e islamici”, allora la politica più appropriata sarebbe la prova di forza diplomatica e, quando indispensabile, militare, al fine di liberare popolazioni, che di per sé non sarebbero ostili nei nostri confronti. Se il nemico fossero i “paesi da noi sfruttati, offesi, aggrediti nel secolo scorso e negli anni presenti”, allora la risposta non può che essere il risarcimento, sotto forma di aiuto economico, ma anche di concessione di diritti positivi alle loro minoranze di immigrati: diritto a conservare la lingua, a ricevere un’educazione e un’informazione separata, secondo la loro tradizione.

L’unanimità apparente con cui tutto il mondo musulmano ha reagito alla pubblicazione di 12 vignette raffiguranti Maometto, su un giornale (che non è il quotidiano di riferimento) di uno dei paesi più pacifici e pacifisti d’Europa, la Danimarca, ha suggerito due possibili risposte alle élite politiche europee: il timore di uno scontro di civiltà o la volontà di risarcire minoranze e paesi offesi. Nel primo gruppo rientrano tutti quei politici che, pur non essendo terzomondisti, si sono detti preoccupati per la tensione e sono corsi ai ripari porgendo le scuse al mondo musulmano. Rasmussen stesso, premier liberale della Danimarca, pur avendo fermamente difeso la libertà di espressione nel suo paese, ha considerato “inopportuna” la pubblicazione delle vignette e si è scusato per l’offesa arrecata alla sensibilità musulmana. Il premier norvegese Stoltenberg si è detto dispiaciuto per l’accaduto. Allineati su questa posizione sono anche il governo francese, il commissario europeo Franco Frattini, il premier turco Tayyp Erdogan, i diplomatici e i politici, i cui paesi sono stati colpiti dal boicottaggio e dagli assalti alle ambasciate, che si recano in visita presso le moschee e i centri culturali islamici, per ultimi gli ambasciatori di Norvegia e Danimarca che hanno reso omaggio alla Grande Moschea di Roma. La linea politica adottata da chi ha paura di un conflitto di civiltà, si esprime subito con una gran voglia di censurare la stampa, o quantomeno di invitare gli editori ad auto-censurarsi per evitare di “provocare” futuri conflitti ancora più ampi. Si getta l’osso ad un mostro da un miliardo e mezzo di individui pronti a sommergerci.

Intellettuali e politici di matrice socialista e terzomondista, invece, prendono le difese dei musulmani in piazza, considerano senza mezzi termini quelle vignette come una “offesa” e invitano all’auto-censura nel nome del buon gusto e del rispetto delle religioni altrui. È la posizione de Il Manifesto, del vignettista Vauro, dei politici di sinistra, da Prodi a Fassino, ma anche di alcuni leader religiosi, come il rabbino francese e molti intellettuali e sacerdoti cattolici. Paradossalmente è questa anche la posizione di Bush, che ha preso le distanze dagli Europei proprio nel nome del rispetto assoluto della religione. Di fatto si è creata una sorta di alleanza intellettuale fra chi, essendo di sinistra, ritiene che le vignette siano solo l’ultima goccia di una serie di umiliazioni politiche inflitte al Terzo Mondo e chi, essendo religioso, le considera come un’offesa alla religione, oggi a quella islamica, un domani alla loro. In generale, la volontà di controllare maggiormente la stampa, è una tendenza comune di tutti i governi europei (oltre che degli intellettuali statalisti) e la reazione a questa crisi lo dimostra ancora una volta. Questi sono stati i risultati del “test” in Europa. Ma queste sono state reazioni a caldo, all’impressione provocata dalle sollevazioni di massa di piazze e governi dalla Mauritania all’Indonesia. Esaminando lucidamente l’origine della crisi, si vede, però, che non si tratta in realtà di una sollevazione spontanea dei musulmani e neppure di offesa vera e propria: solo alcune frange oscurantiste dell’Islam considerano un peccato la raffigurazione di Maometto. Inoltre, la maggior parte dei musulmani che sono scesi in piazza per aggredire le ambasciate di Danimarca e Norvegia pare non avessero nemmeno visto le vignette in questione.

Quando le vignette vennero pubblicate il 30 settembre, sebbene la notizia fosse circolata in rete con commenti anche in arabo, non ci fu alcuna protesta nel mondo musulmano e in Danimarca vi fu solo una piccola manifestazione di radicali islamici, guidata dall’imam integralista palestinese Abu Laban. Questa fu la reazione “popolare”, spontanea. Tutto il resto è un’abile montatura delle dittature e delle pseudo-democrazie arabe e islamiche. Abu Laban ha fatto letteralmente un tour di propaganda anti-europea in tutti i punti chiave del mondo arabo e musulmano: si è fatto ricevere, fra gli altri, dal segretario della Lega Araba Amr Moussa, dall’imam dell’Università Islamica Al Azhar Mohammed Sayyed Tantawi, dal radicale opinion maker di Al Jazeera Yusuf Al Qaradawi, da rappresentanti dell’Arabia Saudita. A tutti ha mostrato un libro di calunnie sulla Danimarca, in cui erano riprodotte le vignette realmente pubblicate sul Jyllands Posten e altre, mai pubblicate in Danimarca, fabbricate ad arte per dimostrare le offese alla religione musulmana, più una serie di documenti falsi sulla discriminazione sistematica dei musulmani nel piccolo paese scandinavo, noto semmai per la sua generosità sociale e istituzionale nei confronti degli immigrati. Gli alti rappresentanti del mondo arabo e islamico che hanno incontrato Abu Laban lo scorso autunno possono avergli creduto, o possono aver ritenuto conveniente credergli. Fatto sta che tutti hanno tenuto queste informazioni nel cassetto fino alla fine dello scorso gennaio, quando, evidentemente hanno ritenuto che il momento fosse opportuno.

