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        La crisi iraniana e le difficoltà del diritto 
		internazionaledi Daniele Sfregola
 [18 mag 06]
 
 La crisi diplomatica che si sta consumando in questi mesi tra Washington 
		e Teheran, con Parigi, Berlino e Londra a far da negoziatori assieme a 
		Pechino e Mosca, ha in realtà origini lontane. Sin dal 1986, l’Iran ha 
		intrapreso la sua ricerca di tecnologia per la trasformazione delle 
		materie prime in materiale nucleare speciale (uranio arricchito). Sin 
		qui, nulla di vietato, in considerazione del fatto che il Trattato di 
		non proliferazione (Tnp), di cui la Repubblica islamica dell’Iran è 
		parte, permette questo tipo di attività al paragrafo 1 dell'articolo IV, 
		sempre che il fine rimanga pacifico. Ed il regime degli ayatollah, 
		puntualmente, ha affermato in passato e continua a sostenere ancora oggi 
		che di scopi puramente pacifici invero si tratti. Al di là delle 
		considerazioni strettamente geopolitiche che smentirebbero l'asserita 
		intenzione iraniana (Israele ad ovest e basi militari americane 
		tutt'intorno creano un soffocante senso di accerchiamento 
		politico-militare intorno agli iraniani, non più mitigato dalla 
		vicinanza della ormai debole Siria) e di quelle di politica energetica 
		(risulta quantomeno arduo ammettere che il quarto Stato al mondo per 
		esportazione di greggio abbia tuttavia una irrefrenabile sete di energia 
		nucleare) c'è un fondamentale elemento giuridico e procedurale che ha 
		messo nei guai l'Iran: la violazione del combinato disposto dei 
		paragrafi 1 e 4 dell'articolo III del Tnp, i quali richiedono la previa 
		notificazione all'Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), 
		per gli Stati militarmente non nucleari come la Repubblica islamica, 
		dell'inizio delle attività in questione.
 
 Tale previsione mira a garantire l'invio di ispettori sul territorio 
		statale col compito specifico di accertare l'uso meramente civile 
		dell'energia nucleare prodotta. Questo non è avvenuto - si è detto - con 
		la conseguenza che Tehran ha sviluppato la propria tecnologia nucleare 
		in assenza assoluta di garanzie internazionali, come previsto dal Tnp da 
		essa stessa sottoscritto. Cavilli legali, si dirà. Sta di fatto che 
		quegli stessi codicilli, inseriti a chiare lettere nelle disposizioni di 
		un trattato volontariamente firmato e ratificato dall’Iran, hanno 
		permesso al Consiglio dei Governatori dell’Aiea, il 5 febbraio scorso, 
		di riconoscere lo stato di persistente violazione verso gli obblighi di 
		salvaguardia in cui versa Teheran, circostanza che ha permesso il 
		conseguente deferimento del caso al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni 
		Unite. Spetterebbe all’Iran, ora, fornire la dimostrazione del carattere 
		esclusivamente pacifico del suo programma nucleare. Ma nel foro 
		diplomatico rappresentato dal Consiglio di Sicurezza, la discrezionalità 
		delle scelte politiche degli Stati membri acquista un ruolo oltremodo 
		preminente. E ciò permette che si aprano scenari nuovi, anche e 
		innanzitutto alla luce del diritto internazionale. In particolare, nel 
		caso di un mancato accordo tra i sei Paesi coinvolti nei negoziati 
		internazionali e scartando l’ipotesi, allo stato attuale del tutto 
		irrealistica, dell’invasione militare terrestre dell’Iran, occorre 
		capire se e quali margini esistano per l’adozione di misure 
		sanzionatorie nei confronti di Teheran e, in seconda battuta, se l’uso 
		della forza per distruggere i siti nucleari iraniani - tramite un 
		bombardamento mirato o missilistico - sia conforme al diritto 
		internazionale o meno.
 
 Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha la competenza esclusiva 
		per quanto concerne il mantenimento della pace e della sicurezza 
		internazionale. A tal fine, esso può adottare raccomandazioni (non 
		vincolanti) o anche decisioni (vincolanti) nell’ambito del sistema di 
		sicurezza collettiva incardinato sulle disposizioni del Capitolo VII 
		della Carta Onu. Tali misure possono comportare o meno l’uso della forza 
		armata. Le misure adottate dal Consiglio di Sicurezza sono obbligatorie 
		per tutti gli Stati. Ciò equivale a dire che tutti gli Stati membri 
		delle Nazioni Unite debbono attenersi al dispositivo deliberato dai 
		quindici membri del Consiglio. Nel caso in cui non dispongano il ricorso 
		alla forza armata (art. 41 della Carta Onu), tali misure consistono in 
		sanzioni economiche e/o politiche, come, ad esempio, la rottura delle 
		relazioni diplomatiche o l’embargo parziale o totale contro lo Stato 
		condannato. Come ha recentemente ricordato Marta Dassù, direttore di 
		“Aspenia”, l’esperienza delle sanzioni comminate nei confronti di uno 
		Stato in rotta con la comunità internazionale non è esaltante: escluso 
		il caso del Sud Africa, questo genere di misure ha finito per 
		consolidare i regimi al potere e rendere ben più difficoltosa la 
		soluzione delle crisi internazionali. Il caso iracheno - e in 
		particolare lo scandalo “Oil for food” - insegna che l’embargo 
		petrolifero imposto ad uno Stato produttore ingenera facilmente effetti 
		perversi, finendo per ripercuotersi disastrosamente sul prestigio del 
		Palazzo di Vetro. Veniamo all’impiego legittimo della forza armata. 
		Questo, nel caso iraniano, può fondarsi su due ipotetici presupposti: la 
		legittima difesa, disciplinata dall’art. 51 della Carta Onu, o 
		l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con una 
		(o più di una) risoluzione adottata ai sensi del combinato disposto 
		degli articoli 42 e 48 della Carta Onu.
 
