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        Estatut: pastrocchio in salsa catalanadi Enzo Reale*
 [13 giu 06]
 
 Doveva 
		essere una data storica per la Catalogna. Invece il prossimo 18 giugno 
		altro non sarà che l’atto finale della surreale esperienza di governo 
		della sinistra catalana e catalanista.
 
		Quel giorno 
		gli elettori saranno chiamati ad approvare o respingere lo statuto 
		votato in prima istanza a Barcellona lo scorso settembre ed in via 
		definitiva dal parlamento di Madrid poche settimane fa: un documento che 
		nel preambolo prevede la definizione della Catalogna come nazione 
		e che sancisce la fine del bilinguismo e il predominio del catalano come 
		lingua ufficiale, un testo infarcito di riferimenti ai diritti 
		collettivi e all’interventismo pubblico, concepito per ipotecare il 
		futuro delle prossime generazioni all’interno dello schema ideologico 
		del social-nazionalismo.  
		Può 
		sembrare paradossale che la forza politica che più si è battuta per la 
		riforma statutaria e che ad essa ha subordinato l’appoggio al governo 
		Zapatero, gli indipendentisti di Esquerra Republicana, stia oggi 
		facendo campagna per il no. Ma lo è solo se non si conoscono le 
		dinamiche della politica catalana che dagli anni del pujolismo 
		altro non è che un’arena in cui i principali contendenti fingono di 
		farsi la guerra per poi accordarsi sulla spartizione del potere, in un 
		clima di corruzione materiale e ideologica e di omertà generalizzata.
		 
		Il no 
		di Esquerra è maturato il giorno stesso in cui alla Moncloa il 
		presidente del governo e il leader dell’opposizione (formale) al 
		tripartito izquierdista, Artur Más di Convergencia i Unió 
		(CIU),  si sono stretti la mano davanti ai fotografi dopo aver 
		annunciato l’accordo sul testo definitivo. Pur avendo votato il progetto 
		originale insieme alla sinistra e averlo difeso in sede centrale nel 
		corso del dibattito sull’approvazione, CIU non ha esitato smarcarsi dai 
		compagni di viaggio quando i sopravvenuti contrasti tra il PSOE e l’ala 
		radicale dell’indipendentismo catalano sembravano sul punto di far 
		fallire l’intero negoziato, riuscendo in un solo colpo ad accreditarsi 
		come il partito della mediazione e del consenso, a portare a casa il 
		successo diplomatico del patto con Zapatero e ad evidenziare 
		l’inconsistenza del ruolo del presidente della Generalitat che, dopo 
		aver basato l’intera legislatura sul progetto statutario, è stato 
		costretto ad ingoiare il rospo in rigoroso silenzio-assenso.  
		Non così i 
		duri e puri di Esquerra che, una volta confermata la loro 
		indisponibilità ad una soluzione di compromesso (niente è mai abbastanza 
		per i nazionalisti), sono stati cortesemente invitati a farsi da parte 
		dallo stesso Maragall il quale, sempre più in balia degli eventi, ha 
		rimodellato il suo esecutivo (ridotto a PSC e Verdi) e convocato nuove 
		elezioni per il prossimo novembre.  
		
		Un’operazione di potere finita male: questo è il significato reale dello 
		statuto su cui i catalani sono chiamati a pronunciarsi fra pochi giorni. 
		Un’operazione fortemente voluta da Zapatero nel contesto di una 
		strategia sempre più chiaramente volta al superamento dei principi della 
		transizione spagnola nel nome del patto con i nazionalisti (compresi i 
		terroristi di ETA) e dell’emarginazione dei popolari dalla vita politica 
		e dal tessuto sociale.  
		Un 
		nostalgico della Seconda Repubblica, 
		così si è definito recentemente il premier, ovvero di quel 
		periodo della storia spagnola che precedette la guerra civile in cui le 
		forze del giacobinismo ruppero la legalità costituzionale e cominciarono 
		la caccia alle streghe nei confronti di cattolici, conservatori e 
		democratici di ogni sorta, nel nome di un radioso avvenire più simile 
		alla repubblica dei soviet che ad uno stato diritto. Quella è la Spagna 
		che Zapatero ammira e vuole ricostituire e l’alleanza con il 
		social-nazionalismo è il miglior veicolo per fare piazza pulita 
		dell’esistente, poco importa se questo significa violare la 
		costituzione, aprire il vaso di pandora delle rivendicazioni 
		territoriali (ma sempre ideologiche), dividere il paese e riabilitare 
		all’occorrenza i terroristi e i loro fiancheggiatori.  
		I catalani 
		sono stati le pedine di questo gioco a perdere e, se solo le televisioni 
		o la stampa permettessero loro di informarsi, il 18 giugno se ne 
		andrebbero in massa al mare. Così non sarà anche perché i partiti del 
		sì hanno previsto una media di 130 atti politici quotidiani nei 
		quindici giorni di campagna elettorale e perché il governo della 
		Generalitat (o quel che ne è rimasto) sta usando gli strumenti di 
		propaganda a disposizione per stimolare non solo e non tanto la 
		partecipazione quanto l’approvazione del testo.  
		
		Impensabile, viste le premesse, una vittoria del no, sostenuto 
		per motivi opposti da Esquerra e Partito Popolare. Più probabile 
		un’astensione superiore alle previsioni, visto che lo spettacolo offerto 
		dai protagonisti potrebbe determinare un effetto deterrente su 
		un’opinione pubblica confusa e nella stragrande maggioranza dei casi 
		evidentemente disinformata.   
		1979 o 
		2006? 
		Questo il lemma della campagna per il sì, in riferimento alle 
		date dello statuto in vigore e di quello da approvare. Ma anche: Se 
		vince la Catalogna, perde il Partito Popolare, uno slogan che la 
		dice tutta sulla profondità degli ideali di chi ha concepito e imposto 
		quella che alcuni intellettuali non allineati hanno già definito la 
		peggior legge mai approvata dal parlamento della nazione. Anzi, delle 
		nazioni. 
		
		13 giugno 2006 
        * Enzo 
		Reale è il titolare dei blog 
		1972, 
		
        
        Cina e dintorni, 
		
        
        Dossier Pyongyang 
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