Allora è incominciato il martellamento televisivo, radiofonico, nelle moschee, nelle piazze, le proteste formali, il ritiro degli ambasciatori, la chiusura delle ambasciate europee, l’assalto alle loro sedi, la fatwa a tutti i cittadini di tutti i paesi rei di aver pubblicato le vignette “sataniche”, il boicottaggio sistematico dei prodotti prima solo danesi poi europei in generale. Guardando dentro ciascuna di queste manifestazioni si nota che si tratta di azioni decise dai governi, oppure fortemente influenzate dai regimi. Ritirare un ambasciatore è un’azione governativa. Manifestare violentemente contro una sede istituzionale in un regime di polizia, è un’azione permessa o incoraggiata dal regime. In Libano, ad esempio, Mohammed Sammak, il consigliere del Gran Muftì, ha spiegato alla stampa come si è svolto l’assalto “spontaneo” all’ambasciata danese, facendo capire a chiare lettere che si è trattato di una manovra decisa dal regime di Damasco per destabilizzare il paese. Una protesta fatta da persone nemmeno di nazionalità libanese che, una volta arrestate per atti di teppismo: “…hanno confessato di essere stati raccolti e inviati proprio a dare fuoco alla sede consolare danese”. E nella stessa Damasco, dove una sollevazione islamista nel 1982 spinse il regime all’annientamento dell’intera città di Hama, appare strano che ora gli islamisti possano attaccare in massa un’ambasciata europea senza che la polizia intervenga efficacemente per impedirlo.

I media che hanno montato il caso e continuano a sparare propaganda anti-europea, sono tutti controllati dal governo e rispondono a direttive politiche nella quasi totalità dei paesi coinvolti nella protesta. Dove un solo giornale ha deciso di uscire dal coro, in Giordania, il direttore è stato arrestato e le copie ritirate. È per questo che la protesta mondiale anti-europea risulta essere un test molto importante per il mondo arabo e islamico: dimostra che, nonostante le differenze etniche, ideologiche e gli interessi particolari divergenti, tutte le dittature, le monarchie e le pseudo-democrazie arabe e islamiche, dalla Mauritania all’Indonesia, possono coordinarsi benissimo tra loro e compattarsi contro le democrazie occidentali. Questo test mondiale di mobilitazione dimostra che non ci sono regimi musulmani moderati e altri radicali ma regimi più o meno pericolosi, più o meno pragmatici, ma tutti accomunati dal loro anti-occidentalismo viscerale, tutti pronti a usare la religione islamica come uno strumento di potere, per aizzare masse represse e in gran parte analfabete contro nemici esterni. Dimostra, infine, che anche le nuove democrazie in Afghanistan e Iraq, nate grazie all’intervento militare occidentale, sono per ora governate da politici e partiti che, come minimo, non sono riconoscenti nei nostri confronti. Si possono fare solo ipotesi su cosa abbia fatto scattare questa mobilitazione generale dei regimi musulmani, la prima dai tempi dell’embargo petrolifero di trenta anni fa. Probabilmente il disconoscimento europeo nei confronti del governo islamista di Hamas: la guerra palestinese per la distruzione di Israele, finora, è l’unica causa che accomuna tutti i regimi arabi e islamici, dai più “moderati” a quelli totalitari islamisti. Più in generale, l’intervento in Afghanistan e in Iraq e la democratizzazione di queste due nazioni musulmane, fatti questi che possono non piacere a regimi non democratici o falsamente democratici.

Dobbiamo essere preoccupati? In un certo senso sì: è difficile accettare l’idea che tutti i regimi musulmani siano nostri nemici, che la distinzione tra “regimi moderati” e “regimi radicali” sia praticamente solo un artificio della nostra diplomazia. Ma di regimi si tratta, non di popoli. Si tratta di regimi deboli che governano su masse che, pur non essendo dissidenti nei loro confronti, ci ricordano più gli italiani ai tempi di Mussolini che non i tedeschi sotto Hitler: non volonterosi e determinati carnefici ma masse analfabete pronte a seguire chi urla di più. Stiamo parlando di regimi che continuano a puntare il dito contro nemici e minacce esterne, perché altrimenti i loro popoli si ribellerebbero contro di loro. E di regimi che dipendono dalla nostra economia, dal nostro aiuto militare, dalla nostra tecnologia e dalle nostre importazioni petrolifere. In alcuni casi, come in quello dell’Autorità Palestinese, si tratta di strutture burocratiche che esistono solo grazie ai nostri finanziamenti pubblici. Allora: dobbiamo veramente aver paura?

08 febbraio 2006

 


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