 La possibilità per gli Stati Uniti (o Israele) di argomentare un 
		eventuale ricorso alla forza armata contro i siti nucleari iraniani - la 
		cosiddetta “Osirak option”, dal nome del reattore nucleare iracheno 
		bombardato nel 1981 dai caccia israeliani – sulla base della legittima 
		difesa ex art. 51 sono praticamente nulle. Il presupposto per agire in 
		legittima difesa è che uno Stato risulti vittima di un attacco armato. 
		Tale presupposto ovviamente manca. In alternativa, è possibile 
		giustificare un intervento di siffatto genere motivandolo con 
		l’imminenza di un attacco armato che il nemico si accinge a sferrare. 
		Anche in questo caso, però, non è possibile sostenere che un attacco 
		iraniano contro Washington (o Israele) sia imminente (pre-emptive war). 
		Allo stato attuale, il presidente della Repubblica islamica iraniana, 
		Mahmoud Ahmadinejad, si è limitato a minacce verbali, per quanto gravi 
		politicamente esse possano risultare alla comunità internazionale. 
		Potrebbe essere impiegata da parte americana, invece, l’interpretazione 
		estensiva del concetto di legittima difesa residente nella cosiddetta 
		“dottrina Bush”. Secondo la nuova dottrina strategica statunitense, la 
		nozione di imminenza va oggi concepita in modo più elastico rispetto al 
		passato. Anche il tentativo di costruire o acquistare armi di 
		distruzione di massa in violazione di accordi internazionali (la 
		fattispecie iraniana rientra a pieno titolo in questo schema) porrebbe 
		le basi giuridiche per un intervento in legittima difesa di tipo 
		preventivo.
 
 Tuttavia, la dottrina strategica di Washington - per ciò che rileva in 
		questa sede - non è conforme al diritto internazionale vigente. Rebus 
		sic stantibus, essa non va oltre la semplice proposta di ampliamento 
		interpretativo della portata precettiva dell’art. 51 della Carta Onu. 
		Inoltre, come spiegato dal docente di diritto internazionale della Luiss 
		Guido Carli di Roma, Natalino Ronzitti, sulla rivista on-line “Affari 
		Internazionali”, deve aggiungersi la constatazione che i precedenti sono 
		assolutamente contrari ad interventi simili e privi di risoluzione 
		autorizzativa del Consiglio: nel già citato bombardamento israeliano del 
		sito iracheno di Osirak del 1981 - che fu giustificato giuridicamente 
		dal governo di Israele invocando la legittima difesa - la risoluzione 
		487 del 1981, adottata dal Consiglio di Sicurezza, condannò apertamente 
		l’azione, grazie anche al mancato esercizio del diritto di veto da parte 
		degli Stati Uniti. Discorso differente vale per il secondo dei due 
		presupposti legittimanti il ricorso alla forza armata contro Teheran, 
		ovverosia l’intervento autorizzato con previa risoluzione del Consiglio 
		di Sicurezza ex articoli 42 e 48 della Carta Onu. Il Consiglio, infatti, 
		potrebbe qualificare, ai sensi dell’art.39 della Carta, la condotta 
		iraniana come minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale e, di 
		conseguenza, autorizzare un attacco armato contro i siti nucleari 
		iraniani. In tal caso - e solo in questo - sussisterebbe la 
		legittimazione giuridica all’intervento contro obiettivi iraniani. Ma 
		l’opposizione cinese e russa ad interventi armati contro il fornitore 
		energetico iraniano rendono questa opzione difficilmente perseguibile.
 
 Da tale riflessione, ne consegue che le possibilità che il diritto 
		internazionale offre al ventaglio di opzioni strategiche americane sono 
		poche e, in parte, spuntate. Il dilemma diplomatico statunitense nella 
		crisi iraniana è quindi triplice. Conciliazione o pressione? E nel caso 
		di una scelta di extrema ratio: sanzioni o intervento militare? Infine, 
		nel caso in cui si scelga quest’ultima via: azione militare conforme o 
		in violazione del diritto internazionale? Nelle risposte a questi tre 
		intricati quesiti si nascondono soluzioni e problemi nei rapporti tra 
		Washington e Teheran e tra questi e il resto del mondo.
 
 18 maggio 2006
 
 * Daniele 
		Sfregola è il titolare del blog 
		
		
		Semplicemente Liberale
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