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        Israele e la guerra al terrorismodi Alessandro Marrone
 [01 giu 06]
 
 Tel Aviv e Gaza, gli omicidi mirati e i kamikaze, lo Zahal e Al-Aqsa. E 
		poi ancora Usa, Ue, Anp, opinione pubblica internazionale, conflitto 
		“non convenzionale”. Queste le parole-chiave della presentazione del 
		libro “Israele e la guerra al Terrorismo” di Beniamino Irdi Nirenstein, 
		svoltasi venerdì 26 Maggio alla Luiss Guido Carli e trasmessa da Radio 
		Radicale, con un panel di particolare spessore: il Generale Carlo Jean, 
		l’editorialista del Corriere della Sera Ernesto Galli Della Loggia, il 
		direttore dell’Istituto Diplomatico Maurizio Serra, moderati dal 
		presidente della Fondazione Magna Carta Gaetano Quagliariello. Il 
		dibattito, così come il libro, è partito dalla strategia che il governo 
		israeliano ha messo in atto dal 2000 al 2004 per contenere il terrorismo 
		palestinese, che aveva raggiunto un nuovo apice dopo la seconda 
		Intifada. In quel quadriennio sono stati organizzati in Israele 23mila 
		attentati, 430 dei quali hanno provocato circa un migliaio di morti. Se 
		per ipotesi tutti gli attentati fossero andati a segno ci sarebbero 
		state circa 35mila vittime, che su una popolazione di 6 milioni di 
		abitanti avrebbero avuto lo stesso peso che 300mila morti in Italia. Il 
		peso cioè di un dramma sociale di dimensioni tali da raggiungere quello 
		che, come ha sottolineato Jean, è l’obiettivo ultimo del terrorismo 
		palestinese: spaventare gli ebrei al punto da spingerli a tornare al 
		sicuro negli Usa o in Europa, lasciando tutta la Palestina agli arabi.
 
 Di fronte a questa minaccia all’esistenza stessa dello stato d’Israele, 
		si comprende come i vertici militari e governativi israeliani giudichino 
		irrilevante la condanna della Corte Internazionale di Giustizia alla 
		costruzione della barriera difensiva, che separa i territori israeliani 
		da quelli al momento controllati dai palestinesi. Mentre, come ha fatto 
		notare Galli Della Loggia, gli europei sembrano disabituati a pensare i 
		problemi internazionali anche in termini di uso della forza armata, 
		perchè assorbiti ormai dall’ottica ideologica del politically correct e 
		dalla prospettiva giuridica del diritto internazionale. Ottica e 
		prospettiva che spesso in Medio Oriente, come ogni telespettatore può 
		vedere ogni giorno, contano assai meno di un razzo Kassam o di un 
		elicottero Apache. A questa miopia di gran parte della classe politica 
		dell’Europa continentale si affianca, sembra desumersi dalle parole di 
		Quagliariello, una specie di strabismo per cui si tende a giustificare 
		la violenza attuata da strutture terroristiche palestinesi, mentre si 
		condanna senza appello quella decisa dalla democrazia israeliana. Non 
		cogliendo anzi il merito del popolo israeliano di aver continuato a 
		credere nelle proprie istituzioni e nella loro capacità di reagire, 
		senza lasciarsi quindi andare a violente reazioni spontanee, quali per 
		esempio si sono avute in Olanda con il rogo di 31 moschee in risposta 
		all’omicidio di Theo van Gogh.
 
 Le istituzioni israeliane, governo, intelligence ed esercito 
		innanzitutto, hanno risposto perseguendo due obiettivi in contrasto tra 
		loro: da un lato colpire basi e fiancheggiatori dei kamikaze per 
		limitare gli attentati e soprattutto le vittime provocate, dall’altro 
		risparmiare i civili palestinesi per non rendere politicamente 
		impossibile una pace con l’Anp. Per mediare tra questi due scopi si è 
		accettato un alto numero di perdite, nella battaglia di Jenin, 38 
		soldati israeliani morti a fronte di 53 terroristi palestinesi uccisi, 
		pur di non utilizzare aviazione e artiglieria pesante come hanno fatto 
		gli americani a Falluja. Per comprendere il comportamento dell’esercito 
		israeliano inoltre non bisogna dimenticare il contesto giuridico e 
		culturale in cui si colloca, come ha ricordato Serra: lo Zahal nasce 
		come esercito di popolo, pur acquisendo subito la professionalità e la 
		disciplina di recente mostrata al mondo con lo sgombero di Gaza, ed è 
		regolato da “leggi fondamentali” che rispecchiano una cultura giuridica 
		nazionale che in parte differisce da quella europea, ad esempio vietando 
		categoricamente ogni forma di tortura mentre è più sfumata la posizione 
		sugli omicidi mirati.
 
 Dalla lettura del libro si può concludere che le operazioni offensive 
		per catturare o uccidere gli organizzatori degli attentati, unite al 
		filtro difensivo costituito dal tanto contestato “muro”, e ovviamente 
		all’incessante opera svolta dall’intelligence israeliana, hanno limitato 
		così drasticamente l’effetto degli attentati negli ultimi anni da far sì 
		che essi non abbiano né raggiunto l’obbiettivo di smobilitare lo stato 
		israeliano, né abbiano influenzato le decisioni politiche del governo, 
		tanto che lo storico ritiro da Gaza è stato deciso e condotto 
		unilateralmente e da una posizione di forza. Ma questa vittoria tattica, 
		ha concluso l’autore, non si è tradotta in una vittoria in senso 
		“clausewitziano”, cioè non ha portato a una pace: perché essa possa 
		esserci è necessario che si giunga a un accordo con la controparte su un 
		nuovo status quo della regione. Ma perché ciò avvenga, si potrebbe 
		aggiungere, ci sarebbe bisogno di “una” controparte palestinese e non di 
		una guerra civile strisciante tra Hamas e Fatah per il controllo del 
		potere.
 
 01 giugno 2006
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