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              Media. Sushi, amore e videotapedi Carlo Roma
 
 Tokyo appare piena di rumori, colori e luci. Le strade, 
				lunghissime e dritte, simili ad una fitta tela di ragno, si 
				estendono su una superficie urbana enorme. Grattacieli 
				altissimi, ricoperti in molti casi da insegne pubblicitarie, si 
				allungano fino a toccare l’orizzonte in lontananza. Non c’è 
				differenza fra la notte e il giorno. Il movimento è continuo, 
				incessante, caotico. Il traffico, brulicante e indomito, 
				continua a segnare ogni ora del giorno e la megalopoli, con i 
				suoi abitanti sottoposti ad un frenetico movimento, produce 
				sempre più nuove emozioni e nuove attrazioni. L’automazione 
				regna sovrana ed i videogame, collocati in sale grandissime 
				capaci di stordire chiunque, sembrano rimbambire tutti i ragazzi 
				che li usano.
 
 In Lost in translation, film di Sofia Coppola, dunque, due 
				americani, giunti in città per motivi diversi, si immergono 
				subito in quest’atmosfera carica ed esplosiva. Il primo (il 
				brillante Bill Murray) è un famoso ed apprezzato attore 
				approdato in città per pubblicizzare un whisky. Sin dalle prime 
				ore della sua permanenza a Tokyo è preso in consegna da una 
				schiera di solerti addetti del suo albergo i quali cercano – in 
				realtà esagerando – di circondarlo di tutte le possibili 
				attenzioni, comprese quelle di natura sessuali. E’ spaesato, 
				infastidito dalla presenza costante delle sue “guardie del 
				corpo” messe a sua completa disposizione, oppresso da tante 
				inquietudini, ed impossibilitato a comunicare con il gruppo di 
				lavoro con il quale deve girare lo spot. Non riesce a riposare: 
				in piena notte, infatti, il fax si attiva automaticamente 
				rompendo il suo precario equilibrio. Decide, così, di 
				trascorrere le sue nottate insonni al bancone del bar 
				dell’albergo. Mentre sorseggia stancamente una bevanda alcolica, 
				è subito osservato da una giovane donna, semplice e carina, 
				(interpretata da Scarlett Johansson) attratta dalla sua figura e 
				dalla sua aria seria e riflessiva. Sposata da appena due anni 
				con un fotografo che la lascia nella stanza dell’albergo per 
				l’intera giornata, sola e forse stufa della routine alla quale 
				la costringe il marito, cerca di trascorrere il suo tempo 
				visitando Tokyo ed ascoltando musica. Fino a che, appunto, 
				incontra l’attore. Un uomo interessante, ricco d’esperienze, 
				vitale e simpatico: insomma, ciò di cui aveva davvero bisogno. 
				Fra i due nasce quindi un’amicizia sincera, fatta di piccoli 
				giochi, di serate passate insieme, di locale in locale. Si 
				potrebbe ben dire, insomma per concludere, due solitudini che si 
				uniscono.
 
 Sofia Coppola ha girato un film tenero ed immediato senza 
				utilizzare effetti speciali ma facendo ricorso, con 
				intelligenza, al linguaggio dei sentimenti. Un linguaggio che, è 
				bene sottolinearlo, non cade mai nel facile mielismo ma che, al 
				contrario, cerca di rappresentare l’intimità più segreta e 
				nascosta. Non è un caso che, sebbene gli spettatori si siano 
				divisi sul giudizio da assegnare alla pellicola, i 90 membri 
				dell’Hollywood Foreign Press l’hanno premiata con i Golden Globe 
				(riconoscimenti che aprono la strada agli Oscar) per la miglior 
				commedia, miglior attore protagonista e miglior sceneggiatura.
 
 30 gennaio 2004
 
 crlrm72@hotmail.com
 
 Lost in translation. Usa, 2003. Regia: Sofia Coppola. Cast: Bill 
				Murray, Scarlett Johanson. Durata 2:13
 
 
              
 
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